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Autore: shamrock13    07/02/2016    1 recensioni
Ho letto Life and Death, e diciamolo… Meh.
Ho iniziato a pensare a tutte le cose che non mi erano piaciute, a come quei personaggi erano poco convincenti, a come sarebbe dovuta andare la storia se lui fosse stato un umano e lei una vampira, ed ecco qui.
Non sono Bella ed Edward (o Beau ed Edythe), volevo provare ad inserire delle dinamiche nuove.
E' la mia "alternativa", spero vi piaccia!
Dal cap. 1:
Anche lei alzò il viso e voltò la testa verso di me, lanciandomi un’occhiataccia. Mi voltai, con un’immagine piuttosto confusa in mente. Lo sguardo che mi aveva lanciato non era solo infastidito, era ostile, minaccioso. Proveniva da un volto molto bello, da due occhi… castani? Molto chiari?
Evidentemente avevo visto male perché sembravano addirittura gialli, o ambrati. E quello non è un colore “giusto” per gli occhi, no?
E poi, era proprio così bella? Mentre l’impressione di bellezza sbiadiva già, a causa della brevità del momento in cui l’avevo guardata, l’altra sensazione che avevo avuto, quella di minaccia, permaneva nella mia mente. Un brivido mi percorse la schiena, come se il mio corpo mi dicesse "Per un pelo…"
Che cosa stupida...
Genere: Avventura, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clan Cullen, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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Introduzione brevissima.
E’ molto che non scrivo qualcosa, l’altra settimana ho letto Life and Death, e diciamolo… Meh.
Ho iniziato a pensare a tutte le cose che non mi erano piaciute, a come quei personaggi erano poco convincenti, a come sarebbe dovuta andare la storia se lui fosse stato un umano e lei una vampira, ed ecco qui. Mi sono ritrovato con questo episodio che mi frullava per la testa e non sono stato in pace finchè non l’ho scritto.
Non sono Bella ed Edward (o Beau ed Edythe), volevo provare ad inserire delle dinamiche nuove.
Forse andrà avanti e forse no, per ora la lascio aperta e prometto almeno un altro capitolo.
Spero vi piaccia!
 
 

Alternativa

Incontro

 
1 Ottobre 2015. Primo giorno di lezioni del secondo anno all’università del Maine.

Non mi dispiaceva essere tornato, gli ultimi giorni di vacanza si erano un po’ trascinati, consapevole di dover presto lasciare casa, ma eccitato per ciò che mi aspettava. Avevo ripreso possesso della stessa camera dell’anno precedente, nel dormitorio F, con Matt, con cui avevo stretto una buona amicizia.

Respiravo l’aria umida e fresca del campus mentre le mie suole calcavano il vialetto selciato che portava agli edifici delle aule, lo zaino buttato sulla spalla destra, con dentro i libri per la giornata e il portatile. Nelle orecchie qualche classico Rock a volume non troppo alto mi faceva compagnia. Scrutai il cielo con aria dubbiosa, chiedendomi se non avrei fatto meglio a buttarmi sulle spalle, o almeno nello zaino, una giacca impermeabile; per ora, nonostante le nuvole basse, ero salvo.

Dovevo rientrare nell’ordine di idee di trovarmi in un clima diverso rispetto a quello del North Carolina.

Mentre mi avvicinavo all’aula scambiai un cenno di saluto con qualche compagno di corso, facce note ma niente più che conoscenti. Non sono mai stato un tipo troppo espansivo, e ho sempre selezionato con una certa cura le persone con cui aprirmi un po’ di più.

Entrai nell’aula, notando la cattedra ancora vuota, e iniziai a salire i gradini per raggiungere un posto nelle file centrali, dal momento che le prime erano già occupate. La smania da primo giorno... Mi sedetti adiacente al corridoio centrale, così da evitare di avere persone su entrambi i lati, ed estrassi carta e penna dallo zaino.

Una volta pronto, lasciai spaziare lo sguardo sulle altre persone che popolavano l’aula, ricordando un volto o l’altro, o semplicemente osservando il modo di muoversi o di chiacchierare dei vari gruppetti che si venivano man mano a formare. Nessuna invidia, essere uno dei pochi a stare in silenzio per i fatti miei non mi metteva particolarmente a disagio.

Lo sguardo mi si fermava sempre più spesso sulle ragazze che avevo notato l’anno precedente, prendendo svogliatamente nota dei nuovi look e chiedendomi se, quest’anno, avrei trovato qualcuna con cui attaccare “spontaneamente” bottone e magari iniziare a frequentarci…

Mi conoscevo abbastanza da dubitarne seriamente.

Di nuovo, non per un problema di timidezza. L’anno precedente ci avevo anche provato, alle feste o alle lezioni, a scambiare due parole con questa o quella ragazza che mi sembrava interessante. Ed ecco il punto: sembrava. La mia mente purtroppo correva spesso più in fretta della realtà, tendendo ad idealizzare quello che vedevo così che, quando poi effettivamente mi decidevo a buttarmi, tutto risultava solo una grossa delusione, incapace di suscitare il mio interesse.

Il professore entrò in aula, disponendo i suoi appunti sulla cattedra e preparandosi alla lezione. Gli alunni ancora impegnati a chiacchierare e quelli che ancora dovevano prendere posto iniziarono a muoversi più celermente.
Ero ancora preso dai pensieri riguardanti la socializzazione con l’atro sesso, pratica dalla quale, mi faceva spesso notare Matt, non potevo esimermi, indipendentemente dalla soddisfazione personale che ne traevo, dato che ero comunque tenuto a presentargli tutte le ragazze con cui scambiavo anche solo una parola, quando un tipo decisamente corpulento entrò nella fila immediatamente davanti alla mia, rivelando la persona che stava salendo le scale dietro di lui.

Ora, a noi ragazzi piace categorizzare.

Abbiamo un’immagine delle gambe perfette, del viso perfetto, delle mani perfette. Ognuno ha i suoi gusti e ognuno è pronto a fare dei compromessi, cose stupide che non si dicono in giro, se non in un ambiente maschile assolutamente connivente, del tipo “Per una con le tette così, come piacciono a me, sono disposto anche a passare sopra al culone”.

Per me sono sempre stati i capelli. Per i giusti capelli rossi -e parlo di rosso irlandese naturale, non quelle tinte orribili e violacee che si vedono spesso in giro- sono disposto a fare grossi sconti. Anzi, meglio, supponiamo che ogni tratto fisico, mentale e caratteriale contribuisca ad assegnare un certo punteggio ad una ragazza. I capelli rossi, per me, sono un gran bel bonus.

Ecco perché, nel momento in cui davanti a me si materializzò quella chioma di un meraviglioso rosso aranciato, che già sotto le luci al neon dell’aula sembrava risplendere come un acero in un’assolata giornata autunnale, il mio cervello si congelò completamente.

Fu un secondo, perché la piccola ragazza a cui apparteneva, si stava affrettando verso gli ultimi banchi tenendo lo sguardo fisso ai gradini. Non potei farne a meno, la seguii con lo sguardo finché potei, poi girai anche la testa nella sua direzione.

Non pensavo se ne sarebbe accorta, ma anche lei alzò il viso e, mentre camminava, con un movimento decisamente rapido voltò la testa verso di me, lanciandomi un’occhiataccia. Colto alla sprovvista mi voltai, con un’immagine piuttosto confusa in mente. Lo sguardo che mi aveva lanciato non era solo infastidito, era ostile, minaccioso. Proveniva da un volto molto bello, da due occhi… castani? Molto chiari?

Evidentemente avevo visto male perché sembravano addirittura gialli, o ambrati. E quello non è un colore “giusto” per gli occhi, no? Saranno state le luci, pensai.

E poi, era proprio così bella? Mentre l’impressione di bellezza che avevo avuto sbiadiva già, a causa della brevità del momento in cui l’avevo guardata, l’altra sensazione che avevo avuto, quella di minaccia, permaneva nella mia mente. Anzi, si rafforzava. Un brivido mi percorse la schiena, come se il mio corpo mi dicesse qualcosa del tipo “Per un pelo…

Che cosa stupida.

Mentre il nell’aula scendeva il silenzio e io mi apprestavo a prendere qualche appunto, cercai di definire quello che mi era appena capitato, e la conseguente reazione assolutamente involontaria e… istintiva? Forse quella era la parola che cercavo, una reazione che non veniva dal mio pensiero cosciente ma da qualche altra parte del mio cervello, una parte che non ero abituato ad usare.

Appuntai l’e-mail del professore, a cui eravamo invitati a rivolgere tutte le domande e i dubbi che potevamo avere, a proposito del corso e, con una scrollata di spalle, mi liberai dei pensieri che stavo facendo, che mi parevano molto poco coerenti e decisamente strambi.

Mi ripromisi però di buttarmi uno sguardo alle spalle nel corso della lezione, per verificare se, effettivamente, la rossa era carina. Quello sì che era un pensiero che valeva la pena di rielaborare. E, se non altro, mi avrebbe dato qualcosa su cui sperare, dato che la lezione iniziava già a prendere una piega noiosa.

“5 minuti di pausa.” Disse il professore, dopo la prima ora di lezione. Come molti altri posai la penna e mi alzai, lasciando che la sedia a ribalta si richiudesse con uno scatto. Con un movimento che speravo sembrasse fluido e naturale, mi voltai appena in tempo per notare la chioma che cercavo, la quale spiccava sulle teste bionde e castane degli altri studenti, che spariva all’esterno da una delle porte sul fondo dell’aula.

Mancata…” pensai. Mi rimisi a sedere con un certo disappunto e mi preparai alla seconda ora di lezione.

Passarono i minuti, le penne grattavano sui fogli, le tastiere dei portatili ticchettavano mentre tutti prendevano appunti in maniera piuttosto diligente –niente è bello e ordinato come la prima pagina di appunti di un nuovo corso, ma sapevo che già la settimana successiva la storia sarebbe stata ben diversa- e io mi agitavo inqueto sulla sedia. All’inizio non me ne accorsi. Solo piccoli movimenti involontari delle spalle o del collo ma, quando mi piegai più verso il foglio, come se volessi difendermi o nascondermi, e il mio vicino di banco mi lanciò un’occhiata in tralice, presi coscienza del mio comportamento.

Mi obbligai a raddrizzarmi e mi concentrai meglio su cosa stava succedendo.

Era una sensazione nuova, strana ed insolita, come quella che avevo avuto prima. Mi sentivo minacciato. Anzi no, non minacciato. Mi sentivo maledettamente osservato e provavo una certa ansia, come se fossi in attesa di qualcosa, con ogni muscolo pronto a reagire. Mi guardai attorno e tesi le orecchie, ma non capii cosa stava accadendo.

Poi, come d’istinto, mi voltai e piantai gli occhi, a colpo sicuro, sulla ragazza dai capelli rossi, una dozzina di file più indietro, seduta da sola in fondo all’aula, con un banco tutto per lei.

Non feci quasi in tempo ad appurare che era lei che mi stava fissando, che quella aveva già distolto lo sguardo. E non lo fece platealmente, girando la testa da un’altra parte, ma in modo molto più sottile, alzandolo di quel che bastava per farlo passare sopra la mia testa, verso la cattedra, così da farmi sorgere il dubbio che mi stesse effettivamente guardando.

Certo quella sua furbizia passò in secondo piano, così come la sensazione di essere osservato, nel momento in cui misi a fuoco il suo volto. Non era bella, era commovente. Non potei fare altro che fissarla per due secondi buoni, fino a quando le due ragazze sulla fila subito dietro a me ridacchiarono del mio comportamento curioso, allora mi costrinsi a voltarmi.

Non avrei saputo dire in quel momento le fattezze che aveva quel volto, perché non ero riuscito a concentrarmi su di esso nemmeno un attimo. Era come se la mia mente avesse preferito crogiolarsi nelle emozioni che quel viso mi scatenava, completamente, piuttosto che perdere anche un solo istante per imprimerselo nella memoria.

Era una cosa inaspettata, alla quale non ero preparato. Ci sono donne di una bellezza tale da scatenare potenti emozioni, non lo nego, ma quello… Non credevo che fosse possibile.

Ero frastornato.

Continuai meccanicamente a prendere appunti per il resto della lezione, ma mi sentivo chiamato verso quella ragazza, come un cavallo strattonato dal morso in bocca, il collo in tensione pronto a girarsi per rispondere al richiamo, trattenuto però dalla sola volontà, che mi impediva di girarmi ancora.

La lezione finì, lasciandomi decisamente stanco di quella battaglia interiore, e stranamente sconvolto. Proprio non mi capacitavo di cosa cavolo fosse successo.

Mi alzai e riposi le mie cose nello zaino con molta calma, cercando nuovamente di non voltarmi verso il fondo. L’aula si era vuotata quasi del tutto quando mi concessi una rapida occhiata. Lei ovviamente era sparita.

Chiusi le zip dello zaino, mi passai una mano tra i capelli, sospirando, mentre con l’altra mi ributtavo la borsa in spalla, pronto a spostarmi nell’aula successiva.

“Ciao.” mi sorprese una voce con un timbro particolarissimo. Era bassa, quasi roca, ma incredibilmente musicale.

Mi voltai e lei era lì, a meno di un metro da me.

Era bassa: nonostante fosse un gradino più in alto dovetti comunque abbassare la testa per guardarla. Sorrideva a labbra chiuse e mi guardava. Avevo visto giusto: gli occhi, grandi e luminosi, erano di un castano dorato che non avevo mai visto. Ci caddi dentro. Non saprei descriverlo in altro modo.

Non respiravo più, neanche mi avesse mollato un montante al diaframma invece che salutarmi. Avevo aperto la bocca per ricambiare il saluto, quando ancora le davo le spalle, e ora me ne stavo lì come un fesso.

Lei alzò una mano dalle dita sottili, con le unghie curate e rosee, stranamente appuntite –saranno state pratiche? Non c’era il rischio di cavarsi un occhio con delle unghie così? Sembravano più artigli…- per sistemarsi una ciocca di quei pazzeschi capelli rossi, che le cadevano a onde vaporose dietro la schiena e sulla spalla sinistra, portandosela dietro l’orecchio.

Le sue labbra piene si dischiusero, mostrando dei denti bianchissimi e perfetti, e i suoi occhi si illuminarono ancora di più. Quel viso era come una sinfonia, ogni sua mossa, ogni espressione era un crescendo, che mi staccava da dove mi trovavo e mi trascinava con sé, piegandomi a quella bellezza straordinaria.

“Questo è il mio primo anno qui, mi chiedevo se saresti così gentile da accompagnarmi alla prossima lezione.” Disse, con una cortesia inaspettata dal momento che non poteva non essersi accorta che ero paralizzato, in apnea, con un’espressione totalmente ebete sulla faccia.

Datti un contegno!” mi dissi, anzi mi urlai, con urgenza.

Mentre mi schiarivo la voce, e la testa, per mettere assieme una risposta, registrai che quella parte stranamente attiva del mio cervello, dando contro a tutto il resto di me, mi stava urlando di girare i tacchi e scappare.

Vai a capire come mai…

 
***
 
 
1 Ottobre 2015. Tanti auguri a me.

Erano esattamente otto mesi che non uccidevo un umano. Non pensavo di avere tutta questa forza di volontà ad essere sincera. Il mese passato con Carlisle e la sua famiglia, apprendendo questo nuovo modo di vivere, era stato più utile di quanto pensassi.

Sin da quando avevo sentito parlare del loro clan e delle loro scelte di vita (le storie su di loro avevano iniziato a girare dopo lo scontro coi Volturi) mi ero incuriosita parecchio, ma da lì a metterlo in pratica… Diciamo che non avrei scommesso troppo su di me.

Sono stata una nomade assassina per cinquant’anni, fin dalla mia creazione. Nomade e solitaria, in fuga da me stessa. Uccidere un umano dopo l’altro è sempre stato un peso per me, ma non avevo mai sentito parlare di un’altra via. Fino ad otto mesi fa.

All’inizio, come mi è sempre capitato, sono stati la curiosità e il desiderio di apprendere qualcosa di nuovo a spingermi, ma anche il sollievo di non dover più uccidere ha fatto la sua parte. Ancora di più ad attirarmi è stata la promessa di poter vivere da qualche parte, stanziarmi per qualche anno, e, forse, spingermi fino ad intrattenere dei rapporti con altre persone.

Avere la mia illusione di normalità, un po’ come per i Cullen e il loro eterno liceo. Probabilmente sarei anche potuta rimanere con loro, ma essere l’unica spaiata in mezzo a tutto quell’amore era peggio della sete. Faceva male, fisicamente.

Così mi ero iscritta al college. Sarebbe stato il mio vero banco di prova.

Oltre alla possibilità di frequentare degli umani, c’era un altro motivo per cui l’avevo fatto. Imparare. Sono sempre stata una ragazza curiosa ed interessata alle cose. Con un’eternità a diposizione, questa mia inclinazione è diventata ciò che mi definisce: sono sempre alla ricerca di qualcosa di interessante da studiare.

Inutile dire che la possibilità di farlo in maniera “tradizionale”, seduta ad un banco, lavorando con altre persone, suonava come molto invitante dopo cinquant’anni passati sola sui libri.

Osservai con gratitudine il cielo plumbeo, mentre mi dirigevo verso l’aula in cui avrei iniziato a frequentare le mie lezioni. L’Università del Maine era una delle poche che avrei potuto frequentare con relativa tranquillità, senza pericolo di dovermi nascondere per le troppe giornate di sole. Camminando, tenendo il passo cadenzato del gruppetto che mi precedeva per sembrare più umana, annusavo profondamente.

Mi stavo ancora abituando al profumo dei mortali, cercando di tenere sotto controllo l’effetto che mi faceva. Non che la cosa fosse nuova per me, non ero mica una neonata, ma dovevo far capire al mio corpo che, in nessun caso al mondo, quell’odore avrebbe rappresentato il cibo per me. Non più.

Su questo ero fermamente decisa.

Osservavo le movenze degli studenti, ascoltavo le conversazioni poco impegnate che sancivano il riallacciarsi dei rapporti dopo l’estate. Valutavo come avrei fatto a crearmi una cerchia di amici umani, quanti sarebbero dovuti essere, quali scuse avrei usato per parlare con loro. Non che temessi di non farcela, la mia specie passa difficilmente inosservata e non ha problemi a farsi piacere.

Lo avevo già fatto in passato.

Solo che qualunque relazione avessi iniziato era durata poco e terminata inevitabilmente con un pasto.

Ero, lo confesso, incuriosita, eccitata ed ansiosa al pensiero dell’esperienza nuova e insolita che mi aspettava.

Mentre sistemavo la tracolla sulla spalla, per non sembrare troppo “statica” mentre camminavo, riflettevo sul fatto che la mia storia di copertura, la studentessa trasferita da un altro college, mi avrebbe fornito materiale a sufficienza per approcciare qualcuno. E poi, probabilmente, molti ragazzi avrebbero tentato di approcciare me. Anche in questo caso stavo valutando seriamente come agire, non volevo certo sembrare una succube.

Entrai in aula dietro ad un ragazzo decisamente grosso, che si affrettava verso i banchi liberi in fondo all’aula. Il professore era già alla cattedra.

Tenevo gli occhi bassi sui gradini davanti a me, fingendo di concentrarmi su dove mettevo i piedi ma, in realtà, per evitare di incrociare lo sguardo con qualcuno, almeno all’inizio. Sapevo che l’insolito colore delle mie iridi poteva mettere a disagio, per quanto fosse migliore del rosso rubino che avevano fino all’anno scorso.

Quando lo studente che mi precedeva si infilò in un posto libero, notai con la coda dell’occhio una testa che seguiva il mio passaggio. Inspirando alzai lo sguardo istintivamente per curiosità. Non fu quello che vidi a colpirmi, un ragazzo piuttosto ordinario. Carino, un viso simmetrico, occhi e capelli castani, zigomi e mascella ben marcati ma non aggressivi.

Fu l’odore.

Anche quello, razionalmente non era particolare. Era gradevole, con note di terra bagnata e vino rosso, ma molti umani possiedono fragranze ben assortite, sperimentabili senza reazioni particolari. Fu il mio istinto a reagire a quell’odore in maniera decisamente potente, scatenando un’improvvisa ondata di ostilità aggressiva.

Fortunatamente mi ero nutrita il giorno prima e mi stavo muovendo in una direzione. Riuscì quindi a direzionare il mio corpo verso il fondo dell’aula e distogliere lo sguardo, senza lasciar trasparire quello che stavo provando.

O almeno, lo speravo.

In me si stava però scatenando qualcosa. Era come la sete che avevo provato da neonata. Incontrollabile, improvvisa, totale. Tutta la mia mente era impegnata in una lotta disperata per imbrigliarla.

Con movimenti forse troppo rigidi mi portai in ultima fila e mi lasciai cadere su uno dei seggiolini, con ancora la borsa a tracolla addosso. Mi immobilizzai, trattenni il respiro.

Tanto valeva continuare a respirare a pieni polmoni per quello che serviva. Quell’odore, quel sapore erano impressi dentro di me mentre il veleno mi inondava la bocca. Anzi, era come se il mio veleno avesse ora quell’irresistibile sapore.

E con la sete arrivò il dolore. Come se avessi inghiottito della brace, ed essa si fosse incastrata in fondo alla mia gola. Succhiai e deglutii il veleno, automaticamente, ma fu come gettare alcool sulla fiamma, che divampò ancora più alta.

Una pellicola scarlatta mi annebbiò la vista, mentre iniziavo a perdere tutto quel controllo che ero convinta di aver costruito. Sentii il viso che si contraeva in una smorfia di collera e desiderio, mentre tentavo con tutte le forze di soffocare il ringhio che mi stava salendo dal petto.

“Scusa, è liber-” Il ragazzo che aveva pronunciato quelle parole rinculò di mezzo metro buono prima di scegliere di cercarsi una sedia che fosse ad almeno 5 metri da me, dopo che mi fui girata a guardarlo. Notai che la mia fila era deserta. L’istinto degli umani ci vedeva giusto a volte.

Chiusi gli occhi e divenni una statua. Che idiota ero stata. Tutta contenta ed elettrizzata, seguendo la mia curiosità come un’ingenua, convinta che, dopo qualche mese di rinunce, tutto sarebbe stato in discesa. Ed eccomi qui, smentita il primo giorno, per colpa di quell’odore…

La brace che avevo in gola aveva deciso di farsi crescere le braccia, e utilizzarle per aggredire sadicamente il mio esofago, tagliuzzandolo con lamette da barba. Se ne avessi avuto la capacità, sarei probabilmente stata in un bagno di sudore.

Incredibilmente, non era l’odore l’aspetto peggiore. Era la progressiva consapevolezza di perdita di controllo su me stessa. Ero sempre più ipnotizzata da un rombo pulsante che sentivo in fondo alla mente, ai limiti della coscienza. Sembrava un tamburo di guerra che rullava sempre più forte e sempre più minaccioso, ritmato, frenetico. Ero solo vagamente conscia del fatto che quel suono era il cuore del ragazzo castano, che percepivo, nitido ed invitante, sopra a tutti gli altri suoni, come se la mia stessa essenza si fosse incatenata a quel suono, nel momento in cui gli ero passata accanto.

L’animale che era in me si ribellava con forza sempre maggiore, graffiando dolorosamente coi suoi artigli affilati l’interno del mio cranio, cercando di costringermi ad agire, a fare qualcosa, a placarlo!

“5 minuti di pausa.” Quelle parole mi sorpresero. Avevo perso la cognizione del tempo, sprofondata nel dolore della sete e nella mia immobilità. Un refolo d’aria, proveniente da una porta dietro di me, mi concesse di respirare e riprendere un minimo di lucidità. Mi fiondai all’esterno, prima di ricadere nella confusione della mia mente.

Iniziai a pensare, a valutare alternative che comprendevano la mia fuga, per ricominciare da qualche altra parte. Annusai l’aria e gli aromi degli altri umani che avevo intorno. Non erano nulla di speciale o di irresistibile. Potevo farcela. Potevo girarmi e correre.

Ma volevo?

Morbosamente la mia mente mi ripropose la fragranza che mi aveva tanto scossa. Era una cosa che non avevo mai provato, un aroma di un altro pianeta. Pensai a molti degli umani di cui mi ero cibata, alla soddisfazione con cui l’avevo fatto, alle privazioni degli ultimi mesi.

No! Non volevo uccidere, volevo passare qualche anno ad imparare ad essere umana di nuovo. Ma quel profumo…

Non era una cosa che capitava molte volte nella vita, anche nella vita di un immortale. Ne avevo sentito parlare, ovviamente. Nessuno che conoscevo aveva saputo resistere a quel richiamo e tutti ne parlavano come di un’esperienza sconvolgente e assolutamente appagante. Avevo sentito di un solo vampiro che aveva resistito alla chiamata che stavo provando io in quel momento, e tanto mi bastava a decidere.

Non sarei mai stata incatenata ad un umano come aveva fatto Edward Cullen. Non sarei stata una schiava.

Eccola lì la mia decisione.

8 mesi potevano bastare per ora.  Ci avrei riprovato, magari più avanti, magari dopo una sola scappatella, ma come per il resto, anche in questo caso avrei affidato le mie azioni alla mia curiosità. Volevo sapere come sarebbe stato cedere a quel richiamo. Volevo sapere cosa avrei provato riempiendomi la bocca di quel sangue…

Il mio corpo fremette al solo pensiero, pronto a scattare nella caccia, ma dovevo essere paziente. Sarei tornata a sedermi e avrei preparato il mio banchetto con pazienza e perizia. Ora che avevo deciso mi sentivo perfettamente in grado di reggere per un’altra ora.

Solo una.

Tornai al mio posto ed inspirai a fondo. Nonostante l’aula piena individuai la fragranza che cercavo con facilità, e la mia sete rispose. Questa volta però me la tenni stretta, la coccolai, le dissi che l’avrei soddisfatta. E quella fece le fusa.

Il tamburo scandiva ora una canzone di morte e vittoria, che ascoltavo con gioia.

Individuai il ragazzo, la sua nuca, i suoi capelli, corti ma scarmigliati. Anche da quella distanza potevo chiaramente percepire il sangue scorrere nella giugulare che presto avrei addentato.

Non me ne accorsi ma continuai a fissarlo finché non si girò, con uno scatto, trovando immediatamente i miei occhi. Li spostai subito, ma mi maledissi in silenzio. Mi aveva colto di sorpresa!

E quegli occhi… La loro forma, il loro colore… Sembravano stranamente familiari.

Scacciai quel pensiero inutile e cercai di concentrarmi solo sul tempo che passava, lasciandomi stranamente andare ad un sospiro di sollievo quando la mia preda distolse lo sguardo da me dopo un paio di secondi. Non potevo permettermi di metterlo sul chi va là, quando mi fossi avvicinata a lui tutto sarebbe dovuto andare liscio, senza sbavature.

Se fossi stata brava, forse, sarei addirittura potuta rimanere qui. Falsificare un’identità ed inserirla nel sistema era stato una seccatura, non mi andava di rifarlo così presto. Certo, avrei dovuto procurarmi delle lenti a contatto per qualche settimana…

Continuai a tramare fino alla fine della lezione. Mentre tutti si alzavano io ricostruì quanto rimaneva del mio autocontrollo, e mi avviai verso di lui, osservandolo mentre riponeva le sue cose con ordine. Era alto, le spalle larghe fasciate da un maglioncino color vinaccia a girocollo… Quel collo…

Inspirai a fondo, per prendere fiato, esitando un attimo sotto la forza del suo odore, come colpita da un ariete. Irrigidii buona parte dei muscoli, per evitare gesti inconsulti, e poi parlai.

“Ciao.”

Mentre si girava sorridevo gentile, cercando di curare al massimo quella facciata mentre dentro di me si agitava un mostro, ansioso di essere nutrito.

Vidi, ovviamente, che non era indifferente al mio aspetto per quanto anche io, ora che gli ero così vicina, non potevo dirmi indifferente al suo. Di certo l’effetto che il suo sangue aveva su di me mi condizionava anche in quello, ma c’era qualcosa che mi incuriosiva parecchio dietro alla faccia stupita che mi fissava, per nulla inaspettata.

Vedevo i suoi occhi stranamente consapevoli in quel viso momentaneamente inespressivo, quasi che conoscesse le mie intenzioni. Una strana ansia di essere scoperta mi spinse ad osare di più, caricando di tutto il fascino che potevo il mio sorriso, mentre mi spostavo una ciocca di capelli. La sua reazione parve promettente.

Sentii il battito del suo cuore accelerare, quel suono mi era già stranamente affine. Vidi il sangue affluire al suo viso, incredibilmente invitante. Dovevo agire in fretta, non sapevo per quanto sarei riuscita a mantenere il controllo.

Con voce seducente pronunciai le parole che lo avrebbero costretto a seguirmi, decretando la sua morte.

“Questo è il mio primo anno qui, mi chiedevo se saresti così gentile da accompagnarmi alla prossima lezione.”
  
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