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Autore: Impossible Prince    10/02/2016    2 recensioni
«Se dovessero mai scrivere una biografia su di me dovrebbero intitolarla "La Bibbia", o meglio, "La Bibbia del Potere". Perché nessuno meglio di me sa cosa sia il vero potere».
Giovanni Silviosi nasce nel 1955, a Smeraldopoli, in una Kanto povera, sconvolta dalla Seconda Guerra Mondiale e dalle dure sanzioni che i Paesi Alleati le hanno imposto a seguito della sua capitolazione. La povertà dilaga, il disagio è una pentola a pressione pronta ad esplodere e il vuoto, lasciato dalla politica, è ricoperto da un’inquietante organizzazione che si fa chiamare Team Rocket.
Per alcuni un criminale la cui potenza va oltre le solite inchieste giornalistiche, per altri un imprenditore brillante. La Bibbia del Potere è la storia dell’uomo che è riuscito a piegare un’intera nazione al suo cospetto.
Storia INCOMPLETA
Genere: Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Giovanni, N, Nuovo personaggio, Team Rocket
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Genesi 1.3 – Il funerale dell’innocenza
 
«Salvare Caino è un’azione tanto nobile. Ma è quello che vuole il Paese? No, la pancia del Paese vuole la vendetta, vuole vedere il sangue grondare e le teste capitolare. Quando ti domanderai a chi parlare, se alla pancia o alla testa del Paese, ricorda che solo la prima ti farà vincere le elezioni»
 
DONG!
È così che si dice da bambini.
«Come fanno le campane?»
«Dong Dong Dong Dong».
DONG!
Poi però si cresce, non rispondiamo con il «Dong Dong Dong Dong» perché più nessuno ci chiede più come fanno le campane.
DONG!
Nessuno se ne accorge, non esiste una data in cui smettiamo di imitare le campane, non esiste un evento specifico che fa smettere alle persone di chiederci quale sia il loro suono. Non c’è una legge che dice “Da tale giorno in avanti, non si chieda più ai bambini come fanno le campane”, no. È un processo spontaneo, lento, tanto lento da essere impercettibile e invisibile. Ma nonostante sia invisibile non significa che non esista. Il fatto che Joltik deponga uova tanto piccole da essere, solitamente, nascoste alla vista umana, non significa che da quelle uova non nasceranno altri pokémon Coleottero-Elettro. No, esiste tutto a questo mondo, anche le cose piccole, le cose nascoste. Ed esiste anche quel processo spontaneo, lento, tanto lento da essere impercettibile e invisibile, che un giorno ci porterà a smettere di dire «Dong Dong Dong Dong».
DONG!
Ma cosa significa crescere?
Significa forse non entrare più in determinati vestiti?
Significa forse provare sentimenti ed emozioni che una volta ci erano sconosciuti, quasi preclusi?
Significa poter partecipare a determinate discussioni dove prima venivamo allontanati perché erano “discorsi da grandi”?
Oppure significa vedere il mondo con occhi diversi, osservare l’universo circostante indossando un paio di occhiali da vista che hanno il nome di “realismo”?
Significa forse capire che le cose che ci hanno raccontato da bambini, sin da piccoli, erano solo bugie, fandonie? Sì, ci rendiamo conto che Walt Disney, piuttosto che propugnare i suoi film d’animazione dove il bene vinceva sempre, avrebbero meritato una condanna per aver illuso generazioni e generazioni di piccoli: Biancaneve, Cenerentola e Aurora non avrebbero trovato per caso l’amore della loro vita. I matrimoni, nel Medioevo, erano tutti combinati, decisi in base alle esigenze geopolitiche che i Re e le loro casate avevano. Crescere è anche chiedersi per quale motivo Re Stefano non abbia invitato la fata più cattiva e malvagia di tutte al battesimo della figlia Aurora. A Smeraldopoli si invitano sempre i potenti ai battesimi dei propri figli o ai propri matrimoni. Altrimenti questi si arrabbiano e poi te la fanno pagare, e non c’è mai un Principe Filippo poi a salvare capre e cavoli, no.
E per non parlare de “L’amore”: ci è sempre stato detto che trionfava su tutti e tutto! Ora, questo misterioso sentimento non riesce mia a trionfare davanti ad un giudice, quando questo emette una sentenza di divorzio dei coniugi.
Crescere vuole dire anche smettere di credere che il bene esista e al contempo significa smettere di vedere il male incarnato dal diavolo, ovvero un nanetto basso, con le corna e un forcone che ride malvagiamente saltellando sulle sue gambine.
Sì, crescere significa capire che il male è di questo mondo e pervade ogni singolo aspetto della vita umana.
DONG!
Non tutti però crescono. Non tutti si rendono conto dell’inesistenza del bene e della dominanza del male su tutti gli aspetti della realtà terrena. Alcuni continuano a credere che un giorno questo mondo si sistemerà, che i poveri non saranno più poveri, che i ricchi continueranno ad essere ricchi e che coloro che sono senza cibo e senza casa avranno un pasto caldo e un tetto sopra la loro testa per tutto il resto della loro esistenza. Altri ancora desiderano la fine della guerra, la fine della crudeltà dell’uomo, la fine della sua cattiveria. Desiderare, sperare che questo avvenga è alla stregua di sperare che i film di Walt Disney siano storie vere e replicabili per tutti i secoli a venire. Lo desiderano, lo sperano coloro che rimangono bambini. Anche se i vestiti ora gli stanno stretti, anche se ora sono molto più alti, hanno un vocabolario più forbito e provano quelle emozioni o sentimenti che una volta gli erano preclusi.
Le loro speranze, quando pronunciate ad alta voce, sono solo suoni buttati nel vento. Un inutile spreco di fiato, un inutile spreco di tempo. E sprecare è male, ce lo insegnano sempre da bambini. Meglio rendersi conto che le cose non sono come ce le hanno sempre descritte. Meglio imparare, sin da subito, che la realtà del mondo è diversa dalle fiabe, dalle favole. Prima avviene e meno si soffrirà, perché è naturale provare del dispiacere quando si scopre che Alice, molto probabilmente, il Paese delle meraviglie l'ha visto solo grazie a dei funghetti allucinogeni. Ma quanto è naturale voler nascondere la testa sotto la sabbia e non accorgersi che il mondo attorno sta crollando? Quanto è salutare farlo?
DONG!
Ad un certo punto della nostra vita dobbiamo tutti far i conti con la crescita. Dobbiamo tutti ammettere che la realtà delle cose è diversa da quanto ci abbiano sempre detto. E quando lo faremo i nostri occhi saranno più spenti, stanchi, meno luminosi e brillanti. Ma ci si fa l’abitudine; come quando ci abituiamo a non sentirci più domandare “Come fanno le campane?”.
 
Un urlo squarciò il silenzio di Smeraldopoli. Il Sole doveva ancora alzarsi quella mattina. Il cielo era appena illuminato, carico di nuvole alte e grigie. Un altro urlo, sempre proveniente dalle stesse corde vocali, veniva accompagnato questa volta delle campane, che cominciarono a suonare indicando l’ora.
I loro “DONG!” riempivano le strade e le piazze, oltrepassavano i vetri, giungendo nelle orecchie delle persone che, fino a quel momento, erano cullate dalle braccia di Morfeo. Nessuno faceva più caso ai “DONG!”, colpa dell’abitudine. Eppure quel giorno avevano un suono differente. Sì, sporco, distorto. Era mischiato a delle grida di dolore.
Una donna era inginocchiata davanti al piccolo monumento ai caduti. La statua, in pietra, raffigurava un Dragonite che teneva tra le braccia un soldato morto infilzato da un bastone che gli perforava lo sterno. Era una commemorazione per tutte le vittime del secondo conflitto mondiale. L’opera era stata costruita su un basamento, di pietra anch’esso, di grosse dimensioni e di forma cubica. Su tutti i lati erano stati scritti i nomi delle vittime.
«Me lo hanno ammazzato! Paolo, chi ti ha fatto questo, Paolo!» pronunciò lei, con la voce strozzata dalle lacrime.
Le porte di ferro e vetro dei portoni si aprirono, alcune persiane si spalancarono, mentre le tapparelle vennero alzate. E testa dopo testa, fecero tutti capolino sul grande spiazzo per capire chi stesse emettendo quei suoni così laceranti, ricolmi di terrore, tristezza e paura.
Gridava la donna, piangeva. Il viso era coperto dalle mani che ogni tanto venivano aperte e voltate con i palmi al cielo, la testa lanciata all’indietro e gli occhi domandavano a qualcuno Lassù il perché.
Il corpo di un uomo era stato infilzato nell’asta presente nella statua. Era stato posato sul corpo dell’umano della scultura, con la testa voltata verso la piazza, lo sterno verso il basso, la mano a penzoloni, gli occhi aperti, la lingua di fuori e un rivolo di sangue che sporcava tutta la pietra, giungendo fino alle ginocchia della moglie.
Ed ecco che i più prodi la raggiunsero, le tesero una mano sulla spalla e provarono ad alzarla, alcuni si avvicinarono al cadavere per vedere se ci fosse qualcosa da fare. Ma era troppo tardi, quel corpo pesava ormai ventuno grammi in meno.
E le grida, prima di una sola donna, divennero due, tre, quattro, di tante e tante altre persone che tutti all’unisono esclamavano: «Oddio!», «Santo Cielo!», «Non ci posso credere!».
 
Una mano bussò tre volte di fila, rapidamente, alla porta di casa. Erik l’aprì in una frazione di secondo, mostrando di essere già vestito, con la classica divisa grigia mimetica.
«Cos’è successo, Franco?» domandò all’anziano che aspettava sull’uscio.
Indossava un borsalino di color marrone. I suoi occhi, nonostante il colore castano scuro, esprimevano freddezza. Il volto era rugoso, il naso grosso, i baffi erano brizzolati e le labbra sottili. Anna le aveva prese da lui. E oltre alla freddezza, il suo sguardo esprimeva severità ma anche un pizzico, seppur impercettibile, di preoccupazione.
«Assassinio» rispose freddamente.
Erik inarcò le sopracciglia, rimanendo per qualche secondo stupito da quella notizia. Poi il volto divenne scuro e si chiuse la porta alle spalle: «Andiamo, muoviamoci».
Camminavano velocemente, facendo un leggero cenno con il capo in segno di saluto quando incrociavano lo sguardo di qualcuno. Quel qualcuno che dentro di sé li osservava come se fossero dei salvatori della Patria, che sarebbero riusciti a metter l’intera città in salvo. Una supplica mentale, una preghiera che speravano qualcuno potesse sentire.
Franco Martufelli era il vice-sindaco di Smeraldopoli, partecipava alla gestione della città ininterrottamente dal 1948, in una coalizione tripartitica composta da una lista civica, un partito di centro-destra, “Unione Pokémon Repubblicani” e una lista di centro-sinistra, il “Partito Socialista di Kanto”.
«Ho parlato con il tuo capo stamane, Erik: gli ho detto che non si può continuare così, che bisogna intervenire e fare qualcosa attivamente» cominciò a parlare, non distogliendo lo sguardo dalla strada.
Girarono l’angolo e videro la piazza gremita di persone, tutte attorno al monumento, spettatori di quel macabro evento.
«E scommetto che ti ha risposto che le priorità sono altre, che non possono far assolutamente nulla e che dovete affidarvi alle forze di polizia, giusto?».
L’uomo annuì, osservando sempre più sconsolato e irritato la scena che si presentava davanti ai suoi occhi: «Che poi vorrei capire quali siano le priorità, sinceramente. Rimanete in caserma tutto il giorno e non potete alzare la testa al cielo se non ve lo dice Johnson. Il vostro obiettivo era di limitare la criminalità dovuta al dopoguerra. Questa che cos’è? Che cosa state aspettando? Tanto vale che smantellino l’esercito, come hanno fatto in Giappone o in Italia».
«Ah, Franco, ci smantelleranno presto, fidati. Mi sono portato avanti, ho già fatto richiesta di rimanere qui, hanno sempre bisogno di un paio di soldati all’ambasciata di Zafferanopoli».
Erik fece un profondo sospiro e poi cominciò a domandare alle persone di allontanarsi, avvicinandosi al monumento un passo alla volta.
«Ah sì? Vogliono farvi tornare in Patria?» chiese Franco, tra una richiesta di lasciarlo passare e l’altra.
«Certo che no. Vietnam!» rispose lui sorridente, finalmente arrivato alla elegante ringhiera di ferro battuto che avrebbe dovuto impedire che qualcuno potesse avvicinarsi alla statua. Entrambi scavalcarono la piccola recinzione, avvicinandosi al corpo.
«Paolo Vertone è tornato a casa allora» disse Franco, piegandosi leggermente in avanti e osservando negli occhi, ormai privi di vita, il cadavere.
«Lo conosci?» chiese Erik perplesso, mentre si osservava attorno, chiedendosi quando sarebbero arrivate le forze di polizia.
«Veniva sempre a vedere il consiglio comunale. So che era scappato a settembre... lo cercavano perché aveva fatto un torto a Foster». Franco si rimise in piedi, tirò fuori tre pokéball e chiamò al suo fianco un Primeape, un Machamp e un Haryama. «Allontanate le persone, per favore».
I tre pokémon Lotta si misero in fila orizzontale e cominciarono a spingere le persone per farle allontanare.
«Che tipo era?» chiese Erik, guardando con disappunto il ritardo della squadra di polizia, che finalmente era giunta.
«Chi? Vertone? Una brava persona... salutava sempre» rispose Franco cercando un accenno di complicità negli occhi del genero.
 
Sgattaiolava tra la folla, si infilava tra le persone, le spingeva e le faceva spostare con le sue mani ossute, così capaci di infastidire da permettergli di farsi strada. E quando arrivò a Machamp, si abbassò di colpo e cominciò a gattonare, passando tra le gambe del Megaforza.
Ed ecco lì, davanti ai suoi occhi, l’oggetto dei suoi nuovi desideri. Per strada aveva sentito parlare di un omicidio, per strada aveva sentito parlare di un cadavere infilzato, con il sangue che ancora gocciolava. La bocca aperta, la lingua di fuori, gli occhi sgranati. Sì, era tutto vero, le voci non dicevano menzogne, non raccontavano falsità.
Quegli occhi, così aperti, sembravano guardarlo, sembravano cercare la sua anima. E quel braccio bluastro, pareva girarsi e allungarsi, fino ad arrivargli al collo e stringere, stringere maledettamente forte, così forte che gli occhi sarebbero schizzati fuori dalle orbite.
Era quello, quindi, un cadavere. Era quello l’effetto che faceva. La testa cominciò a girargli, la vista diventò leggermente sfuocata, tendente al giallognolo, la lingua cominciò ad intorpidirsi e, per una frazione di secondo, perse anche l’equilibrio.
«Giovanni! Che ci fai qua?» gridò una voce familiare. Era la voce di un uomo, qualcuno che spesso lo riprendeva.
Si destò dal suo senso di smarrimento, e lo vide davanti. Alto, con due occhi a fessura, le narici che parevano emettere fumo nero e la bocca che rilasciava fiamme rossissime.
Lo afferrò per il colletto, strattonandolo: «Che cazzo ci fai qui, ho detto!». Questa volta il tono di voce era più basso, ma non meno aggressivo e minaccioso.
«È che ho sentito parlare di un cadavere, ho sentito la gente gridare e volevo venire a vedere, papà».
«Bene» pronunciò inferocito Erik. Lasciò il colletto della maglia di Giovanni e lo prese per mano, tirandolo in avanti. Lo portò fuori dalla cerchia di persone e poi gli diede una leggera spinta in avanti: «Benissimo, ora che hai visto com’è fatto un cadavere tornatene a casa, faremo i conti più tardi».
Punizione.
I “conti” vennero fatti rapidamente e la decisione era che nonno Franco avrebbe accompagnato e preso da scuola Giovanni per i due mesi a venire. Cosa c’era di peggio per un bambino che amava la scuola quasi esclusivamente per la libertà che aveva per fare la strada che voleva, con chi voleva, impiegandoci il tempo che voleva?
Non provò nemmeno a ribattere, a giustificarsi, non cercò neanche qualche scusa. Sarebbe stato inutile, avrebbe solo peggiorato la sua già precaria situazione, insomma, niente di niente. Accettò silenziosamente e sommessamente. In fondo se lo era meritato. Era uscito di casa di soppiatto di mattina presto per vedere un cadavere. Si rese conto da solo che era un gesto non tanto immaturo quanto pericoloso.
 
Camminava sul muretto, con le braccia completamente aperte e fischiettando, mentre Franco gli camminava affianco non degnandolo di uno sguardo. Il Sole era finalmente sorto e le nuvole avevano lasciato alla stella qualche spiraglio per filtrare. Gli occhi di Giovanni erano socchiusi, infastiditi dalla luce. Li riapriva solo quando le foglie di un albero gli facevano ombra, assicurandosi che il suo cammino fosse completamente libero da intralci di qualsiasi tipo.
Franco era silenzioso. Neanche lo ammoniva di far attenzione, di scendere e camminare «Come i Cristiani normali», no. Eppure lo faceva sempre. Quel dannato mutismo lo imbarazzava, doveva far qualcosa.
«Sei arrabbiato, nonno?».
«No» rispose l’anziano telegraficamente.
«Possiamo parlare, quindi?».
«Forse».
«Chi è l’assassino?».
Franco indugiò per un momento. Era già la millesima volta, dall’inizio della giornata, che doveva rispondere a quella domanda. Questa volta era diverso, però. Si trattava di un bambino, non di consiglieri politici, non di adulti responsabili. Un bambino. Un bambino curioso, certo, un bambino per certi versi perspicace e forse, proprio questo, amplificava il senso di pericolo nel rispondere erroneamente ad un quesito così delicato.
«L’uomo nero, Giovanni».
«Ah, il Team Rocket!» esclamò il piccolo con gli occhi sgranati e un sorriso di sorpresa.
La testa di Franco si girò rapidamente verso il nipote, osservandolo spaventato. Cosa doveva rispondere se non “l’uomo nero”, autentico elemento terrorizzante nell’infanzia di ogni bambino?
«Non si parla più, Giovanni. Silenzio fino a scuola. E niente “ma”» fece freddamente Franco, tentando di riprendere il controllo della situazione e voltando la testa, cercando di non far capire a Giovanni che aveva proprio indovinato: gli artefici dell’assassinio di Paolo Vertone erano proprio gli uomini in nero, il Team Rocket. A far impensierire l’uomo c’era il classico elemento che caratterizzava l’operato della banda criminale: tutto si basava sulle supposizioni, una totale assenza di prove.
Arrivati al cancello dell’istituto scolastico, i due si salutarono.
«Giovanni, un’ultima cosa prima che tu vada. Non mi ritroverai al cancello, quando esci. Sarò alla piazzetta del chiosco, devo discutere di alcune cose. Ma ti aspetto puntuale, ci siamo intesi? O manderò Pidgeot a cercarti», concluse sempre in maniera distaccata Franco.
 
«Buongiorno!» iniziò la lezione la maestra Rossella Nignoli. Era una donna sulla quarantina, con lunghi capelli neri, un naso a patata, la pelle olivastra, il viso pienotto e una gentilezza e dolcezza che raramente facevano spazio alla collera dettata dai cattivi comportamenti del gruppo classe. Aggiornò il calendario, strappando il foglio del giorno precedente e mostrando la data odierna, “15 aprile 1965”. Poi si posizionò affianco ad un uomo, qualcuno che i bambini non avevano mai visto prima di allora. Vestiva un completo grigio, una camicia bianca e una sobria cravatta blu. Indossava un paio di occhiali dalle lenti particolarmente grandi. I capelli, neri, erano interamente laccati e portati all’indietro. E sul volto, le labbra, formavano una sorta di sorriso che emanava un nauseante senso di superiorità.
«Quest’oggi non faremo la nostra classica lezione perché è venuto a trovarci una persona molto, molto importante».
Le parole della docente non fecero altro che ingigantire l’ego dell’uomo al suo fianco e quel ghigno presente sul volto si tramutò in una vera e propria smorfia compiacente.
«Si tratta di una persona che lavora per il Governo, in particolare per il Ministero della Previdenza Sociale. Si chiama François Saucier e oggi ci insegnerà come funzionano le tasse, gli stipendi e le pensioni!».
«Allora, cari bambini» iniziò l’uomo facendo un passo in avanti, «Oggi fingeremo tutti di essere delle persone adulte. Per prima cosa dovete dirmi che lavoro vorreste fare da grandi!».
Tutti i bambini alzarono educatamente la mano e uno ad uno presero la parola per parlare: il primo voleva fare l’allenatore di pokémon, il secondo voleva fare l’allenatore di pokémon, il terzo voleva fare l’allenatore di pokémon e anche il quarto voleva fare l’allenatore di pokémon.
François si rese così conto che alla Scuola per Allenatori, tutti volevano fare gli allenatori di pokémon, altrimenti non avevano ragione di trovarsi lì. Allora interruppe il gioco e specificò che l’allenatore di pokémon era un lavoro tanto bello, impegnativo e gratificante, ma che avrebbero dovuto forse scegliere uno dei mestieri che svolgevano i loro genitori. E allora c’era chi faceva l’operaio, c’era chi insegnava, chi faceva il pompiere, chi il poliziotto, chi il cuoco in un bar, chi il bar lo gestiva, chi il mercante.
«Tu come ti chiami?» chiese François al bambino nell’angolo in fondo a destra.
«Giovanni Silviosi».
«E che lavoro farai?»
«Il militare per gli Stati Uniti».
François sorrise: «Questo è un po’ complicato. La mamma che lavoro fa?».
«La casalinga».
«Umh, bene, bene, molto bene. Ma purtroppo, ai fini del nostro gioco non potrai fare il… casalingo. Quindi, decidi un lavoro a piacere!»
«Il Campione della Lega Pokémon!» pronunciò Giovanni sicuro di sé!
L’uomo strabuzzò gli occhi, voltandosi verso la maestra, che scosse la testa sconsolata: «Giovanni, non è un mestiere quello, è un titolo... una carica».
«Oh» fece lui deluso. Si mise a pensare a qualche lavoro che conosceva e che avrebbe voluto fare, quindi. Ripensò ad una conversazione avuta con suo padre, prima di addormentarsi.
«Non so se sia veramente un lavoro… altrimenti mi arrendo, eh! Ma mi piacerebbe fare il… Capo di Kanto».
«Il Presidente del Consiglio?» chiese ancora più sorpreso l’uomo del Ministero.
«Sì, quello che gestisce le tasse, che fa le leggi, che comanda tutti».
«Beh, signora Nignoli, lei ha un alunno sicuramente molto ambizioso» rispose sorridente François. Il gioco proseguì in questa maniera: a ogni bambino che aveva un lavoro nel settore privato, aveva guadagnato 4 banconote: «Questo è il vostro stipendio». E giusto il tempo di finire la frase, che i bambini che interpretavano i lavoratori del settore pubblico, cominciarono a tartassare il dipendente governativo di «Ed io?».
«Calma, calma, fate silenzio, non ho ancora finito! Come potete vedere, metà dei vostri compagni non ha ricevuto il salario. Questo perché sono i cosiddetti “dipendenti pubblici”, ovvero alle dipendenze dello Stato. Come può allora un dipendente statale ricevere la propria paga? Mediante le tasse che lo Stato applica sul vostro guadagno».
Passò allora tra i banchi dei piccoli e tolse a tutti loro due banconote, dandole a chi non ne aveva, Giovanni incluso. Cominciò quindi a spiegare la bontà delle tasse e la loro importanza nel sistema, su quanto fosse bello e fondamentale pagarle e su come l’evasione andasse combattuta e anche denunciata.
L’intervento dell’uomo era all’interno di una serie di iniziative governative per poter insegnare l’onestà fiscale ai bambini e tentare, così, di ridurre l’enorme quantità di illeciti di quel tipo che erano molto presenti nella Repubblica di Kanto. La classe lo ascoltava, erano tutti affascinati, tutti incantati da questo incredibile potere del bene che stava nelle loro mani. Pagando le tasse avevano aiutato qualcuno a comprare il pane per placare la fame, l’acqua per colmare la sete, i giochi per allontanare la noia. Si poteva render qualcuno felice pur rimanendo felici. Ma Giovanni no. Giovanni sapeva che le tasse venivano chieste anche a chi, quelle quattro banconote non le aveva, a chi non era felice, a chi non poteva comprare il pane per placare la fame, l’acqua per colmare la sete, i giochi per allontanare la noia. Giovanni sapeva che se il Team Rocket proliferava e viveva, se il Team Rocket uccideva i Paolo Vertone, infilzandoli nelle statue, era perché le persone non avevano più soldi da dare allo Stato. Voleva davvero fidarsi di quell’uomo, alla luce di quanto visto?
Il suo sguardo si spostò dapprima sulle banconote che aveva sul banco. Poi, di nuovo, su François, che continuava a parlare, con il suo fare spavaldo e gesticolando in quella maniera così particolare, ponendo la mano destra come se fosse la mano di un vigile che fa cenno, ad un pedone, di attraversare la strada.
Voleva davvero credere alle parole così belle, quando la realtà assumeva la forma di un cadavere con gli occhi aperti, le braccia bluastre e il sangue che colava lento?
No, non ci avrebbe creduto.
Di soppiatto, nascose una delle banconote, infilandola nel proprio zainetto.
«Lo Stato però non si preoccupa solo dei dipendenti del settore pubblico, ma anche del futuro di tutti i lavoratori. I vostri nonni che lavoro fanno?» tornò a domandare Saucier.
In coro, tutti i bambini, pronunciarono: «I pensionati».
«Il mio no» disse Giovanni.
«E che lavoro fa tuo nonno, Presidente?» disse divertito l’uomo.
«È il vice-sindaco di Smeraldopoli» rispose candidamente.
«Presidente, tu sfuggi ai giochi della probabilità. Beh, facciamo che anche tu diventerai anziano e perderai le elezioni, non venendo più eletto neanche in Parlamento». Giovanni sollevò le sopracciglia e lo guardò perplesso, decidendo di non ribattere.
«La pensione la si forma prelevando una quota di stipendio dalla busta paga. La si inserisce in questa grossa scatola e quando sarete degli anzianotti, andrete alla scatola dove ci sarà un signore che vi dirà “Ecco, questa è la tua pensione”».
Ed ecco che François passò ancora tra i banchi, ritirando una sola banconota questa volta. Arrivò al banco di Giovanni e prese in mano l’unica banconota presente.
«Però ora io non ho più soldi» fece notare Giovanni, con un tono di voce leggermente malinconico. La frase fece partire le risate della classe.
«Ma no, è impossibile! Le banconote erano contate apposta per ventiquattro bambini!» esclamò sorpreso. Il sorriso da uomo sicuro di sé, sparì all’improvviso. E incominciò a fare i calcoli, contando una ad una le banconote che aveva in mano e poi quelle presenti sui banchi. Ne mancava una.
E allora via a cercare sotto i tavoli, a cercare per terra e quella maledetta banconota non si trovava! Le risate dei bambini diventavano via via sempre più forti, sguaiate e provocatorie nei confronti di quell’uomo che ora non era poi così tanto entusiasta di se stesso. Sapeva di aver fatto una pessima figura e lo sguardo severo di Rossella non faceva altro che farlo sentire un fallimento, lei che cominciava a pensare di aver perso importanti ore di lezione per prestarsi a quella buffonata.
«Questo è ciò che accade quando esiste la cosiddetta “evasione tributaria”, ovvero si nascondono dei soldi che andrebbero consegnati alla scatola. Il primo che andrà in pensione avrà sicuramente il suo gruzzolo mensile, ma chi, invece, andrà in pensione per ultimo, si ritroverà con un pugno di mosche» disse con un sorriso tirato ed in evidente imbarazzo il dipendente ministeriale. Il sistema aveva fallito, anche in un’aula da scuola elementare.
La campanella suonò, segnando l’iniziò dell’intervallo. I bambini corsero nel grande salone fuori dall’aula, mentre un sempre impacciato Saucier si scusava con l’insegnante per l’accaduto.
Giovanni uscì per ultimo, avvicinandosi alla cattedra e facendo strisciare sul tavolo, in direzione dell’uomo, la banconota scomparsa.
«L’ho ritrovata, eccola qui».
«Oh, ecco, finalmente. Così anche tu avrai la tua pensione» rispose, inserendola nel blocchetto, con le altre banconote.
«Ah, ma non ce n’è bisogno. Tanto io verrò rieletto, anche da vecchio» e corse fuori, salutando con un frettoloso «Ciao!».
 
La scuola di Riccardo Silviosi era situata affianco all’istituto di Giovanni. I due frequentavano scuole differenti, dettate dalla ragione che solo Giovanni era stato ammesso alla Scuola per Allenatori. I due edifici erano, però, amministrati dalla stessa presidenza.
Al suono della campana nel pomeriggio, Giovanni uscì rapidamente, imboccando la strada che conduceva al cancello della scuola di Riccardo. Era il modo più veloce per arrivare alla piazzetta del chiosco, dove suo nonno Franco lo aspettava.
«Silviosi, sei un bimbo bastardo, lo sai?». Lo sguardo di Giovanni si voltò all’indietro, cercando chi lo stesse insultando, ma non vide nessuno.
Poi ancora qualcuno pronunciò il suo cognome: «Silviosi, prendi questo» e immediatamente, fece eco la voce di qualcuno che gridava dal dolore. Una voce familiare: quella di Riccardo.
I suoi occhi si posarono qualche metro più avanti, dove era presente un gruppo di ragazzini, che formavano un cerchio al cui centro c’era qualcuno.
«Silviosi, sei un bambino senza mamma e papà».
Un calcio e Riccardo cadde a terra, con la testa rivolta in direzione del fratello. I capelli ricci, castani, erano schiacciati sulla fronte. Il naso, con la punta rivolta verso l’alto, aveva un rivolo di sangue che scorreva dalla narice sinistra. Gli occhi azzurri, sofferenti, cercavano aiuto nelle persone che stavano camminando ma che si fermavano ad osservare la scena senza muovere un singolo muscolo in suo aiuto. Ma ecco, che tra i vari passanti incrociò lo sguardo del fratello e quegli occhi, ricordarono a Giovanni, le occhiate che aveva ricevuto dal corpo di Paolo Vertone, quella stessa mattina.
Lasciò lo zaino a terra e cominciò a correre con tutta la forza che aveva in corpo. I piedi battevano con incredibile forza sull’asfalto, quasi volesse sfondarlo, si muoveva velocissimo, rapidissimo e per un momento perse anche il contatto con la realtà. Il suo unico obiettivo erano diventati quei bulli. Prese di mira quello era girato di schiena, in quanto più vicino. Gli saltò alle spalle e gli tirò un pugno sulla nuca, staccandosi prima che cadesse all’indietro, come accadde.
«Oh, abbiamo anche il fratellino, Giovanni Silviosi. Anche tu sei un bimbo bastardo oppure sei naturale?».
Giovanni strinse i pugni con rabbia, serrò le labbra con altrettanta foga e poi fece cenno, con il capo, di avvicinarsi al ragazzino che gli aveva appena rivolto la parola.
«Vuoi davvero batterti con tutti noi?» chiese sarcastico, dandosi due manate sul petto in segno di forza.
«L’alternativa è che ve ne andiate» pronunciò impassibile Giovanni.
Lui era Gonzalo Pizzarro, un ragazzino di dieci anni che frequentava la stessa scuola di Riccardo. Capelli corti biondi, occhi azzurri, un naso francese e un volto molto magro, con le guance scavate.
Gonzalo si avvicinò a Giovanni, osservandolo dritto negli occhi. I loro respiri si mischiavano e intrecciavano nell’aria, fino ad arrivare l’uno sulla pelle dell’altro.
Il sangue ribolliva nelle vene di Giovanni, il cuore pulsava forte, e sentiva il suo battito all’interno della testa, come un tamburo taiko.
Gonzalo fece per andarsene, tornando poi alla carica, sferrando un pugno nella pancia di Giovanni, che si piegò in avanti, strabuzzando gli occhi e aprendo la bocca, non riuscendo neanche a gridare per il dolore del colpo ricevuto. Sì, per un istante anche la sua respirazione venne bloccata. Riprese il controllo rapidamente, prendendo il pugno destro del ragazzo e cominciando a ruotarlo ulteriormente verso destra, finché non si inginocchiò, poi gli tirò una ginocchiata sul mento, facendolo cadere a terra stordito.
«Riccardo, riesci ad alzarti?» chiese Giovanni, continuando ad osservare con ira gli avversari. Il fratello rispose con un gemito dolorante, provando a rimettersi in piedi, non senza fatica. Il naso aveva smesso di sanguinare, pur essendo diventato molto rosso e gonfio. «Chi è il prossimo, quindi?» domandò questa volta rivolgendosi agli aggressori.
«Nessuno» pronunciò una voce adulta, severa.
Si voltarono all’indietro, guardando terrorizzati il preside della Scuola, Arturo Scottelli: «Non si piccherà nessun altro fuori dal mio istituto come delle scimmie comuniste qualsiasi.
Tutti a casa, coraggio, e se vi vedo ancora qui attorno, chiamo la polizia. Rompete le righe, imbecilli». Il preside era un uomo di circa cinquant’anni, sempre vestito di tutto punto: giacca e cravatta, occhiali da sole, anche al chiuso. Quasi completamente calvo, tranne per i capelli ai lati della nuca.
Tutti si allontanarono. Giovanni prese il braccio del fratello e se lo mise attorno al collo, cominciando ad avviarsi verso la piazza dove il nonno lo stava aspettando.
«Giovanotto, ricordati il tuo zaino, lì in fondo. E domattina nel mio ufficio con i tuoi genitori». L’uomo si voltò e tornò all’interno del cortile, dirigendosi verso l’edificio a tre piani color verde smeraldo.
 
«Dove vi eravate ca...» ma la sua voce si interruppe di colpo. I suoi occhi indugiavano sui volti dei figli. Erano sporchi, una sostanza rossa scura, tendente al marrone.
Terra?
«Cosa diavolo vi è capitato?» domandò Anna vedendo i figli tornare a casa accompagnati da suo padre. Riccardo era ancora spossato, con tracce di sangue, secco, su vari punti del volto. Anche Giovanni presentava un graffio sotto l’occhio destro, ottenuto quando era saltato via dalle spalle di uno dei bulli.
«Li hanno aggrediti» rispose stanco Franco, entrando nella casa e dirigendosi immediatamente sulla destra, raggiungendo la cucina e sedendosi su una sedia posta attorno al tavolo. Gli altri tre lo seguirono.
«Chi?» fece lei, osservando attentamente e in maniera preoccupata i figli.
«Bulli». Franco si tolse il cappello, posandolo sul tavolo. Si passò la mano tra i capelli, stanco, stravolto per la giornata cominciata male e che stava volgendo anche peggio.
«Perché? Avete dato fastidio a qualcuno?» chiese la donna, rivolgendosi attentamente prima a Riccardo e poi Giovanni.
«No, non hanno dato fastidio a nessuno. Il problema è quello che sapete, che ho sempre detto a te ed Erik e voi non mi avete mai ascoltato, mai. Pulisci i tuoi figli, dagli una sistemata e poi ti racconto, per l’ennesima volta, cosa è successo».
La donna annuì e li spedì a giocare in camera loro.
«Riccardo è un bambino adottato, Anna! A-dot-ta-to! Voi e questo stupido principio irrealizzabile di uguaglianza, avete messo alla gogna vostro figlio! Ma vi rendete conto che è da pazzi mandarlo in una scuola pubblica? Bisognava mandarlo in una privata, bisogna mandarlo, domani stesso!» fece l’uomo adirato.
«Papà! Ma non ce la possiamo permettere la scuola privata!» fece la donna alzandosi, come se non volesse sentire il padre.
«E la mensilità che vi passavano per aver preso in casa Riccardo? Che fine ha fatto?».
«Durava cinque anni, abbiamo smesso di riceverla da un po’...».
«Beh – fece l’uomo riprendendo il discorso con un tono adirato – Giovanni è costantemente messo sotto torchio dai compagni per questo fatto. È un bambino già vivace di suo, l’essere vittima di questi attacchi da bulli non fa altro che... amplificare i suoi comportamenti scorretti.  I quaderni strappati, i furti nella cartella. Ora l’aggressione a Riccardo, dove è stato l’unico essere umano ad intervenire, prendendosi un pugno nello stomaco e un richiamo, da parte del preside che vuole vedere te ed Erik domattina.
Fate studiare da privatista Riccardo o non...».
La porta di casa si aprì con un gran tonfo. Le mura tremarono e anche il pavimento. Anna e Franco sobbalzarono ed entrambi guardarono spaventati verso l’ingresso.
«Anna, Anna dove sei» proruppe Erik.
Anna e Franco corsero immediatamente verso l’ingresso dell’abitazione, osservando l’uomo particolarmente agitato. Era rosso in viso, sudato, respirava a fatica.
«Erik, cosa succede?» chiese la moglie preoccupata, avvicinandosi e ponendogli una mano sulla spalla.
L’uomo la abbracciò forte, chiudendo gli occhi e scoppiando a piangere. Le lacrime, che scorrevano sul suo volto, bagnavano il maglione giallo paglierino di Anna che non capiva cosa stesse accadendo.
«Cosa succede, Erik? Stai calmo, per favore».
L’uomo lasciò la moglie e osservò le due persone presenti nella stanza: «Devo partire».
Franco si mise le mani tra i capelli, chiudendo gli occhi, perché aveva capito esattamente cosa intendesse il genero
«Dove Erik? Dove devi andare?» disse Anna molto preoccupata, con la voce rotta.
«Vietnam. Devo partire per il Vietnam».
   
 
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