Prologo ~ Profeta delle nazioni
4La parola del
Signore mi fu rivolta in questi termini: 5«Prima che io ti avessi
formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto; prima che tu uscissi dal
suo grembo, io ti ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni.»
Alicante ~ Primavera 2032
Non è esattamente una pacchia avere come
genitori i due Shadowhunters più famosi del mondo.
A
volte, addirittura non mi sento figlia loro.
Sono
sempre appartenuta più ai piani alti che a questa dimensione monotona e maligna
che chiamiamo Terra.
Sembrerebbe facile vivere ad Alicante, lontana dalla baraonda di New
York e del mondo lì fuori, che ho conosciuto solo grazie ai racconti della mia
famiglia e a qualche visita sporadica all’Istituto da zio Simon e zia Isabelle.
E invece, udite udite, non lo è affatto.
Il
mio posto “d’onore”, come chiunque avrebbe giudicato e giudicherebbe la mia
condizione, in realtà era peggio di una panca misera e malandata in ultima
fila.
Per
me sarebbe stato meglio sedere su uno sgabello mezzo rotto e rischiare di
rompermi l’osso sacro piuttosto che guardare tutto dall’alto, oziando
bellamente su una comoda poltrona rivestita di velluto.
Il Consiglio? Oh certo, per loro ero una leader. Contavo quasi più del
Console e di quello stronzo dell’Inquisitore – che teoricamente è mio nonno. Ma
fuori da quell’aula, persino il più ignobile dei demoni era trattato meglio di
me.
Lorianne, prendi bei voti solo perché sei raccomandata! Lorianne, non ti becchi mai una nota se
arrivi in ritardo o non fai i compiti! Lorianne, perché tu puoi sottrarti alle
interrogazioni senza sorbirti un rimprovero o prendere un impreparato?
E
questo è solo ciò che dicevano i miei compagni di classe alle mie spalle nelle
ore scolastiche.
Lo odiavo. Odiavo vivere così. Mi sentivo come un filo d’erba nelle mani
di un bambino: torturata, schiacciata – spezzata.
Come se non bastasse, ci si metteva anche Raziel.
Qualsiasi altro Shadowhunter avrebbe pagato oro, dato un occhio e pure
di più, pur di parlare, o anche solo vedere, l’Angelo. Io avrei fatto
altrettanto per togliermelo dai piedi. Anzi: dalla testa.
Tecnicamente il sangue angelico che scorre nel mio corpo appartiene per
metà a Raziel e per metà a Ithuriel. Ma per sfortuna – o per fortuna, mettetela
come vi pare – solo il primo dimorava nel mio cervello.
Qualsiasi cosa facessi o anche solo pensassi era condizionata da quella
ripugnante vocina che brontolava di continuo. Raziel non stava un attimo zitto;
non mi lasciava mai un momento di tregua. Mi appariva persino in sogno, pressoché
ogni notte.
Continuava a ripetermi la stessa frase: Vieni con me.
Lo ammetto, a volte riusciva quasi a corrompermi. Non raramente sono
stata tentata di seguirlo. Per pura forza di volontà mi sono costretta a
restare, a rimanere qui sulla Terra. Avevo buoni motivi per farlo, o almeno
così pensavo.
C’è stato un periodo in cui la tentazione era aumentata. All’epoca mi
capitava quasi quotidianamente di meditare su che vita avrei potuto avere, se
avessi ascoltato Raziel. Se fossi andata con lui, in qualsiasi luogo avesse
voluto portarmi. La prospettiva di passare il resto dei miei giorni in Paradiso
era molto allettante.
In ogni caso, in quel tempo ero così debole, psicologicamente e
fisicamente, da non essere all’altezza di fare nulla.
Ogni cosa in cui credevo – poche, comunque – era crollata di botto. Le
persone nelle quali riponevo la mia più cieca fiducia mi avevano tradita,
voltandomi le spalle senza ripensamenti né rimorsi. Il Consiglio, forse la mia
unica certezza, mi aveva abbandonata proprio quando avevo più bisogno del suo
aiuto – e di un buon tribunale.
Tutto era diventato troppo.
Non tutti ricordano quel periodo della loro esistenza; in fondo si è
ancora piccoli per comprendere il senso del mondo e il modo in cui gira. Io
invece lo ricordo perfettamente.
Uno dei ricordi più impressi è la nascita di Jonathan. Già dalla prima
volta in cui ho visto il pancione di mamma ho capito che era incinta, anche se
avevo solo cinque anni. Ovviamente non sapevo tutto ciò che c’era dietro quel pancione – per mia fortuna,
oppure ne sarei rimasta traumatizzata.
È
stato... interessante scegliere il
nome di mio fratello.
Agli altri bambini venivano raccontate le favolette dei Grimm, di
Perrault o di Andersen; io ascoltavo la mitologia greca e romana e le peripezie
dei miei genitori. In particolare mi piaceva la storia del loro viaggio a Edom.
Era inquietante e allo stesso tempo bellissima. Solo verso i tredici anni mamma
mi rivelò la versione integrale, comprensiva di tutti i risvolti incestuosi
della vicenda, ma lo zio Sebastian mi ha affascinata sin da subito.
Così, quando papà mi chiese quale nome avrei voluto dare al fratellino
che stava per nascere, risposi: — Jonathan — senza ripensamenti.
Loro storsero un po’ il naso, ma alla fine acconsentirono. Immagino che
per loro debba essere stata dura. Comunque fui io a chiamarlo così per la prima
volta, quando finalmente potei entrare nella stanza della Basiliade dove mamma aveva
quasi perso l’uso delle corde vocali e vedere quella piccola creatura che
ronfava nella culla.
Non credo di essere mai stata gelosa di Jon sul piano affettivo. Sono
gelosa però dei suoi magnifici capelli rossi, perfettamente ricci – non come i
miei, biondi e indecisi tra il liscio e il mosso – e ovviamente del fatto che
lui sia un normale Shadowhunter.
Eh
già, la genetica mi ha tirato un brutto scherzo. Jon è semplicemente più veloce
e più forte della norma, come papà del resto. Solo la mia testa è dimora fissa di Raziel.
Jonathan mi adorava, e io adoravo lui. Mi piaceva guardarlo gattonare
nel prato e sporcarsi di terra, mi piaceva quando mamma cercava di fargli
mangiare qualcosa di disgustoso e lui arricciava la bocca in quel modo
buffissimo, mi piaceva sentire il suo respiro sulla guancia mentre dormiva.
Crescendo, il nostro rapporto è cambiato di poco. Litigavamo, certo, e
non potevo dirgli nemmeno un piccolo segreto perché sapevo che l’avrebbe
spifferato. Ciononostante non mi è mai pesato avere un fratello, nemmeno quando
dovevo aiutarlo con i compiti oppure ero costretta a rimanere a casa per fargli
da babysitter.
Chrysta mi invidiava per questo. Voleva avere anche lei un fratellino o
una sorellina, ma per zio Magnus e zio Alec era già troppo avere solo lei.
Chris
l’ha capito sin da subito. Ha sempre saputo che, arrivata a un certo punto
della vita, sarebbe cambiato tutto. Avrebbe visto uno dei suoi genitori
invecchiare e morire, e l’altro restare sempre uguale. Il suo stesso corpo
sarebbe rimasto uguale. Ma, parlando sinceramente, lei non ci ha mai dato molto
peso.
Almeno Chrysta aveva una certezza. Io invece no. Per quanto ne sapevo,
anch’io potevo essere immortale. Al contrario di Chris, ci pensavo
continuamente.
Non
sarei mai riuscita a vivere con quella consapevolezza.
E
paradossalmente il dubbio era anche peggio.
I
miei genitori, Jonathan, gli zii Magnus e Alec e Chrysta l’avevano notato, e
avevano cominciato a pormi un milione di domande credendo che io avessi una
risposta a ciò che mi stava succedendo. Non ce l’avevo, naturalmente.
Andavo a scuola senza voglia, senza scopi, senza obiettivi. Era raro che
facessi i compiti o mi impegnassi almeno ad ascoltare durante le spiegazioni. Malgrado
ciò i miei voti non calarono, quindi iniziai a sospettare che i professori
avessero davvero delle preferenze nei
miei confronti. La conferma mi fu data quando la prof di Lingue Demoniache mi
diede una A ad un compito sul quale avevo scritto solo il nome e scarabocchiato
qualcosa di non troppo carino.
I
pettegolezzi dei miei compagni di classe si diffusero molto velocemente. Venni
etichettata come la lecchina di turno, quella che si becca sorrisetti e pacche
amichevoli sulle spalle invece di ramanzine e rimproveri. Provavo a spiegare
che la realtà non era quella, ovviamente senza risultati. Alla fine mi ci
abituai.
Una parziale svolta nella monotona e tutt’altro che piacevole routine ci
fu quando Logan e Trish vennero a stare da noi perché il loro mentore, Sikh,
era dovuto scappare in Egitto per motivi familiari, e nessun altro tutore aveva
le referenze richieste da zia Iz. Così si iscrissero all’Accademia, nella mia
stessa classe – abbiamo nove mesi e più di differenza, ma loro hanno iniziato a
studiare un anno prima.
Prima di allora li vedevo una volta ogni morte di Papa, e non esagero
nel dire che non ricordavo nemmeno la loro voce. Con Trish parlavo
relativamente spesso, ma Logan era per me quasi uno sconosciuto. Non ero legata
a loro come lo ero, e lo sono tuttora, con Chrysta.
Quando si presentarono alla nostra porta ero sola in casa. Pensavo che
avremmo trascorso le tre ore che ci separavano dal ritorno dei miei genitori in
un imbarazzante silenzio, ma invece Trish attaccò a chiacchierare a manetta.
Rimasi sorpresa da fino a che punto riuscì a trascinarmi nella conversazione, e
dalle capacità oratorie che aveva.
Trish – che all’epoca chiamavo ancora con il
nome completo, Patricia – è molto simile a zia Iz nel carattere, però di fisico
sinceramente non so di chi abbia preso. Certo, zia è formosa, ma non quanto
Trish. Lei è decisamente oversize.
Già a quattordici anni aveva un fisico a pera invidiabile, e i capelli lunghi e
ricci la rendevano una mini Sophia Loren. Zio Simon invece la paragonava a
Jennifer Lawrence.
Non si può dire che Logan non regga il confronto. Sotto il profilo del
carisma Trish lo batte – anzi, lo umilia – ma la sua irrefrenabile curiosità e
la gioia che gli sprizza da tutti i pori compensano questa mancanza.
Ripensandoci ora, a distanza di anni, forse fa anche un po’ schifo dire
che mi ero presa una cotta tremenda per mio cugino. Mi correggo: ero innamorata pazza di mio cugino.
Logan chiaramente non ricambiava. All’epoca stava con Tara, una Seelie.
O era un’Unseelie? Non ricordo... in ogni caso, sul piano amoroso ha preso
dalla madre.
Così io mi sentivo morire dentro.
No,
sul serio, non ero disperata fino a quel punto. Capivo che Logan non fosse
interessato a me: ha sempre amato l’avventura e qualsiasi cosa di estremo, e io
non potevo – non posso – esattamente definirmi tale.
Capivo anche che il mio essere Chiaroveggente allontanasse chiunque. A
molti faceva paura. A me stessa faceva paura. E a volte mi stava bene così: la
paura mi tratteneva dall’azzardare azioni di cui poi avrei potuto pentirmi.
Come, ad esempio, seguire Raziel.
Con
la mente del tutto occupata da pensieri legati alla scuola, agli amici e a
Logan – soprattutto a lui – al tempo non ci davo più di tanto peso. La voce di
Raziel nella mia testa era stata soppiantata da quella di Logan, le immagini
dell’Angelo sostituite dai film a luci rosse con protagonista, sottolineo, mio cugino.
Ma Raziel si vendicò. Approfittò di un mio momento di debolezza per
inculcarmi un’idea che in circostanze diverse non avrei mai nemmeno
lontanamente contemplato.
E, come nella maggior parte delle normali situazioni drammatiche
successe alla maggior parte dei normali adolescenti, c’entrava il mio
ex-fidanzato.
Be’,
con Jean c’è stato il colpo di fulmine. In fondo, chi non sarebbe attratto da
un meraviglioso francese dall’adorabile accento con tanto di erre moscia e un
fisico da fare invidia allo Shadowhunter più allenato del mondo?
E
poi, mi chiamava Lorian. Si mangiava
l’ultima sillaba e trasformava la e
in una a. Questo suo difettuccio di
dizione era terribilmente sexy. In realtà, Jean era sexy da capo a piedi.
Era
simpatico, aperto, divertente, ma anche cupo e misterioso. Si presentò in
classe senza conoscere un’unica parola in inglese – si sa, i francesi sono
talmente nazionalisti da non parlare lingue diverse dalla loro, figuriamoci poi
se sono Shadowhunters – e totalmente sprovvisto di libri e altro materiale
didattico. Ciononostante sorrideva come un bambino, e non smise nemmeno quando
il professore iniziò a rimproverarlo. (In effetti, credo non capisse niente di
ciò che gli stava dicendo).
Nei primi tempi fu difficile riuscire a comunicare con lui. Chiesi a
papà di insegnarmi il francese – anzi, di rinfrescarmelo in quanto seppur
avendolo studiato non ricordavo nulla – e ascoltai ogni singolo album di Céline
Dion per imprimermi nella memoria la corretta pronuncia. Mossa abbastanza
sbagliata, dato che Céline e le licenze poetiche, in particolare nella
pronuncia, andavano molto d’accordo.
Quando finalmente ero in grado di formare un periodo sensato senza
confondere gli articoli francesi con i loro corrispettivi in greco antico e
avevo preso in mano tutto il mio coraggio per provare a intavolare una
conversazione con Jean, lui aveva già imparato l’inglese. Coglione.
Ma naturalmente questo andò a mio favore. Chiacchieravamo tanto, anche
se capitò svariate volte che “the pen is on the table” e “le stylo est sur la
table” fossero decisamente più logici di qualsiasi altra frase ci fossimo
detti.
Al sesto appuntamento ci scappò il bacio. E da allora i baci furono
all’ordine del giorno.
Non sapevo, però, che con quei baci Jean mi avesse marchiata come Giuda
aveva fatto con Gesù.
Non sapevo che con quei baci mi avesse designata come traditrice.
Chiunque ti sia vicino si fa del male,
Lorianne. E fa del male anche a te. Sei destinata a una vita solitaria,
figliola. Tutti noi Angeli lo siamo, anche se vogliamo farvi credere il
contrario. Ma magari potresti mettere i tuoi talenti al servizio di una causa
superiore. Rinunciare a qualche piacere per avere finalmente uno scopo. Puoi
farcela, Lorianne. Lo so, e lo sai anche tu.
Sì, lo sapevo. Sapevo cosa fare.
Il problema era dirlo alla mia famiglia.
MA CIAAAO!