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Autore: Maledetta    08/02/2016    2 recensioni
Sherlock se n'é andato da un mese e John, sotto le sollecitazioni della sua analista e del suo secondo analista (anche conosciuto come Greg Lestrade), decide di scrivergli una lettera per mettere in chiaro quello che non si sono mai detti.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: John Watson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La luce pallida di una piovosa mattinata londinese di metà Luglio si spandeva come acqua grigia nel salotto spento e polveroso del 221B di Baker Street, illuminando mestamente le particelle di pulviscolo che fluttuavano nell’aria, quasi fosse essa stessa in lutto.
Il sole quella mattina aveva deciso di trincerarsi dietro le nuvole livide che assediavano il cielo e di non farsi vivo nemmeno per sbaglio. Neanche lui sembrava morire dalla voglia di vedere l’assoluto stato di sfacelo in cui versava il capitano John H. Watson, il quale si aggirava a passi nervosi per la stanza come un’anima in pena, con la barba brizzolata lunga e abbandonata a sé stessa da almeno tre giorni e la maglietta del pigiama macchiata di Dio solo sapeva cosa.
Continuava a girare in tondo, sempre con lo stesso schema: divano, camino, cucina, porta.
Divano, camino, cucina, porta.
Ripeteva lo stesso percorso, sempre uguale, da tre giorni: si fermava solo di tanto in tanto per posare gli occhi gonfi e allucinati sul tavolo sotto le finestre e lanciare uno sguardo frustrato al laptop perennemente acceso e piantato lì sopra come se, acquisendo improvvisamente una coscienza, avesse deciso che  quello era il suo posto nell’universo e non che non si sarebbe spostato di lì per nessun motivo al mondo. 

Il mio maledetto computer e acceso da tre giorni.
Tre.
Sempre sulla stessa maledetta pagina di Word, sempre con la stessa parola scritta sopra.
Sempre lo stesso nome.


Sherlock

La pioggia ticchettava sul vetro delle finestre, scandendo il tempo di quella che sua madre, quando lui era piccolo, chiamava “musica di Dio”.
John non sapeva che diavolo di musica fosse.

Sherlock lo avrebbe saputo, lui sapeva sempre tutto...be’ quasi tutto.
O magari avrebbe detto che definire il rumore della pioggia “musica di Dio” era ridicolmente stupido.


Guardò lo schermo del computer, di nuovo.
Fissò per sei infiniti secondi quell’unica parola sullo schermo e si ritrovò a maledire mentalmente la  piccola schifosa  barra del cursore che continuava a lampeggiare senza pietà sulla pagina bianca, ricordandogli che non aveva ancora scritto niente.
Niente.

Sherlock

Smise di gironzolare a vuoto per il salotto: in fondo a che serviva? Evitava di farlo impazzire...ma in effetti aveva smesso di essere sano di mente da...da quello. Quindi in effetti non serviva a niente.
Prese un respiro profondo e andò a sedersi sulla sua poltrona.
Quella poltrona di pelle grigia era l’unica cosa della stanza che avesse ancora il suo odore.
Quella sapeva ancora di Sherlock.
L’occhio gli cadde sulla tazza abbandonata a raffreddarsi sul tavolino lì accanto, che ancora emanava un leggero profumo di thè caldo. 
Quell’odore era una delle cose che rendevano quel 221B il loro 221B.
Quello e le parti umane sparse in giro per la cucina.
La signora Hudson...a proposito, quando gli aveva portato il thè? 
Si ricordava vagamente di un vestito di panno viola e di una voce angosciata che esclamava: “John, caro, bevi almeno una tazza di thè, non puoi continuare così...”, ma non si era reso conto che fosse lei.
La padrona di casa aveva versato qualche goccia di thè, mentre posava la tazza su quel tavolino traballante e una serie di macchie frastagliate e marroncine facevano bella mostra di sé sul centrino.
John non riusciva a guardarle...faceva troppo male. Non riusciva più a vedere macchie da nessuna parte: evitava persino di guardarsi allo specchio per non dover affrontare lo sporco sulla sua maglia o le chiazze che le lacrime gli avevano lasciato sulle guance, malgrado fosse ragionevolmente  sicuro che la sua barba ruvida le coprisse.

Gli facevano girare la testa.
Lanciò l’ennesima occhiata disperata al computer.

Sherlock.

Esatto. Sherlock. E fino a lì ci sono. E poi? Il problema è questo: non so cosa diavolo scrivere poi. John Watson non sa cosa scrivere...assurdo.

Fece un respiro profondo, riempiendosi i polmoni delle lievi tracce di Sherlock che ancora permeavano l’aria attorno a quella maledetta poltrona e si alzò di nuovo, strascicando i piedi fino al tavolo e sedendosi davanti al portatile.

Sherlock

Avanti, sono un maledetto soldato, sono sopravvissuto al maledetto Afganistan...posso scrivere una maledetta lettera, no?

Sherlock...
Mi sono appena reso conto di una cosa: non so perché diavolo ti sto scrivendo.


Certo che so perché gli sto scrivendo...ho bisogno di un caffè...sono troppo fuso.

Fece quasi per alzarsi e andare in cucina a prendere un caffè, ma poi si trattenne.

Non ci sono parti umane in quella cucina. Come posso entrarci sapendo che non vedrò niente che mi traumatizzerà? Le macchie sul tavolo...non posso vederle. Ora mi metto d’impegno e scrivo questa maledetta lettera...e vaffanculo al caffè e ai pezzi di cadavere.
Coraggio Watson: via il dente, via il dolore.


Riempì i polmoni d’aria e posò di nuovo le dita sulla tastiera...la stessa tastiera su cui aveva composto le loro, di musiche, scrivendo sinfonie di lettere e parole che parlavano di loro due. 
Sherlock e John.
Holmes e Watson.
L’unico consulente detective del mondo e l’ex medico militare.
Il sociopatico iperattivo e il blogger.
Sbatté le palpebre un paio di volte, per scacciare i pensieri...o almeno per scacciare quelli più brutti, e poi ricominciò a scrivere.

O meglio, lo so benissimo perché lo sto facendo: ti sto scrivendo perché Ella, la mia analista, sostiene che potrebbe farmi bene chiarire ciò che tra noi era rimasto in sospeso...parlare delle “cose che non ci siamo mai detti” e...via dicendo. 
Gesù, a volte mi chiedo dove quella donna abbia preso la laurea in psicanalisi: in teoria dovrebbe aiutarmi a stare meglio, invece riesce solo a dirmi di fare cose che mi sembrano ancora più malate di quelle che faccio già da me (tipo scriverti quando so benissimo che te ne sei andato da più di un mese, anche se non riesco ancora a dire quella maledetta parola con la “M”) e a farmi sentire patetico.


Io sono patetico...e anche questa lettera lo è, decisamente.

John represse un grugnito frustrato mentre cancellava tutto per quella che probabilmente era la novantasettesima maledettissima volta.
Lasciò soltanto una parola.

Sherlock

Avanti...scrivo questa maledetta lettera così poi non ci penso più .

Sherlock
Il mondo è noioso senza di te, lo sai? Baker Street è noiosa. 
Non riesco più a vedere le persone, se non me le mostri tu. Ogni tanto mi chiedo come cavolo facevo prima, quando non ti conoscevo.
Anzi: in realtà le vedo, le persone. Riesco a dedurle (non come facevi tu, sarebbe impossibile) ma non me ne frega un cazzo. Sono tutti uguali, come posso non essermi mai accorto di quanto la gente sia maledettamente noiosa?
È assurdo, quasi paradossale, il fatto che ora che non ci sei più la mia visione del mondo si avvicini così tanto a quella che presumo avessi tu.
Come facevi a non andare fuori di testa? 
Io sto impazzendo...anche perché senza di te non posso fare niente.
Non posso essere un blogger, perché il mio soggetto, quello che mi dava qualcosa da raccontare al mondo, eri tu e ora come ora non ho le forze né la voglia di trovarmene un altro.
Non posso essere un detective, perché diciamocelo: in effetti la mia unica funzione era gironzolare con aria smarrita, prendere appunti e infilare ogni tanto uno “Straordinario!” in mezzo alle tue deduzioni.
Non posso essere un medico, perché non sono nemmeno lontanamente nelle condizioni psicologiche di fare del bene a qualcuno.
All’inizio chiacchieravo con il tuo teschio, ogni tanto. L’ho soprannominato Billy...ma adesso è un po’ che io e lui non parliamo. Fa troppo male.
Non posso fare niente.


Che diavolo sto scrivendo?

Per un attimo ebbe la tentazione di cancellare tutto un’altra volta. Altre cento e novanta parole buttate giù per il cesso. Poi decise di lasciar perdere.

Tanto nessuno leggerà mai questa roba...

Posso solamente girare in tondo nel salotto, sedermi ogni tanto nella tua poltrona per piangermi un po’ addosso, respirare e cercare di non morire di ricordi.
Si può morire di ricordi?
La cosa divertente è che sono un medico, e dovrei saperla una cosa del genere.


Seriamente?

Tutto quello che posso fare è stare qui a girare in tondo come un maniaco e a far preoccupare la signora Hudson.
Tutto quello che posso fare è cercare di non guardare niente troppo a lungo.
Credo che me ne andrò dal 221B, sai?


Davvero John? E quando pensavi di dirmelo? Con affetto, il tuo cervello.

C’è troppo di te qui...non riesco nemmeno a guardare le macchie di acido sul tavolo della cucina...non riesco a guardare le macchie in generale a dire il vero: mi ricordano troppo...be’, lo sai no? Non credo serva dirlo. 
Ogni cosa che guardo, qui dentro, mi ricorda qualcos’altro, che a sua volta mi ricorda qualcos’altro ancora e...e comincia una specie di reazione a catena che mi esplode nel cervello peggio di una bomba nucleare. 
Mettiamo ad esempio che guardi l’astuccio del tuo violino. Da lì partirà il ricordo di quella volta che ti sei messo in testa di scrivere una sinfonia  alle tre e mezza di lunedì mattina e io me ne sono rimasto a letto a rigirarmi con un cuscino sulla testa e a cercare di decidere se quel maledetto violino era meglio spaccartelo sul quel pagliaio di ricci che ti ritrovavi o  ficcartelo su per...be’, forse non è il caso di eccedere nelle volgarità. Comunque, non è finita qui. Dagli istinti violinicidi ispirati dalle tue sonate notturne la mia testa passa al pugno che ti ho tirato fuori dalla casa della Donna, anche se quella era violenza sulla tua faccia e non sul tuo violino.


Non è questo quello che devo scrivere...concentrati Watson, concentrati.

Comunque, Ella dice che dovrei scriverti per parlarti di quello che non ti ho mai detto...e Lestrade dice più o meno la stessa cosa, anche se ancora non ho capito chi gli abbia detto che ho bisogno di un secondo psicanalista.
Il punto è che quello che è rimasto non detto aveva i suoi motivi di restare non detto...e ora sto pensando che quando eri di cattivo umore non parlavi per giorni e non riuscivo a farti emettere un suono neppure tirandoti i capelli. 
Ti ricordi quando mi hai detto che odiavi i tuoi capelli? Era quasi Natale, l’anno scorso, avevi fatto esplodere un esperimento in cucina e i vapori dovevano averti dato alla testa, perché dicevi un mucchio di stronzate...tipo che odiavi i tuoi capelli perché ti sembravano da donna. Credo che quello sia stato uno dei momenti più maledettamente assurdi della nostra convivenza...e di momenti assurdi ne abbiamo avuti parecchi.
Sto divagando... 


Tanto per cambiare...

John staccò le dita dalla tastiera, sbuffando. Non aveva molto senso come lettera...non che qualcosa effettivamente ne avesse senso, da quando Sherlock era...

Sai, nel corso del tempo ho notato che tendo spesso a divagare, dentro la mia testa. 
Fuori sembro maledettamente diretto e concreto e malgrado ci provi non riesco a battere la rigidità che mi è rimasta da quando ero un soldato, ma la maledetta verità, e tu questo lo sapevi, è che sono un inguaribile romantico e che, quando credo che nessuno se ne accorga,  adoro divagare.
Ora che ci penso, però, non sono certo che questa si possa veramente definire una divagazione: la storia di te che odiavi i tuoi capelli non è stata l’unica cosa che mi hai detto quella sera...te lo ricordi? Non era ancora del tutto buio, fuori nevicava e io ero incazzato nero perché avrei dovuto uscire con una ragazza e invece la maledetta neve mi teneva bloccato in casa a fare da babysitter a te che giocavi al “Piccolo Chimico”.
Mi aggiravo per il salotto furente, fermandomi ogni tanto davanti al camino acceso per scaldare un po’ le chiappe: faceva un freddo maledetto l’inverno scorso e quella settimana avevamo il riscaldamento rotto.
Il fuoco scoppiettava allegro, emanando una luce calda che avvolgeva tutta la stanza...esattamente il contrario di adesso. 
Fa così freddo da quando te ne sei andato, Sherlock...
Tu, a differenza mia, eri calmissimo, come sempre quando lavoravi ai tuoi esperimenti. 
Te ne stati in cucina a mescolare sostanze non meglio specificate, con addosso uno dei miei maglioni rapito direttamente dal mio armadio. 
Ti andava piccolo di almeno due taglie, ma tu te ne fregavi e restavi là tranquillo a infilare un becher  di schifezze dietro l’altro dentro il forno a microonde, come se non ti fossi accorto che eri assolutamente ridicolo. 
A essere sincero, non sono stato per niente sorpreso quando alla fine uno di quei maledetti cosi é esploso: doveva succedere prima o poi, ma se prima ero incazzato, dopo aver visto il mio maglione completamente schizzato di robaccia viola avevo seriamente voglia di ucciderti...poi hai cominciato a parlare di capelli e mi veniva da ridere.
All’improvviso mi hai guardato e mi hai detto che...


Devo solo stare calmo. Scriverlo non lo rende più reale...sto solo ricordando quello che è successo: non si può morire di ricordi.

John sentiva le lacrime salirgli in gola mentre chiudeva gli occhi più forte che poteva, come fanno i bambini quando non vogliono vedere qualcosa.
Il viso di Sherlock era impresso dietro le sue palpebre. 
Sempre lì, con quei suoi occhi che non erano mai due volte dello stesso maledetto colore e quei ricci morbidi che assomigliavano a quelli che spesso hanno i bambini, quando i capelli sono ancora sottili e reagiscono all’umidità più di quanto non lo facesse la ferita di John quando il tempo cambiava.

Perché non piangere è diventato così difficile?

Sai Sherlock, a volte mi chiedo perché non riesco a non pensare a te senza che mi venga da piangere. 
Sono sopravvissuto al maledetto Afganistan, Gesù Cristo: ho visto persone, anche miei amici, morire soffrendo come cani. 
Io stesso sono quasi morto.
Ho visto ragazzi Afgani a mala pena maggiorenni lanciarsi contro le nostre postazioni, cadendo come foglie sotto il nostro fuoco incrociato.
Ho visto bambini (bambini, Sherlock, bambini!) fatti saltare in aria come petardi all’ultimo dell’anno per tentare di uccidere anche un solo maledetto soldato inglese.
Ho visto lapidi spuntare dalla terra come margherite e corpi di poveri diavoli Afgani bruciati in massa nel deserto perché non si sapeva né a chi restituirli né dove altro metterli.
Non ho mai versato una lacrima per questo.
Allora perché non riesco a pensare a te nemmeno per un dannato momento senza che mi venga da piangere? 
Mi manchi.
Forse è per questo. Forse è perché...perché, diamine, niente ha più senso adesso.
Baker Street è maledettamente vuota, fredda e polverosa e lo è sempre stata, ma senza di te si nota di più.
Le persone sono tutte uguali, tutte noiose e asfissianti e lo sono sempre state, ma tu le rendevi interessanti.
Tu mi hai detto...ti sei messo a parlare di capelli e poi mi hai detto...


Perché deve essere sempre tutto così maledettamente difficile? Senza contare il cambio di argomento che non centra niente, ora vorrei capire perché diavolo è così difficile scrivere che...

John si coprì il volto con le mani. La barba gli pungeva i palmi e riusciva a sentire il gonfiore sotto gli occhi con i polpastrelli.
Aveva bisogno di dormire...e lo avrebbe fatto, se avesse avuto la sicurezza di non sognare.

Immagino sia inutile continuare a provarci: non riuscirò mai a scriverlo.
Ella avrebbe anche potuto informarmi del fatto che poteva essere che non riuscissi a mettere nero su bianco quello che avrei voluto dirti. 
O magari il “non ci riesco” non è contemplato. Forse non riuscirci non è normale.
Ormai non so più cosa ci sia che non va in me: è come se non ci fosse più niente che funzioni come si deve. 
Probabilmente la signora Hudson ha ragione: dovrei mangiare qualcosa e dormire, ogni tanto. Lo farei se ci riuscissi, davvero, ma non ci riesco.
Probabilmente c’è una sola cosa che non ti ho mai detto Sherlock, ma non è quella che crede Ella.
Non che quella te l’abbia mai detta, in effetti, ma non c’era bisogno di dirla.
Tu me l’hai detta, quella cosa, quella sera, e probabilmente il mio unico rimpianto è di essermi messo a ridere e di non averti detto...


Una lacrima gli scese giù per la guancia: non gli aveva creduto.

Mi fidavo di te, Sherlock Holmes: ho  sempre creduto ciecamente a qualunque cosa tu  dicessi, ma quella sera...
Non ho mai pensato che tu fossi veramente sociopatico, o che fossi veramente la macchina che dicevi di essere, che non provassi niente.
Avevi dei sentimenti, magari diversi da quelli di qualunque altro comune mortale, ma ero convinto al cento per cento che tu sentissi qualcosa. Almeno qualcosina.
Ma non ti ho creduto...perché quello per te mi sembrava troppo...semplice. 
Troppo umano, anche se ho sempre pensato che tu fossi più umano di tante altre persone di mia conoscenza.
Perché non ci vuole niente ad amare una persona. 
Io ho sempre creduto ai colpi di fulmine: ho sempre creduto che, se la persona è quella giusta, si possa innamorarsene anche solo vedendola un’unica volta (il che torna a favore del lato romantico di cui sopra), quindi, alla luce di questo ragionamento, dove sta la difficolta nell’innamorarsi? Persino tu, con la tua presunta sociopatia, avevi un debole per Irene Adler.
L’amore è un sentimento arbitrario: a volte si può amare una persona senza averci mai nemmeno parlato...agli adolescenti capita spesso.


Ma noi non eravamo adolescenti...e lui non...

Tu mi hai detto quella cosa, quella sera, e probabilmente quella risposta che non ti ho dato è l’unica cosa che avrei sempre voluto dirti, ma che non ti ho mai detto. E no, Ella si sbagliava: non volevo dirti “Ti amo”, perché quello non c’era bisogno di dirlo.
Pensavo che non ci fosse bisogno di dirti nemmeno quella cosa: ero convinto che lo sapessi già. Tu, con quel tuo cervello geniale, come potevi non saperlo? 
Invece ti sei buttato e...e io avrò sempre paura che tu l’abbia fatto perché non ti sentivi importante, perché io non ti stavo abbastanza vicino.
Ella dice che provare a dirti quello che non ti ho mai detto potrebbe farmi stare meglio. Ma non ci riesco. 
Forse non voglio stare meglio, perché, cazzo: tu sei morto e io avrò sempre il dubbio che sia stata colpa mia.
Alla storia di te che saresti un maledetto impostore non ci ho mai creduto, nemmeno per un secondo: io mi fidavo di te, Sherlock, e niente e nessuno potrà mai convincermi che mi hai detto una bugia.
Perché amare una persona è maledettamente facile, ma volerle bene...è tutta un’altra storia. 
“Voler bene” significa amare  senza chiederle niente in cambio. Niente sesso, niente frasi sdolcinate, niente maledetti cioccolatini a San Valentino o che ne so io.
Significa amare una persona anche quando ti fa incazzare e vorresti spaccarle la faccia.
E io non te l’ho mai detto. Non te l’ho mai detto, ma...ti volevo bene anch’io.
Ti voglio bene, Sherlock.


Ecco, visto? Non è stato così difficile.

John si alzò di scatto, rovesciando la sedia. Il fracasso del legno che sbatteva sul pavimento rimbombò per tutto il salotto, mentre lui si trascinava come un automa verso la poltrona di Sherlock.
Aveva a mala pena la forza di reggersi in piedi...persino la gamba aveva ricominciato a fargli male.

Dannata gamba.

Si abbandonò sullo schienale della poltrona, respirando il lieve odore di Sherlock che vi era rimasto appiccicato. 
Aveva il petto scosso dai singhiozzi, faticava addirittura a respirare.
-Non è stato difficile vero?- borbottò tra sé e sé. A volte si chiedeva dove trovasse ancora la forza di essere sarcastico.

Ti voglio bene Sherlock.


SPAZIO AUTRICE Salve a tutti Sherlockian! Spero che questa OS vi sia piaciuta, fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione (vediamo se stavolta superiamo il mio record, ovvero: due!).
   
 
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