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Autore: Roxar    09/02/2016    0 recensioni
Abbassa gli occhi sulle loro dita ancora intrecciate, proprio come quando erano bambini, e gli sembrano calde e affusolate allo stesso modo.
Certe volte, le scelte più giuste sono anche quelle più rischiose.
"Perché adesso?"
Basta solo avere un po' di coraggio.
"Le cose non sono fatte per durare per sempre."
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La strada è come le sue scarpe la ricordano.

Terra battuta, pietrisco sottile; qualche pietre sporadica che il vento si è portato dietro da chissà dove. Vento che s'infila tra le foglie dei pini e degli ulivi, che passa la mano sul manto d'erba che si srotola a perdita d'occhio, chiazzato dove capita di terra smossa di recente. Nell'aria c'è il profumo delle cose perdute e ritrovate. Il cielo non è mai stato così azzurro.

Mette insieme i passi, uno alla volta; un singolo albero di mandorlo fa sfoggio dei suoi primi fiori di stagione - belli, grandi, bianchi, vagamente profumati. Eugenio resta sospeso in quel singolo attimo di spazio-tempo per fissarlo, poi passa le dita sui petali di un fiore, l'indice e il pollice che esitano, incerti se reciderlo o meno; per ogni frutto perduto ne nasceranno altri venti, pensa. Ma quel singolo frutto, con tutte le sue caratteristiche individuale, andrà irrimediabilmente perduto - e mai più ritrovato.

Allontana la mano e prosegue. Uno stormo di corvi dal petto nero carbone passano a volo radente su di lui, puntando le prede che la terra smossa ha portato in superficie. Quando passano, i suoi occhi intercettano dei bagliori bluastri, riflessi strappati dal sole che picchia sulle loro ali. Per un attimo pensa ad Icaro, alle sue ali bruciate, allo schianto - non è la caduta che ti uccide, non è mai la caduta; è l'atterraggio - ma questi animali resteranno in quota, creati e nati per farlo. Non ci saranno fiamme e fumo.

Le gambe lo fanno svoltare in un sentiero sterrato, che serpeggia oscillando come un ubriaco, a destra e sinistra, sopra e sotto, reggendosi alle due file d'alberi che lo sostengono e lo aiutano ad interrompersi all'ombra di un enorme muraglia. Eugenio si sente piccolo, piccolissimo, infreddolito dall'ombra che gli precipita addosso. Rabbrividisce, ma non è solo per quello. È passato molto tempo da quando è stato in questo posto e i cambiamenti sono lampanti. L'ultima volta, il muro di cinta era instabile, traballante, approssimativo; gli arrivava appena alle spalle. Fragile, ma non abbastanza da crollare. Chiaramente, nel corso degli anni altre pietre sono state aggiunte, strati su strati, e si intuisce una cura sempre maggiore, una perizia sempre più raffinata. Le pietre sono incastrate ad arte, tenute insieme da rigagnoli di cemento impolverato che corre negli interstizi, e si innalzano per parecchie decine di metri, al punto che i suoi occhi fanno fatica a scorgerne la sommità; gli strati inferiori sono stati sistemati e rinforzati.

È stato fatto un gran lavoro, ed Eugenio non può che sentirsi sconcertato e ammirato in egual parte. Qualunque cosa si aspettasse, tornando, non era certo quella.

Perfino la porta è diversa, sostituita nel corso degli anni, rimpiazzata da una robusta, severa, ma elegante. La spinge senza cautela e quella, nessuna esitazione, nessun cigolio, ruota delicatamente sui cardini. Quello che cela gli spezza il respiro, gli fa comprendere l'enormità di quello che ha fatto.

Si aspettava di trovare una casupola modesta, non questo casale vecchio, ma non male in arnese, con le piante sui davanzali e le tende alle finestre. Un cane gli corre incontro, abbaia, scodinzola, gli lecca le mani. Non ha memoria di questo animale, ma comunque si china su un tallone per grattarlo dietro alle orecchie.

"E tu? Chi sei, tu?"

Ma a rispondere non è il cane.

"Si chiama Atticus."

Quella voce. Quel suo modo un po' strascicato di pronunciare la esse. Eugenio si rimette in piedi e guarda in alto. Affacciato ad una finestra spalancata, c'è lui. E mentre tutto è cambiato, lui è rimasto lo stesso: capelli biondi spettinati, occhi ambrati, spalle strette, sorriso gentile e buono. Il ritratto di tutto ciò che si è lasciato indietro. Eugenio fa per dirgli qualcosa, ma quello alza un dito, a mo' di richiesta, e sparisce. Il suono di passi che si precipitano lungo le scale ne anticipa la figura snella e scattante che avanza contro di lui, fermandosi però ad un'opportuna distanza di sicurezza. Ci sono cose che ancora restano incastrate tra loro, cose spigolose, i cui angoli graffiano ad ogni movimento.

"Ciao," si salutano nello stesso momento e lui ride mentre Eugenio ride. Ridono più forte e le loro braccia si stanno già cercando, trovando, chiudendo su una schiena che hanno mandato a memoria secoli fa. Eugenio aveva dimenticato quella sensazione, il calore vibrante e il desiderio di non staccarsi mai più da lui. No, non è che l'aveva dimenticato; semplicemente, l'aveva mandata via, presa a calci e maltrattata, come si fa con i cani fedeli per non farli tornare più. Saperla lontana lo ha aiutato a sopravvivere al dolore del distacco. Ma eccola qui di nuovo; l'ha ritrovato senza sforzo, forse perché, alla fine, non si è mai allontanata veramente.

Si separano ed Eugenio gli fa cenno di seguirlo fuori. L'altro è chiaramente sorpreso, aggrotta la fronte ed esita, ma alla fine lo raggiunge e gli cammina accanto, guardandosi intorno con eccitazione. È chiaro che non ha mai tentato di scavalcare la muraglia. Che vita solitaria deve essere stata, la sua, perennemente rinchiuso nel suo bel casale, nella sua bella gabbia comoda. Eugenio non può fare a meno di provare una fitta di colpevolezza e, in un momento di impulsiva debolezza, tende la mano e intreccia le dita alle sue, facendolo poi sedere su un largo masso, all'ombra di un ulivo particolarmente imponente.

Restano per un po' così, in silenzio, a fissare la campagna circostante. Il sole sta già iniziando a calare, la sua luce si è fatta più tenue, più colorata. Ad occidente, il cielo inizia a farsi più vivido. Non potrà trattenersi a lungo; sa che praticare quelle strade desolate di notte non è una scelta saggia. Ciononostante, abbassa gli occhi sulle loro dita ancora intrecciate, proprio come quando erano bambini, e gli sembrano calde e affusolate allo stesso modo. Indugia, mantiene il silenzio.

Poi: "Non sapevo se fossi ancora qui. Avevo la sensazione che fossi... altrove."

L'altro ride, ride di cuore mentre gli spettina i capelli - tanto neri quanto i suoi sono biondi - e gli dà una piccola spallata giocosa. L'ilarità nelle corde della sua voce gli solleva un peso dallo stomaco che non sapeva di aver avuto fino a quel momento.

"Dove altro potrei essere?" chiede, però adesso c'è una punta di amarezza nella sua voce. Eugenio si morde un labbro. Sa che è una domanda retorica che non cerca una risposta, ma si sente ugualmente in dovere di dargliela. Ma per dirgli cosa? Che l'ha richiuso là dentro per il suo bene? Che ha solo cercato di proteggerlo? Che niente avrebbe potuto spezzarlo, quaggiù? Suonerebbe così falso, così ipocrita. L'ha relegato in questo posto tanto rigoglioso quanto remoto per salvaguardare se stesso, lo sanno perfettamente entrambi.

"Come sei stato, in tutto questo tempo?" chiede, perché ha bisogno di sentirsi dire che, alla fine, è stato bene. Solo, forse, e smanioso ogni minuto del suo tempo di varcare quell'immensa muraglia che gli è stata costruita intorno, ma in buona salute.

Integro.

Perché ci sono stati giorni in cui ha temuto che potesse essergli accaduto qualcosa di terribile, giorni pervasi di ansia e preoccupazione e rimorso.

"Bene. Sì, insomma, vivo. Ma a volte penso che sia il momento di farla finita, Eugenio. Io e te, tutta questa cosa," e gesticola verso le mura. La loro ombra si allunga e si stiracchia, sfiorando le loro scarpe. Non resta più molto tempo. Il cielo a occidente è livido, adesso; la luce aranciata, smorzata; le nuvole quasi bruciano.

È lieto che abbia toccato il punto, lieto che ci sia arrivato, lieto che abbia capito il motivo della sua venuta.

Hanno amato, hanno rischiato; sono caduti, si sono fatti male; sul suo collo, sotto i ciuffi biondi, c'è ancora la forma tremula di una vecchia cicatrice. Il dolore gli ha riempito le braccia, ha sistemato ogni pietra che ha posato intorno a lui, burattinaio e burattino. Poi ci ha infilato una porta, lo ha salutato con una pacca e si è assicurato di chiudere bene la porta dietro di sé, doppia mandata, così, per sicurezza.

Sono passati i giorni, che si sono fatti mesi e poi anni. Il dolore è passato come era venuto: di colpo, senza sfumature. Come un temporale il trentuno di luglio - rumore, fulmini, pioggia, fine.

Non è che si sia scordato di lui, in tutto quel tempo - non l'ha fatto. Ha sempre gironzolato da quelle parti, lo ha sempre tenuto d'occhio da una crepa tra le pietre, solo per accertarsi che fosse ancora vivo, che il suo sangue si fosse rappreso e la ferita infine guarita. E poi, un giorno, che agosto si stava facendo da parte, semplicemente non è tornato. Le sue scarpe non hanno più battuto quei sentieri, l'orlo dei suoi jeans non si sono più impolverati di terra rossa.

Non è più tornato.

Fino ad oggi.

La prima stella inizia ad ammiccare, rammentandogli che è tempo di andare. Tempo di congedarsi da lui. Tempo di abbattere i muri, sfasciare le porte. Eugenio infila una mano oltre il colletto della camicia e ne tira fuori una catenella d'argento macchiato dal tempo, a cui è appesa una piccola chiave chiazzata di ruggine. La strattona con un gesto secco, si sbriciola contro la pelle - ma non fa male. E poi, facendola penzolare un po', gliela porge.

Vede i suoi occhi ambrati allargarsi, muoversi dalla chiave a lui e viceversa, andata e ritorno, ritorno e andata.

"Perché adesso?"

"Le cose non sono fatte per durare per sempre," dice Eugenio semplicemente e gli posa la chiave nel palmo morbido, districando le dita dalle sue. Si alza in piedi. La luce è misera, adesso. Lo guarda per un attimo lunghissimo, un singolo secondo pieno di anni di cose non dette, non fatte, negate, desiderate ma mai avute.

"Buona fortuna," gli dice e, per la seconda volta, andando via non si guarda indietro. Sente il suo sguardo appiccicato alla pelle, che cerca quasi di penetrarlo, ma non si volterà. Deve trovare la sua strada, e deve farlo da solo. È un suo diritto, più che un dovere.

È il premio della libertà.

Eugenio calcia via una piccola pietra, infila le mani in tasca e sorride, replicando il profilo della luna calante che si arrampica lungo la linea dell'orizzonte.

Hello, my old heart
how have you been?
How is it, to be locked away?
Well, don't you worry,
in there you're safe.
And it's true, you'll never beat
but you'll never break.

"Eugenio? Eugenio, ti sbrighi?! Guarda che il matrimonio di tua sorella inizia fra due ore, eh!"

"Fede."

"Eh, io. Dai, forza. Dai--- che c'è?"

"Io ti amo."

Nothing last forever,
some things aren't meant to be.
But you'll never find the answer
until you'll set your old heart free.

(x)

   
 
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