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Autore: ChiiCat92    08/02/2016    3 recensioni
"No.
No.
Non è possibile che non siano venuti.
La Ragazza dei Fiori non mi avrebbe mentito.
No.
No.
- Kaddie? -
Il cuore si ferma. Muoio per qualche secondo probabilmente. Poi riparte, torna il respiro, il sangue va in circolo."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kadaj, Loz, Yazoo
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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28/01/2016

 

Frei im freien Fall

 

È la voce della Mamma. La sento, mi chiama.

Ha bisogno di me.

Ripete ancora e ancora il mio nome, lentamente, chiaramente. Lettera per lettera lo sillaba come se io non riuscissi a capirla.

Ma la capisco.

Vorrei, come vorrei correre da lei.

Il mio corpo vibra nel bisogno spasmodico di raggiungerla, si tende, si contorce, sento le spalle slogarsi, la schiena spezzarsi, le ginocchia cedere sotto lo sforzo.

Mi sento gridare, riconosco la mia voce, e sento il dolore della gola che si scortica e il sapore del sangue sulla lingua.

Se potessi mi strapperei le braccia a morsi pur di liberarmi e andare da lei. Se potessi.

 

Quando apro gli occhi è difficile distinguere l'incubo dalla realtà.

Sto ancora gridando, sto ancora scalciando, sto ancora cercando di strapparmi via le braccia per potermi anche solo mettere seduto.

Sto ancora provando dolore.

Quanto tempo passa prima che la porta della stanza si apra, inondandola di luce, non saprei dirlo. Quel che so è che i polsi sanguinano, le caviglie sono viola di lividi. E il dolore della puntura che l'infermiera mi infligge sul collo non lo sento neanche, sono troppo impegnato a cercare di morderle la mano.

- Tenetelo fermo! -

Non so neanche di chi sia questa voce, non mi importa. Prima che mi blocchino al letto anche la testa riesco ad affondare i denti nella mano della donna. Non è la sola a stupirsi che io ci sia riuscito. Non sapevo neanche di essere abbastanza in forze per farlo, eppure.

Stringo più che posso e quando lei prova a scrollarsi, urlando di dolore, una scarica elettrica parte dai denti e via, giù lungo tutta la spina dorsale. Ogni scossone mi infligge dolore a tutta l'arcata superiore, sento quasi gli incisivi scricchiolare.

Solo un piccolo, lucido angolo della mia mente mi avverte che se dovessi strapparmi via un dente non solo non ricrescerà, ma sarà come un orribile finestra rotta nel mio sorriso.

Ma c'è un'altra parte della mia mente che si affretta anche a ricordarmi che, tutto sommato, non ho più alcuna ragione per sorridere.

La seconda puntura la sento perché arriva a tradimento, sulla coscia, come una pugnalata, abbastanza dolorosa da farmi boccheggiare per un attimo, aprendo quel tanto che basta la bocca perché l'infermiera si liberi dalla presa.

Si stringe al petto la mano, mi guarda come se fossi un animale pericoloso, un rettile a cui si è avvicinata troppo, un coccodrillo, un serpente, qualcosa di viscido e crudele dalle aguzze fauci.

Voglio che mi veda così, per questo le sorrido.

Oh, forse ho ancora ragioni per sorridere.

So per certo di avere in bocca non solo il mio sangue – un po' dalla gola graffiata dalle urla, un po' dai denti sottoposti a quell'enorme stress – ma anche il suo.

Vederla impallidire è quasi troppo soddisfacente.

Poi comincia ad arrivare la nebbia. Si diffonde come un veleno, partendo dal punto di entrata sulla gamba, così lentamente e dolcemente che è difficile lottare per non abbandonarsi. È una nebbia di cotone, morbida, così accogliente e calda. Mi ricorda le braccia della Mamma.

Ma no, non voglio l'incoscienza, non voglio vedere ancora quelle immagini orribili, non voglio dover rimanere inerme mentre succede. Non voglio andare da Lui.

Mi divincolo ancora, di nuovo, ma il corpo comincia a farsi così pesante, e sono così stanco, non riesco neanche a trovare una valida ragione per continuare a lottare.

L'oscurità che sopraggiunge mi afferra, prima dolcemente, cullandomi, poi afferrandomi i capelli, tirandomi indietro.

Stavolta non ho voce per urlare e gli occhi si chiudono. La stanza, l'infermiera ferita, i medici, tutto scompare, avvolto nel buio.

Un'altra voce, non gentile e soffice come quella della Mamma, reclama la mia coscienza.

Mi ha già, e lo sa bene, lo sento da come si diverte a pronunciare il mio nome, come se pretendesse anche la mia anima.

L'ultimo briciolo di energia lo spreco per rilassare i muscoli e abbandonare la lotta.

Adesso sono tutto Suo.

 

La luce non cambia mai nella mia stanza, il tempo non passa mai. Ci siamo solo io e questa quattro mura bianche impregnate delle mie urla.

Ma sono stanco di gridare.

E non vuoi più lottare.”

So che non è un pensiero mio, e provo a spingerlo lontano. Immagino di schiacciarlo sul fondo della mia mente, sopprimerlo, soffocarlo fino a vederlo morire.

E non vuoi più lottare.”

È difficile rimanere lucidi con tutta la droga che mi hanno iniettato.

Non so cosa di preciso.

Antidolorifici, perché il corpo mi sembra leggero leggero, pieno d'elio come un palloncino, a malapena sono consapevole di avere delle mani attaccate alla fine delle braccia.

Sedativi, perché scivolo dal sonno alla veglia in continuazione, senza mai tornare realmente cosciente, bloccato in un limbo da cui uscire è impossibile.

Riesco a sentire vagamente le voci intorno a me, come vagamente scorgo le figure attorno al mio letto.

Riconosco il camice bianco e vorrei potermi ritrarre dal tocco invasivo delle loro mani.

Ma dove potrei scappare, in quale angolo potrei nascondermi?

Ho mani e piedi legati, la testa costretta in una posizione che mi da la nausea. Non posso guardare altro che il soffitto, tutto il resto appare dolorosamente sfocato negli angoli degli occhi se solo provo a sforzarmi di guardare.

Qualsiasi bisogno primario del mio corpo è annullato dai farmaci.

Sono come una bambola, e loro non si stancano mai di giocare.

Mi punzecchiano i piedi nudi con un ago, aspettandosi di vedermi sobbalzare, ma sono talmente intontito dai sedativi che reagisco con svariati secondi di ritardo, cosa che causa in loro un borbottare frenetico.

Nessuna parola mi arriva all'orecchio abbastanza chiara da poterla distinguere.

Voglio solo alzarmi, solo alzarmi. Sono stanco di questo letto, sono stanco di non potermi muovere.

Fatemi alzare.

Voglio alzarmi.

Provo a divincolarmi lentamente, ma non potrei muovermi neanche se avessi braccia e gambe libere di farlo: mi sento così pesante, come se avessi un blocco di cemento ad ogni arto.

Non riesco a provare nessun sentimento, neanche rabbia o frustrazione. C'è solo un nulla ovattato e bianco.

Ma io voglio solo alzarmi, solo alzarmi.

 

Mi sveglio di soprassalto.

Lucido.

Dolorante.

Mi mordo le labbra a sangue.

Fa male.

Impiego meno del previsto a realizzare che la droga deve aver finito il suo effetto, che almeno la mente è libera.

Quanto tempo?

Provo a muovere la testa ma è ancora bloccata.

Merda. Ho così sete.

Stupidi dottori.

Do uno strattone più forte del solito per cercare di liberarmi almeno una mano, ma il crack che fa il polso e il dolore subito conseguente mi fa cambiare idea.

Sono più stretti dell'ultima volta.

Ignoro il cuore che mi batte come un martello pneumatico nelle tempie.

Merda. Merda.

Ti stai facendo prendere dal panico.”

Non è vero. Taci.

Sono sveglio, sono lucido. E tu non esisti.

Provo a strattonare con l'altro braccio, il dolore e il crack sono gli stessi, un mugolio di frustrazione mi esce dalle labbra.

Non c'è niente che tu possa fare per liberarti.”

- Ho detto, STA' ZITTO. -

- Con chi parli? -

Cazzo.

Per quanto provi a girare gli occhi nella direzione della voce l'unica cosa che ottengo è un gran mal di testa. Sbuffo, infastidito, ma ancor di più quando il medico entra nel mio campo visivo.

Zack” scritto sulla targhetta che ha appuntata sul camice.

Zack zack zack zack

Mi ricorda il rumore di cesoie che si aprono e chiudono.

- Allora? -

Batto le palpebre, forse mi sono estraniato per un istante.

Sei pazzo.”

Sta' zitto, dannazione.

- Voglio alzarmi. -

- Hai morso una delle infermiere. -

Ha la risposta pronta.

Ma anch'io.

- Buh-uh. Voglio alzarmi. -

Per un attimo è una sfida di sguardi.

Lo sento il suo bisogno di piantarmi una siringa nel collo e mettermi a dormire per zittirmi, perché tanto succede sempre così.

E, d'altro canto, io sento il mio di bisogno di saltargli addosso e ucciderlo a mani nude. Per vendetta, per frustrazione. Per puro piacere personale.

Visto? Sei pazzo.”

- Mi dispiace, sei un paziente pericoloso, non posso slegarti. -

Rimorso?

Dispiacere?

Pietà?

Qualsiasi cosa sia, brilla per un attimo nei suoi begli occhi azzurri. Occhi da cucciolo. È a malapena un uomo.

Allora cambio atteggiamento. Rilasso le braccia, abbasso le spalle. Ma soprattutto, mi mordo tanto forte l'interno della guancia da costringere gli occhi a riempirsi di lacrime, mentre il sapore metallico del sangue mi inonda la lingua.

Torno a guardarlo.

E lui sussulta.

So cosa vede. Anche se sono passati diversi giorni da quando ho potuto vedere la mia immagine riflessa nello specchio. So cosa vede.

Un ragazzino di quindici anni, magro e largo nell'orribile pigiama bianco dell'ospedale, grandi occhi verdi pieni di lacrime, sopracciglia argentee strette l'una all'altra, i capelli ridotti ad un arruffato ed elettrico groviglio argento solo a causa del suo troppo tentare di ribellarsi. Legato mani e piedi ad un letto.

- Vorrei alzarmi. Devo andare in bagno. -

Una voce così sottile e tremante, per le urla che mi hanno squarciato la gola, ma per lo più per mio preciso volere.

Vedo il labbro inferiore di Zack zack zack zack tremolare, e so di aver fatto centro.

Si guarda intorno, preoccupato, sposta il peso del corpo da un piede all'altro.

Andiamo, so che sei un bravo soldatino.

Poi sospira. E si passa una mano tra gli spettinati capelli neri.

- Solo per andare in bagno. - mi dice in un sussurro, gli occhi azzurri ora piantati nei miei - Se fai qualcosa di male farò in modo che ti leghino così stretto da non poterti mai più liberare. -

- Ma certo, dottore. -

Accondiscendente, sii accondiscendente.

Per prima cosa slega la cinghia che mi tiene ferma la testa e subito sento tutti i muscoli del collo abbandonare la tensione e sciogliersi come neve al sole.

È dura resistere alla tentazione di tirargli un pugno in faccia quando mi libera una mano, e ancor più dura è quando ho anche l'altra mano libera.

Quante cose potrei fargli.

Mi limito a rimanere nella parte che mi sono scelto. Mi massaggio i polsi, apro e chiudo le mani. Non mi ero neanche accorto di quanto fossero insensibili le estremità delle dita. La punta del dito medio destro è addirittura violacea, tendente al blu.

Devono essere rancore e rabbia quelle che mi riempiono per un attimo lo sguardo mentre Zack zack zack zack zack mi slega anche le caviglie.

Ma tutto si annulla nel momento in cui posso tirare le gambe al petto.

La sensazione di potermi muovere liberamente è...indescrivibile. Non avevo la minima idea di quanto fossi frustrato prima. Lo capisco solo ora.

Mi alzo piano, non ho ancora capito se le gambe reggeranno lo sforzo dopo tanto tempo passato in questo dannato letto.

Le ginocchia tremano giusto un po', ma riesco a stare in piedi, forse ondeggio. Lo stomaco mi ricorda che sono digiuno. L'unica cosa di cui mi sono nutrito sono stati i medicinali.

- Solo per andare in bagno. -

Ribadisce il giovane medico. Mi trattengo dal lanciargli un'occhiata disgustata.

Si è piazzato davanti alla porta e non mi è difficile capire il perché: è convinto che potrei tentare la fuga, ma sono benissimo conscio del fatto che sono troppo ridotto male anche solo per pensarci.

Annuisco vagamente tanto per tenerlo buono e a piccoli passi sono sulla soglia del bagno. Il linoleum sotto i piedi nudi è una lastra di ghiaccio gelido. Dolce dolce sensazione.

- Cinque minuti. -

- Okay capo, ricevuto. -

Spero di non aver sbattuto troppo forte la porta chiudendola sul muso di quell'idiota.

Impiego però qualche secondo prima di muovermi, le mani ancora strette intorno al pomello.

Di cosa hai paura?”

- Oh stai zitto. -

Mormoro, sovrappensiero.

È peggio quando mi imbottiscono di farmaci.

Non chiude mai quella sua boccaccia. Mai.

Sospiro e lascio andare la presa sul pomello.

Lo specchio montato sopra il lavandino è poco più di un pezzo di metallo lucido. Niente vetro, potrei romperlo e creare un'arma con le schegge, farmi del male, o fare del male ai medici.

Ci riesco anche senza, quindi perché sprecare tante energie?

Hai davvero un aspetto orribile.”

- Per una volta sono d'accordo con te. -

Sottovoce. Zack zack zack zack zack non deve sentire.

Mi tasto il petto, l'addome, i fianchi, il bacino. Devo aver perso peso perché ovunque metta le mani sento solo il ruvido affiorare di ossa sotto la pelle.

Mi sfilo la maglia del pigiama, umida di sudore e constato di essere pieno di lividi. Per lo più sulle braccia, per colpa di tutti i tentativi andati a vuoto dei medici di infilarmi aghi sottopelle, ma anche per colpa di tentativi che invece sono andati a buon fine.

Mi impegno, ci provo, ad allontanare il momento in cui dovrò guardarmi in faccia e realizzare che davvero ho un aspetto orribile.

Ma gli occhi sfuggono al mio controllo e non posso fare altro che fissare la mia immagine riflessa.

Anche se stento a riconoscerla.

Abituato ad essere pallido, non mi dispiace avere questo colorito, se solo non fosse accompagnato da occhiaie profonde e viola sulla pelle candida. Le labbra sono screpolate dalla sete, se provo a sfiorarle con le dita sussulto di dolore. I capelli sono un disastro e quasi automaticamente cerco di riportarli al loro posto. Forse è un bene che il ciuffo mi copra parte del volto, quanto meno dimezza l'effetto cadavere vivente. Che orrore.

Che hai intenzione di fare adesso?”

Lo ignoro, come sempre, mentre continuo l'ispezione alla ricerca di altri danni.

Sobbalzo quando con la punta delle dita raggiungo l'enorme, doloroso livido sulla coscia. Deve essere spuntato fuori dopo che mi hanno infilzato con la siringa. Si divertono a trattarmi come un'oliva da cocktail. Bastardi.

Le ferite sui polsi causate dalle cinghie sono ancora aperte ma pulite, qualcuno deve essersene occupato mentre dormivo.

Apro subito il rubinetto e la prima cosa che faccio è immergerci le mani. Per il sollievo mi scappa un'esclamazione. È così fresca, corroborante, deliziosa. Per questo, messe le mani a coppa, comincio a bere.

Fa male per svariate ragioni. Prima di tutto, la gola in fiamme non prova sollievo con quell'acqua gelida, anzi, sembra solo soffrire di più. Poi perché quando arriva nello stomaco e atterra nel vuoto quasi mi provoca dei crampi.

Ma ho sete. Ho sete. Ho sete.

Bevo finché non mi sento pieno. Attutirà i morsi della fame per un po'. E sarà una buona scusa per costringerli a farmi alzare di nuovo. Non vorranno di certo che bagni il letto.

A questo proposito. È bello svuotare la vescica, e getto la testa all'indietro per godere di quel momento come se fosse prezioso.

Sobbalzo quando un pugno si abbatte contro la porta.

- Hai finito? -

La voce ovattata del medico. Cosa crede, che mi annegherò dentro il lavandino? O che sfrutti il canale di scolo del water come via di fuga? Non c'è neanche una dannata finestra.

Dove altro potrei andare?

- Un attimo. -

Sputo tra i denti. Ci manca solo che apra la porta per accertarsi che sono ancora qui nonostante la risposta.

Uccidilo. Uccidilo e scappa.”

Il sangue mi si gela nelle vene e trattengo il respiro. Per un attimo sento solo il battere frenetico del cuore nelle tempie.

Quanto può essere difficile? Non se lo aspetta. È dietro la porta. Se la apri con la giusta forza lo colpirai abbastanza da stordirlo, a quel punto è già morto.”

- No. - riesco a dire, anche se non so da dove trovo l'aria per dirlo visto che nei polmoni è rimasto poco o niente - Stai zitto. Non sei reale. E non farò niente del genere. -

Allora ti farai legare di nuovo al letto? Elemosinando che ti sleghino per un minuto di libertà al bagno?”

- Ho detto no. - sembra quasi un sibilo quello che mi esce dalle labbra. Spero che Zack zack zack zack zack zack non abbia sentito. - Posso scappare senza uccidere nessuno. -

Però l'infermiera l'hai morsa. Vuol dire che sei pronto a tutto, che puoi fare tutto.”

- Non. Questo. - di nuovo, il bussare alla porta mi fa sobbalzare e sì, stavolta sibilo davvero, come un serpente a cui hanno pestato la coda - HO DETTO UN ATTIMO.-

- Cinque minuti sono passati, esci di lì subito. -

Lo so che vuoi ucciderlo. L'hai pensato prima. Sei pazzo.”

- Non sono pazzo. -

Ci credo davvero mentre apro la porta e rivolgo un sorriso al medico che è stato così gentile a permettermi di andare al bagno. Cerco di spremere tutta la gratitudine che ho fino all'ultima goccia.

Lui mi guarda per un attimo con fare ostile, poi mi sorride di rimando.

Forse posso azzardarmi a fargli un'altra richiesta.

- Vorrei vedere i miei fratelli. -

Un mormorio quasi piagnucolante, chiaramente infantile, mi si stringe il cuore al solo pensare di averlo preso in prestito da qualcun altro.

Cerco di non dare conto al cuore che vuole spaccarmi lo sterno a furia di battere e battere e battere, e rimanere concentrato solo sul bel viso di Zack zack zack zack zack.

Che all'improvviso si fa serio. Scuro. Arrabbiato.

- Torna subito a letto. -

Non so cosa sia. Non so da dove venga. Non so neanche come sia successo.

So che un urlo trova la sua via nella gola ferita per uscire dolorosamente dalle labbra. So che all'improvviso le lacrime che ho finto di avere agli occhi sono vere e bruciano come acido rotolando giù per le guance. So che quando salto al collo di Zack zack zack zack zack tentando di strangolarlo non è perché me l'ha detto Lui, dentro la mia testa, ma solo ed esclusivamente perché l'ho voluto io.

So che quando mi arriva l'ennesima, bruciante, dolorosa, orribile pugnalata su una coscia non me ne stupisco neanche.

Quando mi accascio a terra solo due parole lasciano le mie labbra. I nomi dei miei fratelli.

Yazoo.

Loz.

Yazoo.

Loz.

Yazoo.

Loz.

Finché non perdo coscienza.

 

- Kadaj! Yazoo! -

Tutte le volte che giochiamo a nascondino, Loz si terrorizza.

Impiega solo cinque minuti per cominciare credere che siamo spariti nel nulla e che ci ha persi per sempre, quando invece siamo solo nascosti tra i cespugli, con le ginocchia sporche di terra e graffiate dai rovi, stretti l'uno all'altro a ridacchiare con fare cospiratorio.

Nell'aria, oltre al frinire delle cicale e alla lamentosa voce di Loz, si sente un secco zack zack zack zack: il vicino sta potando le aiuole.

Yazoo mi guarda, divertito, penso che non possa essere più bello con quell'espressione sul viso.

Mi sorride, gli sorrido. Sembra tutto perfetto.

Le mie sono piccole mani di bambino.

Un ricordo.

Un sogno.

Ho undici anni.

E voglia di un tè freddo alla pesca.

Fa davvero caldo.

Presto lo stare accucciati sul terriccio comincia a diventare scomodo, ma non leggo insofferenza sul viso di Yazoo, non quanta deve essercene sul mio almeno.

Non sarò il primo a lamentarsi, ma neanche lui.

All'improvviso lo scalpiccio nervoso di Loz sul prato ci fa stringere di più nel nostro angolino buio.

Smuovo la terra con le scarpe per sistemarmi meglio, quell'odore di erba umida mi pungola la gola.

- Kadaj? - sento Loz frugare tra i cespugli non tanto lontano da dove siamo - Yazoo? -

Il cuore comincia a battermi forte, forte, forte. Ho paura che possa trovarci. L'attesa è terribile, è un'agonia interminabile, mi sembra di morire.

Poi il suo visetto imbronciato, gli occhi verdi come gemme, si fa strada tra le foglie. Mi ha visto!

Sorride.

- Tana per Kaddie! -

E comincia a correre verso l'albero che abbiamo scelto come tana.

- Corri, corri! -

Yazoo mi spinge, mi aiuta a tirarmi in piedi, e prima ancora che io possa rendermene conto rido, rido e corro, e non ho abbastanza aria nei polmoni per fare entrambe le cose.

Il sole picchia, c'è ristoro solo nelle vaghe macchie d'ombra lasciate dalle chiome degli alberi.

Loz ha le gambe più lunghe delle mie, arriverà per primo e toccherà a me stare sotto al prossimo giro.

Sento un capriccio cominciare a pungolarmi il petto. Potrei battere i piedi a terra, potrei arrabbiarmi. O potrei fare gli occhi dolci al mio fratellone, quelli funzionano sempre.

Lo vedo, davanti a me, che sprinta come un corridore verso il traguardo. E lo vedo anche inciampare nel niente, ruzzolare sul prato per due metri almeno...e scoppiare a piangere.

A quel punto l'ho quasi raggiunto, l'albero è poco distante, mi basterebbe solo toccarne il tronco e urlare “tana per me!” per non dover stare sotto.

Ma Loz piange, si stringe un ginocchio al petto, inconsolabile.

Non posso farlo.

Nella foga della corsa quasi ruzzolo anch'io accanto a lui.

- Oh Lozzie! -

Preoccupato, cerco di fargli togliere le mani per farmi vedere che si è fatto. Lui continua a singhiozzare, ma lascia che lo tocchi. Si è sbucciato il ginocchio, sanguina, è tutto sporco di erba e terra.

Un flash argento all'angolo del mio campo visivo è Yazoo in corsa verso la tana. Lo vedo solo vagamente mentre appoggia la mano sul tronco dell'albero e urla:

- Tana libera per tutti! -

- N-non è valido! Il gioco era f-fermo! -

Rantola Loz tra un singhiozzo e l'altro. Provo a calmarlo, gli asciugo il viso, gli scocco un bacio sulla guancia.

- Non è colpa mia se sei lento e stupido e inciampi nei tuoi stessi piedi. -

Gongola invece Yazoo, avvicinandosi a noi dondolando le braccia.

Gli lancio un'occhiata di fuoco, lui però non cambia espressione. Che testardo.

- Vieni Lozzie, andiamo da Mamma così ti mette il disinfettante. -

- Ma b-brucia. -

Nuove lacrime, cerco di asciugare anche quelle.

- Passerà in fretta, e tu sei coraggioso. Dai. -

Si convince ad alzarsi solo perché gli sorrido.

Zoppica un po' e provo a sorreggerlo lungo il tragitto, ma a tredici anni è più grande e grosso di me, che non crescerò mai.

È Yazoo allora che si prende tutto il suo peso.

- Forza stupido, non ti sei mica tranciato una gamba. Cammina. -

Ma deve aver preso una brutta botta, Loz non è così esagerato.

Con l'aiuto di Yazoo riusciamo a portarlo in casa. La portafinestra della veranda è spalancata, il profumo del gelato che abbiamo mangiato prima di uscire a giocare è ancora forte in cucina, deve essere perché nessuno ha messo via i bicchieri sporchi.

- Mamma! - chiamo. Yazoo fa sedere Loz su una sedia e gli controlla il ginocchio. Fa finta di niente ma lo so, oh, lo so che è preoccupato. - Mamma dove sei? Lozzie è caduto, si è fatto male. - salgo al piano di sopra, nella sua stanza, magari sta riposando a letto. Però quando apro la porta non c'è. - Mamma? - a voce un po' più alta, una sottile scintilla di paura che comincia a divorarmi lo stomaco. Scendo le scale volando quasi, gli occhi di Loz mi seguono, mi pongono una domanda a cui non voglio rispondere.

Dov'è la Mamma?

Apro la porta della cantina, la lavatrice è in funzione, sento il rumore sordo del motore.

- Mamma? Sei qui? -

Scendo piano le scale. Al contrario di Loz non ho timore di scendere quaggiù, il buio non mi fa paura, e in più oltre agli scatoloni con le decorazioni di Natale e ai nostri vecchi giocattoli non c'è nient'altro, quindi perché dovrei spaventarmi?

Mi fermo sull'ultimo gradino, perché altrimenti mi sporcherei le scarpe.

L'odore del sapone da bucato che Mamma usa per lavare i vestiti non copre quello forte, metallico, caldo e denso del sangue.

Lontano, fuori dal cono di luce della lampadina che pende sulle scale, intravedo un corpo. Il suo corpo.

Ma la mia attenzione è calamitata dalla testa. Tagliata di netto e rotolata dall'angolo buio fin alla base delle scale, gli occhi spalancati e fissi, le labbra schiuse ancora come per pronunciare...

 

- Kadaj. -

È come tornare a respirare dopo una lunga, lunghissima apnea, o come tornare a vivere dopo una scarica di defibrillatore.

Tremo da capo a piedi, il corpo coperto di sudore gelato. Sento di avere lacrime secche intorno agli occhi e sul viso, ma nuove scivolano già lungo il sentiero scavato dalle prime.

Mi asciugo con stizza il viso con entrambe le mani. È allora che mi accorgo di non essere più legato, e di non essere neanche più nella mia stanza.

Ci metto un po' per tornare lucido, brandelli di immagini mi costringono a rannicchiarmi su me stesso come un bambino.

- Kadaj. -

Di nuovo quella voce, la stessa che mi ha risvegliato dall'incubo.

Mi azzardo a sollevare la testa, per quanto mi è possibile: pesa una tonnellata.

Il viso della Ragazza dei Fiori è sempre bellissimo. Dolce, gentile, con un sorriso pronto da offrire anche nelle condizioni più disperate.

Come la mia. Come adesso.

Avvicina una mano per accarezzarmi i capelli. Neanche mi rendo conto del tentativo di ritrarmi se non quando ormai l'ho fatto.

- Tranquillo, è tutto finito. - ritrae la mano solo per mostrarmi che nell'altra stringe un panno bagnato - Lascia che mi prenda cura di te. -

Non aspetta una mia risposta, semplicemente comincia a tamponare la fronte con il panno. Quel fresco mi fa tirare un sospiro di sollievo.

- Che... -

Provo, ma ho la gola talmente secca che mi fa male emettere anche un solo suono di più. La Ragazza dei Fiori scuote la testa, ha un fiocco rosso tra i capelli castani, le dona visto il bianco abbacinante della sua divisa da infermiera.

Prima di rispondere alla mia domanda implicita, mi offre dell'acqua da un bicchiere che bevo avidamente. Eppure avevo bevuto fino a star male poco...

Mi rendo conto, guardandomi intorno, che sono nell'infermeria, e dalla finestre arriva tiepida la luce del mattino.

- Hai avuto una brutta reazione al farmaco che ti hanno somministrato. - spiega, la voce sempre gentile. Non sembrano così terribili le cose che ha da dire, se le dice lei. - Hai avuto la febbre alta per due giorni e due notti, e non hai mai ripreso coscienza...fino ad ora. -

Figli di puttana.

È un buon segno, la febbre non ti ha bruciato il cervello.”

Ah, e ci sei anche tu.

Mi porto una mano alla testa. Vorrei spremere via quella voce dalla mia mente, estirparla come un'erbaccia cattiva e gettare sale sul terreno così che non possa ricrescere.

- I miei fratelli. - dopo aver bevuto la gola va un po' meglio, la lingua non si attacca al palato e posso tornare a parlare - Sono...sono venuti a trovarmi? -

Per un attimo negli occhi della Ragazza dei Fiori scorgo una scintilla di...paura? No, non può essere. In ogni caso viene tutto sommerso sotto uno strato di compassione e un ennesimo sorriso.

Somiglia così tanto alla Mamma. O forse all'idea che mi è rimasta di lei.

- Sì tesoro, ma purtroppo non potevamo farli entrare perché stavi molto male. Adesso che ti sei ripreso se fai il bravo potrai tornare nella sala comune e ricevere visite. -

- Davvero?! - anche se sono senza forze, anche se quando scatto seduto mi gira la testa e rischio di crollare lungo disteso, non riesco a trattenere l'entusiasmo - Posso? Anche se... -

Colpevole.

Ho tentato di uccidere Zack zack zack zack zack, o bhe, non avrei mai potuto ucciderlo sul serio, però l'ho aggredito.

- Zack ha affermato che stavi già male a causa del farmaco. - come a dire che non è colpa mia? Eppure sono quasi sicuro che il farmaco me l'abbiano iniettato dopo averlo aggredito, come facevo a stare già male? - Quindi più tardi, dopo che avrai mangiato qualcosa, potrai andare in sala comune. Sicuramente verranno di nuovo a trovarti. -

Oh, che importa.

Grazie, grazie, grazie.

Ma non riesco a dirlo. Stupido orgoglio.

Grazie.

Torno a sdraiarmi, un sorriso sulle labbra, mentre lei si alza e mette un fiore fresco in un vaso sul comodino, come fa con ogni paziente di cui si prende cura, sempre.

La osservo andare via, e non riesco a smettere di essere...felice.

Potrò vedere i miei fratelli.

Ancora una volta innocente.”

- Non ho fatto niente, non hai sentito? È stata colpa del farmaco. -

Posso crederci, posso fare finta di crederci, posso dire a tutti che è così se vogliono che lo dica. Così magari capiranno che non sono pazzo e mi lasceranno uscire di qui.

Oh ma io non parlavo di quello.”

- E allora? -

Quante volte ancora puoi scappare alla condanna?”

Sta' zitto.

 

Non riesco a stare fermo.

Non riesco a sentire il sapore del cibo che mi infilo a forza in gola.

Devo recuperare le energie.

I miei fratelli.

Yazoo.

Loz.

Non li vedo da mesi.

Da quando sono stato ricoverato niente è più come prima.

L'Ospedale Psichiatrico Shin-ra.

Dicono che sono pazzo. Dicono che sento le voci.

Tu senti le voci.”

Una voce. È diverso.

E non ti ho già detto di stare zitto?

Quando sono arrivato qui ero convinto che non ci sarei rimasto molto. Quanto tempo serviva ai medici per capire che non ero pazzo?

Non molto.

Non molto.

La prima settimana ero convinto che sarei uscito quella successiva. E così il primo mese.

Ma andava bene. Andava tutto bene finché i miei fratelli venivano a farmi visita.

Non facevamo niente di speciale, magari prendevamo un tè, Loz mi portava dei dolci di nascosto. Loz sa che sono goloso.

Ma poi il mio medico ha detto che non era salutare che continuassi a parlare con loro. Che dovevo smetterla.

Loro continuavano a venire e io continuavo a non poterli vedere.

Loro erano lì per me, e io non potevo dirgli quanto mi mancavano, quanto li pensavo, quanto non poterli abbracciare e stringerli mi uccidesse.

Siamo soli al mondo noi tre.

E così, giorno dopo giorno, ho cominciato a non voler più prendere le medicine che il dottore mi aveva prescritto per zittire la voce.

La “mia” voce non smette mai di parlare, e quando sono incosciente aggredisce la mia mente.

Inutile cercare di farglielo capire.

Inutile ribellarsi.

Sono finito legato al mio stesso letto. Mi hanno definito “paziente pericoloso”, e per cosa poi. Solo per desiderare di poter vedere i miei fratelli?

Tutto passato. Tutto finito.

Non mi importa adesso. Adesso che cammino sicuro di me lungo il corridoio, adesso che fingo che le gambe non mi facciano male, che non mi senta svenire ad ogni passo, che non senta i lividi strusciare contro la stoffa del pigiama e fare male.

Adesso niente conta come Yazoo e Loz.

La sala comune è per lo più per quei pazienti che sono ancora in grado di intendere e di volere, per quanto dei pazienti in un ospedale psichiatrico possano esserlo, suppongo.

Mi fa ridere l'idea di essere qui, in mezzo ai pazzi, del tutto sano di mente.

Non lo sei Kadaj, perché ti prendi in giro da solo?”

Lancio un'occhiata all'orologio sul muro. L'orario di visite deve essere appena cominciato.

Scelgo un posticino su un divanetto abbastanza grande da poter accogliere tre persone e aspetto.

Aspetto che le uniche, vere e sole ragioni di vita che ho varchino quella soglia.

I primi dieci minuti non sono così snervanti, anche se la sala si riempie di chiacchiericci festosi dei parenti e amici che sono venuti a trovare i pazienti.

Questo rimane pur sempre un manicomio, ma basta cambiargli nome perché la gente smetta di averne paura.

Venti minuti. Strano che siano in ritardo. Comincio ad agitarmi sul divano, in gola un nodo che non vuole saperne di sciogliersi.

Mezz'ora.

Non verranno Kadaj, non verranno.”

- Sta' zitto. -

Bofonchio a me stesso, una mano che affonda tra i capelli.

Verranno, devono venire.

Verranno.

Verranno.

Per favore.

Ti prego.

Ti prego.

Quarantacinque minuti.

- Tra dieci minuti finisce l'orario di visita, per favore, i parenti dei pazienti sono pregati di avviarsi all'uscita. -

No.

No.

Non è possibile che non siano venuti.

La Ragazza dei Fiori non mi avrebbe mentito.

No.

No.

- Kaddie? -

Il cuore si ferma. Muoio per qualche secondo probabilmente. Poi riparte, torna il respiro, il sangue va in circolo.

Attraverso gli occhi lucidi di lacrime vedo Loz corrermi incontro a braccia aperte.

Prima che possa alzarmi per abbracciarlo, è lui che abbraccia me.

Il suo abbraccio è sempre stato così caldo e accogliente, capace di placare le mie ansie e le mie paure. Il suo profumo è solo suo, è la sua essenza, qualcosa che sa di notti lunghe senza incubi, dolci alla vaniglia, e lacrime. Lo aspiro con naso e bocca affondando il viso nella sua spalla.

- Siete in ritardo. -

Spero non si senta che sto piangendo, sarebbe una vergogna orribile. Anche se sono sicuro che loro non me lo farebbero pesare.

- Prenditela con quello zuccone di tuo fratello, sembra che non abbia ancora imparato a leggere l'orologio. -

Yazoo.

Allontano il viso da Loz quanto basta per guardarlo. Quel sorriso a metà, quegli occhi verdi luminosi, quel ciondolare della testa che lo fa sembrare quasi un serpente a sonagli pronto a mordere.

Allungo un braccio e si unisce alla stretta. Il suo profumo è diverso, deciso e pungente, sa di metallo, polvere da sparo,come una pistola che ha appena sparato, e spezie.

Mi viene voglia di ridere.

- Mi siete mancati tanto. -

Mormoro, stretto a loro. Riesco a sentire il mio corpo che cura se stesso, nutrendosi del loro amore.

- Anche tu Kaddie. - Loz sta piangendo, lo sento da come il suo petto è scosso da lievi singhiozzi - Abbiamo fatto il possibile per venire a trovarti, ma ogni volta ci dicevano che non potevi, che eri malato o cose simili. -

- Sono stato davvero malato. - non so neanche perché gli do conforto. Dovrei essere così arrabbiato con loro, dovrei urlare, dovrei costringerli a farmi tornare a casa. Dovrei rimproverargli di non aver fatto niente per farmi uscire di qui. Ma non posso. Sono qui, sono venuti per me. - Ma adesso sto bene, e ora che ci siete voi anche è anche meglio. -

Per un lungo interminabile minuto rimaniamo abbracciati. Solo quando sono certo di non stare più piangendo e di essere in grado di reggermi sulle gambe mi allontano da loro.

Quasi trotterellando mi siedo sul divanetto e tasto con le mani i due posti accanto a me, così che loro possano sedersi.

Mi ubbidiscono subito.

È divertente vedere come rispondono ai miei ordini, come abbassino la testa ad ogni mio capriccio. È sempre stato così, non importa quanto io sia piccolo e loro grandi.

Con la mano destra prendo la mano di Yazoo, con la sinistra quella di Loz. Intreccio le dita alle loro, sospiro di piacere e sorrido. Sono felice di avere ancora tutti i denti in bocca.

Nonostante quell'incerto silenzio imbarazzato non riesco a sentirmi a disagio. Anche se non posso ignorare come entrambi cerchino di sfuggire al mio sguardo, come fingano di voltare la testa per guardarsi intorno se provo a cercare i loro occhi.

- Che vi prende? - ridacchio, nervosamente, cerco di seppellire l'irritazione sotto una nonchalance che non ho - Avete paura del vostro fratello pazzo? -

- Certo che no. -

Sbotta Yazoo, una smorfia che per un attimo gli distorce il viso.

Allora è per questo.

- Lo sapete che non sono pazzo, vero? -

Mormoro. Invece di lasciargli le mani, stringo di più la presa, li costringo a dedicarmi tutte le loro attenzioni.

- Sì che lo sappiamo, Kaddie. -

Piagnucola Loz, non mi guarda negli occhi, sembra più che altro che mi guardi attraverso.

Lo so che cosa vorrebbe aggiungere, cosa ha evitato di dire con quella frase.

Sì che lo sappiamo, Kaddie.

Ma ormai è quasi un anno che sei chiuso in un ospedale psichiatrico.

Qualche domanda sulla tua salute mentale ce la siamo fatta.

- Bene. - la mia voce è più acuta e dolorosa di quanto vorrei, ma cerco ancora di fare finta di niente - Allora quando posso tornare a casa? Avete parlato con il medico? -

Si scambiano uno sguardo, e per la prima volta mi sento escluso. Hanno costruito qualcosa di intimo tra loro, qualcosa da cui sono stato tagliato fuori, qualcosa che me li ha allontanati e resi irraggiungibili per sempre.

Yazoo mi sorride. Riconosco in lui quel sorriso condiscendente che tutti, tutti qui dentro mi rivolgono.

Bisogna parlare con condiscendenza ad un pazzo.

- Sì, ci abbiamo parlato. Dice che non sei ancora pronto per uscire, che sei stato aggressivo...che ti hanno dovuto legare al letto, che hai aggredito un'infermiera, un medico... -

- Mi stavano drogando. - cerco di fargli capire quanto sia assurdo che lui patteggi per loro - Le medicine che mi danno non mi aiutano a “guarire”, mi fanno solo male! Sono stato due giorni in coma per colpa di un farmaco che mi hanno somministrato. Anche tu saresti aggressivo se cercassero di infilzarti con un ago di dieci centimetri ogni volta che ti rifiuti di ubbidire alle loro assurde pretese. Io non mi sottometto. -

Solo quando scorgo da lontano un medico che mi sta guardando capisco di aver alzato un po' troppo la voce, che evidentemente ho esagerato con i toni e con i modi. Ed è paura quella che mi stringe lo stomaco in una morsa, così stretta che sento il cibo che ho mangiato prima risalire lungo l'esofago.

Ma soprattutto, sono gli occhi sgranati e spaventati dei miei fratelli a colpirmi dolorosamente il cuore.

Solo che io non so mai quando smettere.

- Kadaj. - Loz mi poggia una mano sulla spalla. Odio quando usa il mio nome, lo odio. Perché se non mi chiama “Kaddie” o con qualche altro stupido vezzeggiativo, vuol dire che è davvero preoccupato. - Non vogliamo che tu rimani qui apposta, è per il tuo bene. Devi capire che cos'hai e guarire. -

- IO NON HO NIENTE. -

Mi scrollo la sua mano di dosso e mi alzo.

Uh-uh Kadaj, la tua scenata sta attirando un bel pubblico.”

Impossibile non notare gli uomini in camice bianco che si sono assiepati ai margini del mio palcoscenico personale, pronti a saltarmi addosso se dovessi fare qualcosa.

Una parte di me urla di smetterla, di chiedere scusa, di tornare a sedere.

Ma è una parte così piccola.

- Lo sai che ti vogliamo bene. -

Prova Yazoo, di nuovo condiscendente.

Mi fa andare il sangue alla testa.

- SMETTILA di parlarmi come se fossi PAZZO, SMETTILA. -

Mi rendo conto di essermi avvicinato a lui per urlargli in faccia come se fosse uno sconosciuto e non Yazoo. Il mio Yazoo.

Basta Kadaj, basta, stai per autodistruggerti, non ti faranno più ricevere visite, non ti faranno neanche più uscire dalla tua stanza. Basta!

C'è da dirlo, sembri un pazzo.”

- STA' ZITTO! -

Mi stringo la testa tra le mani, artigliandomi ai capelli. Voglio che esca dalla mia mente, voglio che smetta di parlare.

Non voglio più sentirlo. Non voglio più stare qui.

Urlo, con quanto fiato ho in petto. Un urlo di dolore.

Arrivano in due per prendermi, un braccio ciascuno.

Non so mai quando una battaglia è più grande di me, non so mai quando fermarmi e deporre le armi. Così scalcio, tiro pugni, cerco di graffiarli. Sento il rumore di qualcosa di simile ad un osso che si spezza quando una gomitata raggiunge il viso di uno dei due.

Stavolta a mandarmi KO non è un'iniezione.

Parte dalla base della schiena e brucia. Come fuoco liquido percorre la colonna vertebrale aggredendo il sistema nervoso. I muscoli si irrigidiscono un istante per poi venire scossi da spasmi che non posso controllare.

La scarica elettrica del taser mi da cinque secondi di orrenda lucidità prima di farmi crollare tra le braccia dell'infermiere.

Uno.

Loz ha le guance rigate di lacrime.

Due.

Yazoo ha gli occhi sgranati.

Tre.

Loz ha paura di me.

Quattro.

Anche Yazoo.

Cinque.

Sono pazzo.

 

*

 

- Comincia pure. Parlami di te. -

Click.

Il registratore parte, è appoggiato sullo scrittoio dello psichiatra, accanto alla fotografia della sua famiglia. Un inutile tentativo di far sembrare lo studio un posto accogliente.

- Mi chiamo Kadaj. - e mi sento così stupido - Ho quindici anni. - spero che la mia voce non suoni patetica come sembra - Un anno fa sono stato ricoverato all'Ospedale Psichiatrico Shinra. - ogni seduta stessa storia, stesse parole. Cambia solo la quantità di tempo che ho passato qui dentro. Aumenta sempre di più. - Mi è stato detto che si è stato per via di un crollo psicotico derivato da una sindrome post-traumatica. - non so neanche cosa significhino quelle parole.

- Ricordi cosa l'ha scatenato? -

Alzo gli occhi sul dottore, lentamente. Non ho la forza neanche di tenere la testa dritta.

Devono avermi drogato più del solito perché a tratti il mondo intorno a me sfarfalla e minaccia di svanire.

Dietro la sagoma seduta del medico vedo la Sua, e devo battere così forte gli occhi che quasi mi fanno male.

Ma è quello che mi merito per ciò che è successo nella sala comune.

Non posso perdonarmi di aver aggredito i miei fratelli.

- Per via di nostra Madre. -

Bisbiglio.

C'è sangue sul pavimento, e nell'aria odore di sapone. Mi costringo a chiudere gli occhi e respirare forte per un attimo.

Le orecchie mi fischiano e vorrei solo accasciarmi in un angolo e lasciarmi scivolare nell'oblio. Ma so che neanche lì avrei pace.

Lo so perché Lui è lì che mi aspetta.

- Cos'è successo a tua Madre? -

Riesco a sentire il dolore, ma è tanto lontano, tanto ovattato, non dovrei riuscire neanche a capire che è il mio. Ma un dolore così si riconosce sempre.

- È stata uccisa. -

Lo dico piano piano, non voglio che il registratore colga queste parole. Altrimenti diventano reali.

- Che le hanno fatto? -

Non è crudele il modo in cui insista perché gli racconti la parte peggiore della tua vita? Che essere mostruoso, perché non lo uccidi?”

Lo vedo.

È solo per un istante che la sua figura si materializza più intensa e definita alle spalle del medico.

Vestito di pelle nera, lunghissimi capelli argentei che fluttuano quasi nel nulla, lineamenti scolpitìi in quel marmo bianco candido che è il suo volto, due gemme verdi al posto degli occhi. È un'ala nera sulla spalla destra, le piume di petrolio che frusciano come seta. Sembrano così morbide.

Con una mano guantata sfiora il viso del dottore, lui neanche se ne accorge. Si abbassa al suo livello, perché è così alto che mi vengono le vertigini solo a pensarlo. I loro visi sono vicini. Il Suo è così bello che potrei urlare e piangere.

La voce nella mia testa è meravigliosa, vorrei non essere il solo a vederla.

Dovresti ucciderlo. C'è un tagliacarte.” me lo indica con il mento, un sorriso ammaliante sulle labbra “Ti basta affondarglielo nel collo, proprio qui.”

Percorre con il pollice la pelle scoperta del suo collo, dove so che pulsa la giugulare.

È così difficile non dargli ragione.

Dovrei ucciderlo.

- Kadaj? -

Il medico schiocca le dita ed io scuoto la testa tornando lucido.

Non c'è più nessuno a parte noi nello studio, Lui è sparito. Probabilmente è tornato in quell'anfratto della mia mente che gli fa da casa.

- M-mi scusi. -

È difficile per me recuperare il filo logico dei pensieri, perché le medicine mi intontiscono, e buona parte della mia coscienza è occupata da Lui. Ma è importante che il dottore mi trovi sano, è importante che dichiari che ho fatto dei miglioramenti. È importante.

- Bene. Dicevamo. Che hanno fatto a tua Madre? -

Il cuore mi batte furiosamente nelle tempie.

- Le hanno...tagliato la testa. - sento il sapore salato delle lacrime che mi rigano il volto. Mi lecco le labbra. Sono amare. - Avevo...undici anni. L'ho trovata io. -

Scratch scratch scratch, il rumore della penna del medico che graffia la carta.

- Chi è stato? -

- Non lo so. Non hanno mai trovato il colpevole. -

- I tuoi fratelli? -

Boccheggio per un attimo come se avessi appena ricevuto un colpo. Fa male. Fa tanto male.

- Yazoo e Loz. -

Lui annuisce.

- Cosa gli è successo? -

- Ci hanno mandati tutti e tre in una casa famiglia. Si stava bene. -

- E dopo? -

Ah, la testa mi scoppia. Devo reggerla con entrambe le mani. Macchie nere e bianche ondeggiano ai lati del mio campo visivo.

- Abbiamo...eravamo...siamo stati felici lì. -

- Cos'è successo dopo, Kadaj? -

Le mani di Lui sono strette intorno al mio cervello, sento la sua risata echeggiarmi nelle orecchie. Non riesco neanche a sentirmi pensare.

- Ho cominciato a sentire...una voce, dentro la testa. -

- Cosa ti diceva la voce? -

Uccidi.”

- Sta'. Zitto. -

- La senti anche adesso? -

Scratch scratch scratch, sembrano le Sue unghie contro le pareti del mio cranio.

Se sbattessi forte la testa contro il muro Lui uscirebbe? Me ne libererei?

Riesco a trarre sollievo all'idea di vedere la mia testa aperta in due, e Lui scivolare via insieme al mio sangue.

- No. Io...sono confuso, mi hanno drogato. -

- Non è droga. - sorride il medico. Dovrebbe rassicurarmi quel sorriso? Bhe, non lo fa. - Sono psicofarmaci che dovrebbero aiutarti a tenere sotto controllo la psicosi. Certo abbiamo dovuto usarne una dose massiccia, ma ti abituerai, starai sempre meglio. -

Oppure saranno costretti a lobotomizzarti per “farti stare meglio” è un brusio, un fischio nelle orecchie “E quando non potrai più difenderti il tuo corpo sarà mio.”

Mi rivolta lo stomaco, sto per vomitare.

Schiaccio le mani sulla bocca e cerco di tenermi nello stomaco quel poco che mi hanno dato da mangiare.

Stelle di luce bianca sprizzano davanti ai miei occhi e per un momento temo di svenire.

Forse perdo coscienza per qualche secondo, perché quando torno presente a me stesso il dottore mi sta chiedendo se va tutto bene.

- Potremmo...potremmo terminare la seduta? - rantolo. Il sapore acido in bocca peggiora la nausea. - Non mi sento bene. -

- Ancora cinque minuti. Solo un altro paio di domande. - non so se sia la droga o l'inerzia a farmi annuire, però lo faccio, e vorrei smettere di piangere - Sai dirmi cos'è successo l'altro ieri? Quand'eri in sala comune durante l'orario di visite. -

- Sono venuti i miei fratelli. - fa male, fa male! Qualcuno faccia smettere questo dolore! - Ma...mi sono arrabbiato...li ho aggrediti. -

- Vorrei che tu vedessi qualcosa. -

Di nuovo annuisco.

“Io non mi sottometto”, non è quello che ho urlato a Yazoo? Eppure adesso sembro abbastanza sottomesso.

Nella stanza c'è un televisore, il dottore inserisce un disco nel lettore DVD e preme su play.

È una registrazione delle telecamere di sicurezza della sala comune. Non sono puntate su nessuno in particolare, ma nel bel mezzo della sala riconosco la mia esile figura in attesa sul divanetto.

Il medico manda avanti veloce di quarantacinque minuti, al momento in cui dovrebbero arrivare Yazoo e Loz.

La registrazione non ha l'audio.

Vedo me stesso saltare in piedi, una folle luce di felicità negli occhi.

Poi mi vedo mentre parlo da solo.

Mentre mi metto a sedere da solo.

Mentre il mio volto si trasfigura in una maschera di follia e comincio ad urlare contro il nulla.

Mentre gli infermieri mi afferrano per le braccia.

E poi mentre la scarica del taser elettrico mi fa perdere coscienza.

Il dottore preme pausa. Mi guarda. Sorride.

- Kadaj, ricordi cos'è successo ai tuoi fratelli? -

Fisso lo schermo, fisso la mia espressione folle.

Dove sono Yazoo e Loz? Erano lì, lo so che erano lì. Li ho abbracciati, stretti, ho sentito il loro profumo. Ho tenuto loro la mano.

Erano lì.

Il dolore alla testa si fa insopportabile, mi sembra di non riuscire più a respirare, tanto ho i polmoni compressi in una morsa.

Vedo tutto nero e cerco disperatamente qualcosa a cui aggrapparmi, o qualcosa da afferrare per colpirmi e far cessare questo dolore.

Ogni battito del cuore è una martellata dentro il cranio. Mi sento andare in frantumi.

Sento le Sue mani accarezzarmi il viso. Il calore del suo respiro sul mio orecchio. La presenza del suo corpo così vicina da farmi venire la pelle d'oca.

Andiamo Kadaj, ti porto via dal dolore.”

Le piume nere della sua ala sono davvero morbide, mi avvolgono il corpo come una coperta.

Lo studio del medico si fa sempre più lontano, minuscolo, come un puntino bianco all'orizzonte.

E Lui mi ha di nuovo tutto per sé.

 

 

Lotto per tornare cosciente.

Lotto per rimanere vivo.

Non so quale Inferno sia peggiore.

Cerco di strisciare fuori dall'oscurità, cerco di tornare nel mio corpo, nel fragile, caldo guscio di carne che è reale e non può mentirmi. Non come la mia mente.

L'Angelo con l'ala nera che mi tiene prigioniero non è l'Angelo della Morte, perché altrimenti mi avrebbe già ucciso, non avrebbe prolungato così le mie sofferenze.

Sono in catene ai suoi piedi, immerso in una pozza di sangue che so di per certo non essere mio.

Lo sento dall'odore. Qualcosa dentro di me lo sa a chi appartiene, ma ha paura anche solo a pensarlo.

Ma Lui conosce meglio di me le mie debolezze, e me le mostra.

Yazoo, Loz.

Morti.

Orribili ferite da taglio su tutto il corpo.

L'assassino si è accanito su di loro con enorme ferocia, perché devono essere morti alla seconda coltellata, ma hanno centinaia e centinaia di tagli addosso. Alcuni sono squarci profondi che arrivano all'osso, altri superficiali, creati per il puro piacere di stillare sangue vivo.

E l'Angelo tiene tra le mani una spada, la lama insanguinata.

“Sei stato tu!”

Ma non ho voce per urlarlo.

Lui ride, e la sua risata riempie quello spazio nero, affilata tanto quanto la lama della sua spada.

È con un taglio netto che mozza le loro teste, come una ghigliottina, così inaspettatamente che non posso neanche chiudere gli occhi per sottrarmi a quello spettacolo.

Come la testa della Mamma, me le ritrovo ai piedi. Mi guardano, gli occhi verdi uguali ai miei pieni di rancore e rabbia. Mi accusano.

Ma non sono stato io, non sono stato io.

Non sono stato io.

 

Mi sveglio di soprassalto nel cuore della notte. Raccolto in me stesso come un gattino spaventato, le gambe strette al petto e la testa nascosta tra le braccia.

Aprire gli occhi non mi è mai sembrato tanto difficile. Stento a riconoscere la mia stanza, per un attimo non ricordo dove mi trovo e mi viene spontaneo chiamare la Mamma.

Ma lei non c'è, è morta.

Metto a fuoco solo dopo lunghi minuti quello che ho attorno.

Sono lucido quanto basta per rendermi conto delle mie condizioni.

Il braccio destro mi fa male da impazzire. Non stento a crederlo. Nell'agitarsi del sonno mi sono strappato via l'ago e la flebo che dovevano avermi messo mentre dormivo; sebbene mi causerà la comparsa di un enorme livido, mi ha risparmiato la dose notturna di droga che mi avrebbe fatto svegliare domattina completamente privo di pensiero logico.

Mi metto seduto, anche se è complicato farsi ubbidire dalle braccia e le gambe intorpidite dall'aver a lungo tenuto la stessa posizione.

Non mi hanno legato al letto, quindi pensano che io sia così drogato da non avere la forza di ribellarmi. Questo è un bene.

Sul comodino il vassoio con la cena ormai gelida mi fa brontolare lo stomaco. Non ha un aspetto invitante, ma ho bisogno di energie.

Spazzolo via ogni briciola di cibo senza badare al sapore, per puro istinto di sopravvivenza.

Quando sento di essere in grado di reggermi in piedi mi alzo, e sono contento di non essermi sbagliato.

A passo felpato raggiungo la porta e provo la maniglia. È aperta.

Devono davvero essere sicuri che io sia del tutto fuori combattimento per permettersi di lasciare la porta aperta.

Buon per me, ci metterò metà dello sforzo.

Da quando ho aperto gli occhi riesco a pensare solo ai miei fratelli. È strano come riempiano la mia mente in due modi completamente diversi.

Da una parte ci sono i ricordi chiari e vividi della nostra infanzia, le giornate passate a giocare in giardino, le merende pomeridiane, la caccia agli insetti in estate, le risate, gli abbracci quando dormivano stretti l'uno all'altro perché Loz aveva paura di un temporale.

Dall'altra c'è il sangue. Un sacco di sangue. Caldo, viscido, denso, metallico, è ovunque sui loro corpi, li tinge di un rosso carminio che stona con i loro bellissimi occhi verdi.

Devo sapere. Ne ho bisogno.

Perché non sono pazzo.

Cammino lentamente per i corridoi, complici i miei piedi nudi che non fanno alcun rumore sul pavimento. Sembro un'ombra, saltando da una macchia di buio all'altra, aspettando di trovare dietro ad ogni angolo qualcuno che possa fermare la mia fuga.

Non stanotte.

L'infermiere di turno se la dorme della grossa, la faccia schiacciata contro la scrivania, la mano immersa in una busta di patatine al formaggio. Non emette un verso, né si muove in alcun modo quando gli prendo il mazzo di chiavi dalla cintura.

Semplicemente sgattaiolo via, e sono sicuro di potercela fare. Sì.

Ho il respiro grosso e mi sembra che il solo battito del mio cuore possa attirare qualcuno, come se mi stessi portando addosso un rumoroso orologio a cucù.

Ma non c'è nessuno, i corridoi deserti, la notte a coprire la mia fuga.

Infilo una chiave a caso nella serratura per aprire la porta. Non va. Provo con la seconda. Neanche quella. Ne sono rimaste solo tre.

In lontananza sento rumore di passi, sono frettolosi e corrono nella mia direzione.

Si sono accorti che non solo più nella mia stanza?

Le mani mi tremano e provo un'altra chiave. Non gira.

I passi sempre più vicini.

Mi prenderanno!

Poi la serratura scatta e la porta si apre. Lascio cadere il mazzo di chiavi e corro, corro, corro.

Non mi guardo neanche indietro.

I piedi nudi che bruciano sull'asfalto non sono la prima cosa di cui mi preoccupo. C'è qualcosa di meraviglioso nell'aria, qualcosa di frizzante e delizioso che mi pungola il naso: libertà.

Per un attimo l'ebbrezza e l'adrenalina mi fanno sentire invincibile, poi mi ricordo che sono appena scappato da un ospedale psichiatrico, che ho addosso un pigiama di cotone leggero e sto correndo scalzo in mezzo alla strada.

Mi infilo in un vicolo e proseguo scegliendo le strade secondarie, lontane dal traffico notturno.

Verso casa.

Non so perché le gambe mi portano lì, ma sento il richiamo, la necessità di tornare dove tutto è cominciato.

La casetta a due piani che ci ha visti crescere è messa male adesso, nonostante il cartello “in vendita” attaccato sulla porta dubito che qualcuno vorrà mia comprare una casa dov'è si è consumato un così brutale omicidio.

Buon per me.

Il prato incolto e morbido è quasi una benedizione per i miei piedi doloranti. Salgo i tre gradini della veranda e all'improvviso mi sento come quando avevo otto anni e non arrivavo al pomello della porta. Adesso posso aprirla, scricchiola un po'.

È tutto abbandonato e dimesso, ci vivono solo polvere, insetti e topi.

Però è casa mia.

Mi sembra di sentire nell'aria ancore l'odore dell'ultimo gelato che ho mangiato qui, insieme con quello di ricordi che non vogliono sapere di rimanere tali. Mi appare tutto com'era e devo trattenermi dallo scoppiare in lacrime alla vista di com'è adesso: mobili fracassati dai vandali, una scritta oscena sul muro del salotto, vuota di tutti i ninnoli che prima coprivano le mensole.

Anche se è tutto così buio che vedo a malapena più di due metri di fronte a me, potrei trovare la strada verso la mia stanza ad ogni chiusi.

Secondo piano, prima porta in fondo al corridoio.

Non c'è più niente di me in quella stanza, la maggior parte dei miei effetti personali sono alla casa famiglia, o meglio, lo erano prima che mi ricoverassero in ospedale.

C'è ancora il letto però.

Mi ci accoccolo sopra e per la prima volta mi addormento sereno.

 

Non ci sarebbe bisogno di scuotermi per svegliarmi, perché sono vigile ancora prima che una mano mi si posi sulla spalla. Ma dopo aver riconosciuto i passi di Loz sul parquet stinto, ho deciso di lasciargli il piacere di scuotermi dolcemente e vedermi tornare cosciente.

Apro gli occhi solo per cercare i suoi, e li trovo senza dover chiedere.

- Buongiorno Kaddie. -

Il mio fratellone, il mio fratellone bambino che non è mai cresciuto, quello che aveva paura dei bulli a scuola anche se era grosso il doppio di lui, quello che se trovava un insetto in casa non lo uccideva ma lo raccoglieva gentilmente per depositarlo tra i cespugli in giardino.

Il mio dolce, dolcissimo Loz.

- Buongiorno. -

Mormoro con un sorriso, ed è davvero un buon giorno.

Mi tiro su a sedere solo per poterlo abbracciare, e vederlo ricambiare mi rende abbastanza felice da poter piangere.

La mia vecchia stanza alla luce del sole è messa anche peggio di quanto pensassi. L'abbandono e la desolazione sembrano regnare padrone. L'unica forma di vita lì dentro a parte me e Loz è il ragno che ha tessuto un'enorme tela in un angolo del soffitto.

- Che cosa hai combinato, eh? -

Questo è Yazoo, sulla soglia della porta, le braccia incrociate e un'espressione truce sul volto.

Rimango abbracciato a Loz, beandomi del calore e insieme della protezione che può darmi, egoista come un gatto.

- Niente. -

Rispondo con un sorriso strafottente e sento Loz ridacchiare mentre Yazoo sospira.

- Kad, sei scappato dall'ospedale. -

- Lo so. -

- Perché? -

Perché?

Perché?

I ricordi sembrano imbevuti di melassa. Appiccicosi e confusi tornano alla mente a fatica, forse a causa della robaccia che mi hanno iniettato.

Lo studio dello psichiatra, le sue dolorose domande, Lui.

La registrazione del video di sorveglianza della sala comune.

- Devo sapere una cosa. -

Invito Yazoo a sedere accanto a me. Lui tituba per un istante poi acconsente, sempre per via di quel tacito desiderio di ubbidirmi che li muove entrambi.

Torno a stringere le loro mani come ho fatto l'ultima volta.

La mano di Loz è grande e calda, quella di Yazoo sottile e fredda.

Sono reali.

Tiro un sospiro di sollievo.

- Quell'idiota di un medico pensa che mi farò convincere dai suoi trucchetti. -

Sorrido ancora, ma per qualche ragione il cuore mi galoppa in petto.

- Quali trucchetti? -

Loz piega di lato la testa chiedendolo, come un cucciolo o un bambino che non capisce.

- Mi ha fatto vedere un video. - al solo pensiero dell'assurdità che sto per dire mi viene da ridere. Scopro che si tratta di una risatina nervosa solo quando mi esce dalle labbra. - Il video di sorveglianza del giorno in cui siete venuti a trovarmi in ospedale. Ma nel video voi non c'eravate, c'ero io che parlavo da solo. Devono averlo manomesso. -

Assurdo! Davvero assurdo! Per questo rido ancora, scuotendo la testa.

Mi aspetterei di sentire anche loro ridere. Invece Yazoo è serio, e Loz lo è ancora di più, cosa che mi fa sprofondare il cuore sotto i piedi.

- Kad, sei ancora malato, devi tornare in ospedale. -

- Sei impazzito? - il tono è simile ad uno schiaffo, Yazoo dovrebbe sentirsene colpito - Ti ho detto che mi hanno drogato, ti sto dicendo che hanno manomesso un video, è ovvio che vogliono farmi pensare che sono pazzo! E tu vuoi farmi tornare lì?! -

Suona come un'accusa, me ne rendo conto, e potrebbe fargli male, ma io voglio che gli faccia male, mi aspetto di vedere la sua espressione sofferente, mi aspetto che mi chieda scusa.

Mi aspetto cose che però non arrivano.

Yazoo tace, semplicemente, lo sguardo fisso su di me. Non sembra sofferente, non sembra neanche dispiaciuto.

- Non guardarmi così. - sbotto, arrabbiato - Di' qualcosa. -

Silenzio. Un silenzio che mi stordisce.

- Yazzie non serve a niente...dobbiamo dirglielo. -

- Sta' zitto Loz. -

Mi allontano dal mio Loz, il suo abbraccio non è più caldo e accogliente come prima.

- Dirmi cosa? -

- Cosa ci è successo. -

- Loz! -

- Cosa ci hai fatto. -

- Stai zitto, basta! Eravamo d'accordo! -

- D'ACCORDO SU COSA?! -

Strillo, la mia voce risulta fastidiosa persino per me stesso, figurarsi per loro.

Ma non sopporto che mi ignorino, che mi escludano.

Tacciono entrambi. Loz comincia a piangere, piccolissimi singhiozzi lo scuotono tutto.

Più li guardo, più mi rendo conto di avere davanti due estranei. Mentre io sono rimasto segregato in ospedale, loro sono cambiati, sono diventati qualcosa di diverso che io non posso più comprendere.

- Per favore, ditemi qualcosa. - è una supplica quella che rivolgo prima a Loz, poi a Yazoo, gli occhi che cercano i loro - Per favore. -

Loz continua a singhiozzare in silenzio.

È Yazoo a muoversi per primo.

Lentamente abbassa la zip della giacca e la toglie. La maglia che indossa sotto è strappata sull'addome. Lui la solleva e allora lo vedo.

Un taglio slabbrato ma preciso, profondo, che da un fianco all'altro lo percorre in orizzontale, la pelle intorno è arrossata e sporca di sangue. Sembra una ferita grave, ma non è l'unica: tutto il busto è percorso di tagli, più o meno profondi.

Scatto in avanti cercando di tamponarla, strillando qualcosa a Loz perché chiami un'ambulanza, ma lui non si muove. Così come non si muove Yazoo.

La sua ferita non sanguina. Non più almeno.

Allora mi volto verso Loz, anche lui si è tolto la giacca e, sollevata la maglietta, mi mostra uno squarcio sul petto, proprio sul cuore. Un affondo mortale.

- Che cosa ci è successo, Kadaj? -

È come se all'improvviso il mondo si ribaltasse.

 

Ho compiuto da poco dodici anni quando sento per la prima volta la voce. La Sua voce.

All'inizio riesco a ignorarla, sono solo sussurri, e per lo più si affiancano a brutti incubi che mi tengono sveglio la notte.

Poi diventa più sottile e insistente. La sento anche da sveglio e non solo nei miei sogni.

Divento scontroso, scostante, ho sempre mal di testa.

La casafamiglia che ci ospita è un bel posto, ci sono tanti bambini orfani come noi.

Yazoo e Loz si trovano bene, fanno amicizia, si allontanano da me.

La voce nella mia testa non smette un attimo di parlare.

Dopo un mese uccido il primo gatto, perché la voce ha detto che mi sarei sentito meglio se l'avessi fatto. È così. Mi sento alla grande.

Per qualche giorno non la sento più, la sua sete di sangue si è placata per il momento. Posso tornare a giocare con i miei fratelli, condivido le loro nuove scoperte, la loro nuova vita. Sono felice.

Poi Lui torna, più ossessivo di prima.

Devo uccidere ancora.

Il secondo e il terzo animale che uccido non ricordo neanche cosa fossero, so solo che il sangue sulle mie mani mette a tacere la voce.

Ho capito. Devo uccidere perché smetta di tormentarmi.

Sogno solo sangue la notte. Sento la Mamma chiamarmi. Non riesco mai a raggiungerla.

Cerco di uccidere ogni giorno. Cani, gatti, topi, un uccellino con un'ala spezzata caduto dal nido.

Non è abbastanza, non è mai abbastanza, ma cerco di comportarmi bene.

Poi Loz porta a casa Shimai. È una bella gattina. Gli è così affezionato.

Devo ucciderla.

I suoi miagolii mi tengono sveglio la notte, di giorno mi perseguitano. La voce non tace un solo istante.

Nel momento in cui Loz la ama di più io le spezzo il collo e la faccio sparire.

Piange per giorni, organizziamo una ricerca in tutto il quartiere, con volantini e tutto il resto. Lo aiuto. Piango con lui. La sua sofferenza nutre la voce.

Imparo che uccidere di per sé non basta. Devo prendere quello che più amano.

Per il mio tredicesimo compleanno la nostra nuova “mamma” organizza una gita in montagna. Siamo tutti eccitati, nessuno di noi ha mai visto la neve.

Il viaggio dura solo un'ora, la neve imbianca qualsiasi cosa e avvolge tutto in un silenzio attonito. Sono di nuovo felice.

Ma alla voce non piace.

Usciamo per un'escursione. Yazoo e Loz vengono accoppiati a bambini più piccoli, e così anch'io. Serve a sviluppare il nostro senso di responsabilità, dicono.

Riku ha cinque anni, è il più piccolo della nostra “famiglia”, lo amano e lo proteggono con tutte le loro forze.

Mentre saliamo su per il sentiero mette un piedino sulla neve fresca senza sapere che sotto lo aspetta una caduta di due metri. Per cercare di afferrarlo cado anch'io con lui.

Chiamiamo aiuto per delle ore mentre il cielo si fa sempre più scuro. Moriremo di freddo.

Lui trema tutto, ha paura, si è rotto una gamba e respira male.

La voce mi dice come fare. Tanto morirebbe comunque.

Pigola appena in cerca d'aria mentre lo soffoco, le mani fasciate dai guanti strette sul suo visino. Smette di lottare pochi istanti dopo.

L'ho fatto per il suo bene.

Secondo il medico nella caduta si è rotto una costola e un frammento si è conficcato nel polmone, perforandolo. È per questo che è morto.

È stata la prima persona che ho ucciso, ed è allora che ho visto Lui, l'Angelo. Quando Riku ha preso l'ultimo respiro, Lui è comparso per un attimo ai miei occhi.

Forse è allora che ho capito che stavo impazzendo.

Da quel momento in poi smetto di fare quello che mi dice. Smetto di uccidere. La mia battaglia non cessa neanche nel sonno, anzi, nei miei incubi infuria più che mai.

Lui non smette mai di sussurrare al mio orecchio cose orribili. Mai.

È una caduta libera verso l'oblio.

Ho quattordici anni e mezzo. Sono in cucina a preparare qualcosa da mangiare.

L'emicrania mi uccide, non riesco a pensare, rischio di tagliarmi le dita mentre affetto i pomodori.

Continuo a ripetere tra me e me “sta' zitto, sta' zitto”, ma lui non tace. Mi porta all'esasperazione.

Voglio solo che cessi questo dolore. Voglio solo che tutto finisca.

Sto per tagliarmi i polsi ma Yazoo interviene. Urla, cerca di farmi lasciare il coltello, non l'ho mai visto tanto spaventato.

Ma non voglio, non voglio, non ce la faccio più, non voglio combattere.

È nel cercare di liberarmi dalla sua presa che lo ferisco. Il coltello penetra la carne tanto facilmente che me ne stupisco.

L'odore del sangue mi fa perdere il controllo.

Spero che sia morto al secondo colpo, profondo profondo, dentro le sue viscere, a squarciarlo in orizzontale da una parte all'altra.

Crolla a terra e mi accanisco su di lui. Una, due, tre, quattro, venti volte. Perdo il conto quando sono costretto a fermarmi, perché Loz mi afferra il polso, bloccandomi. Ma è il polso sbagliato.

Riesco a conficcargli il coltello nel petto e il suo cuore si ferma subito.

Mi trovano in lacrime in un bagno di sangue.

La voce ha smesso di parlare, perché le persone che più amo al mondo sono morte.

Ma non sono stato io.

Non sono stato io.

 

Vuoto. Non c'è nessuno accanto a me. Non c'è un abbraccio. Non c'è nulla. Solo il vuoto.

Sono solo come lo sono sempre stato, soltanto che non volevo ricordarlo.

Mi stringo la testa tra le mani, non ho più lacrime da piangere.

I miei fratelli non ci sono più. Non ci sono mai stati. E io sono pazzo.

Riesco ad alzarmi nonostante il dolore, nonostante la Sua risata risuoni nella mia mente aguzza e tagliente.

Raggiungo la camera della Mamma. Sono sicuro di sentire il suo profumo.

Non posso più tornare indietro, non voglio neanche.

Voglio solo essere libero, almeno una volta.

Libero dal dolore.

Libero di scegliere.

La finestra da sul giardino. Anche se ora è incolto riesco a riconoscere i cespugli dove ci nascondevamo da bambini.

Mi siedo sul cornicione, in bilico, con i piedi scalzi, il pigiama di cotone bianco, i capelli argentei che fluttuano nell'aria. Un fantasma.

Sono morto quel giorno e non lo sapevo.

I ricordi di quell'ultimo anno si aprono davanti a me come un ventaglio dalle mille sfumature colorate, solo che non c'è alcun colore, ci sono solo grigio e nero.

- Sei stato tu, non è vero? -

Credo che sia la prima volta che parlo di mia spontanea volontà con la voce, tranne quando non si tratta di zittirla con minacce e parole a vuoto.

Li hai uccisi tu.”

- No. - scuoto la testa, mi sfugge un sorriso - Sei stato tu a cancellare i miei ricordi? -

Hai voluto credere a quello che ti faceva meno male.”

In qualche modo me l'aspettavo.

Non ho mai accettato quello che ho fatto, probabilmente ho dimenticato di averlo fatto nell'istante subito successivo.

Il ricovero, l'ospedale, lo psichiatra che si arrabbiava quando chiedevo dei miei fratelli, le risposte vaghe delle infermiere se pretendevo di vederli.

Anche la Ragazza dei Fiori ha dovuto giocare la sua parte, ero malato, debole, mi sarei lasciato morire in quel letto se non mi avesse dato un'alternativa.

E poi loro, ovviamente.

Seduti sul cornicione accanto a me, Yazoo a destra, Loz a sinistra. Sono loro a stringermi la mano.

- Ci dispiace Kaddie. -

Piange Loz, tirando su col naso. Prova ad asciugarsi la faccia ma è comunque un disastro di lacrime e moccio. Il solito bambino frignone.

- Volevamo solo che tu guarissi. -

Yazoo mi accarezza piano il viso. Non c'è rancore, odio o sofferenza nei suoi occhi. Se anche io non dovessi perdonarmi, loro l'hanno già fatto.

- Dovevo rendermi conto di essere pazzo, eh? -

Mormoro, ancora un sorriso. Non aspetto segni di assenso da nessuno dei due.

Lentamente mi abbracciano, stretto. Sento il battito dei loro cuori, il loro calore, il loro profumo.

Notti senza incubi, dolci alla vaniglia e lacrime.

Metallo, polvere da sparo e spezie.

Mi lascio cadere. Non è così male.

Sono libero, libero in caduta libera.

Il mio fragile, caldo guscio di carne tocca il suolo, due piani più in basso, ma io sono altrove, stretto a Yazoo e Loz.

Le mie uniche ragioni di vita.


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The Corner

In realtà in questo esatto momento sono così di cattivo umore
non so neanche se dovrei pubblicare questa roba o aspettare domani.
Bho?
Cara Bestie, aspetto di sapere che cosa ne pensi.
Non voglio ucciderti, solo...preservarti.

Chii
   
 
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