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Autore: nals    03/02/2016    0 recensioni
È tutta una questione di sensibilità, in fondo. Di percezione.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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Son mesi di stallo, metaforicamente comparabili al lento perpetuarsi dello stra-narrato inverno russo.
Mesi gelidi e innocui, tutto sommato, d'una serpe tonta che – anacronisticamente – insiste a mordersi la coda.

 

C'è più che dell'inquietante masochismo nel suo modo d'affrontar il dolore.
Che poi dolore non è. Non può esserlo: “dolore” è un parolone.
La palese espressione del suo essere un patetico melodramma umanizzato, piuttosto.
Eppure, eppure è l'unico termine che ti scivoli nell'immediato sulla lingua – senza impegnarti troppo a pensarne sinonimi appropriati – volendo descrivere quel qualcosa lì che le sta affilando le ossa; bucandole i polmoni.
Al contempo, è limitativo e semplicistico, ti rendi conto, ridurre quel “male” alla tripletta di sillabe confinate in “dolore”.
Esattamente quanto ignorare completamente la componente fisica alla sola psicologica del: “Levamelo dalla testa. Non voglio più. Non lo voglio più.” mormorati a voce roca dopo minuti o ore o giorni d'assoluto silenzio.
Confortanti presenze solide nell'impietosa distesa d'acqua scura; boe d'un giallo sbiadito a miglia e miglia da ciò che rimane d'una costa orfana e desolata. Se almeno fosse una preghiera sincera potresti persino provare a deglutire quel desolato sospiro finale che fila via, un po' dal naso un po' dalle labbra dischiuse, con naturalezza stronza.
Ma non c'è verso “Non lo voglio più”, certo.
Le stringi i polsi tutte le mattine dopo averle lasciato un umido bacio in fronte.
Andiamo. Andiamo. Muoviti. Ti prego.
Tirartela addosso è diventato meno faticoso delle prime volte.
Stringerla fino a farle – farvi – male e sopportarne tutto il peso – spigoli d'ossa nella carne/ lividi – pur di schiodarla dal bracciolo del divano.
Andiamo. Ti prego.
Le serri il busto con le braccia e la trascini via, trattenendo il fiato.
Hai paura a stringerla troppo forte, di sentire le coste sbriciolarsi all'improvviso contatto con i tuoi polpastrelli cauti.
Tastarle la carne delle cosce, anche, e trovarci le placche ossee che vengon fuori ai cowboy professionisti. Ti ridi in testa per pensieri d'una tale deficienza, poi piagnucoli e fai per arrenderti; alla fine resisti. Son vent'anni e passa che resisti.
Resisti.

C'è più che dell'inquietante masochismo nel suo modo d'affrontar il dolore.
Ché poi dolore è un parolone.
La palese espressione del suo essere un patetico melodramma umanizzato, piuttosto. 
O del modo viscerale con cui affronta le situazioni, e i problemi e le persone. La leggerezza deve essersene rimasta invischiata alle fibre elastiche del cordone ombelicale. Oppure disciolta o in sospensione nei fluidi placentali. Chissà.
È tutta una questione di sensibilità, in fondo. Di percezione. I decimi di febbre affatto paragonabili degli uomini e delle donne. Che a trentasette gradi c'è gente moribonda che detta le proprie memorie, pretendendo vengan recepiti paroloni bofonchiati in un fazzolettino sbrindellato stracolmo di moccio, e chi continua a sgambettare a destra e manca perché “le faccende son affar mio, se non risolve la sottoscritta la casa imputridisce e crolla con voi sotto, ché manco ve ne accorgereste.” Ecco.
Lei vegeta per un presunto cuore spezzato. Cervello, direi io. Ma diamolo per scontato.
S'agita nel sonno tutte le notti, suda, e tu stai lì a fissarla con insistenza, sperando, quasi, che lo scuro sotto gli occhi scompari con le luci del giorno nuovo, o che le guance si riempiano di nuovo, riprendano colore.
Neanche il sonno le garantisce un po' di pace.
Che sogni? Cosa sogni? Chi sogni?
Sarebbe bello entrarle in testa e sradicare i semini virulenti che l'han ridotta in quello stato.
E allora l'abbracci, ti rannicchi contro quell'ammasso di carne smunto e tremante.
Puoi seguire il percorso della colonna vertebrale con le dita: sassolini d'ossa impilati in successione, ben distinguibili e prominenti.
Quand'è successo? Com'è successo?
Ti rannicchi ancora, infili la testa tra il collo sottile, sottilissimo e la sua spalla, ricacciando le lacrime. La senti irrigidirsi di colpo, farsi pietra gelida. Boccheggi nel panico, rivivendo la sensazione de quello sguardo, del suo sguardo arrossato, allucinato, scontroso con cui accoglieva i tuoi tentativi di starle accanto quando è iniziato tutto.
Com'è successo?
“Sono io,” biascichi tirandole via i capelli fradici dalla fronte, osservi le sue ciglia folte sfarfallare leggermente, prima di sentire le dita fini arpionarsi alla tua maglia e alle lenzuola.
È così che sospira e, finalmente, s'arrende. A te, alle tue braccia.
Com'è successo?

Ricordi con tristezza quel “non fa per me” che t'ha sussurrato una delle ultime volte che l'hai sorpresa scossa dalle lacrime.
Non fa per me. Non fa per me.
Per lei. Che non è forgiata per questo mondo. Un mondo di sgomitate e spintoni; ché lei non sa darli, tanto meno incassarli. È solo lividi.
Ha vissuto una vita a tirarsi via veloce – testa bassa – addossata ai muri. A farsi piccola piccola, rannicchiarsi nel minimo spazio possibile, pretendendo una velocità sinuosa inesistente, ché mai avrebbe surclassato la sua goffaggine.
Non dar fastidio. Non far rumore. Fa' piano.
“Non fa per me.”


Poi arriva un giorno, il giorno in cui quel “farsi spazio”diventa fisiologico, inevitabile, come l'annaspare d'un non nuotatore in mare aperto, il suo disperato mordere l'aria per un Respiro.
Il giorno del “io o nessun altro”.
Perché è da vent'anni e passa che resisti.
Resisti.

 

 

Son mesi di stallo, metaforicamente comparabili al lento perpetuarsi dello stra-narrato inverno russo.
Mesi gelidi ed innocui, tutto sommato, d'un lupo incattivito, che desidera soltanto imparare daccapo a tirar fuori il muso e a dissanguare coi denti.

 

   
 
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