Non il 18 giugno.
Lo
scroscio dell’acqua della doccia scorre distante;
è il suono di un’altra
intimità che ho lasciato entrare, è il suono
dello sconosciuto che s’arroga il
diritto di usurparti il posto (dimmi, te ne importerebbe?).
La
melodia di note e d’accordi che tu mi donavi ha ceduto il
passo a ticchettii di
gocce d’acqua – e lacrime
(dimmi, te
ne importerebbe?).
Questa
pagina voglio cominciarla così, col buio della camera da
letto e il bianco
sbiadito di quella pagina che ho strappato dalla tua agenda due giorni
fa.
Chissà se mai t’accorgerai dello strappo tra il 17
e il 19 giugno, di quel
precipizio di ventiquattr’ore che ti ho sottratto –
come se potessi rubarti il tempo, come se
potessi sottrarti il sonno.
Ti ho privato della luce di quel sole che ormai sa già
d’estate, ti ho rubato
un giorno intero (ma so che non lo noterai mai).
Tu ai
dettagli non badi; sei distratto, sei sulle corde del tuo Stradivari e
sugli
spartiti che disponi accuratamente sul leggio, ma tra noi dovevano
esserci
sempre delle lenzuola, perché tu mi sfiorassi davvero.
Sabato:
tu che sbadigli con in mano una tazza di caffè che
d’italiano non ha proprio
nulla, il giornale sotto braccio, il violino in spalla (maledetto,
maledetto violino).
Sabato:
io col naso all’insù, gli occhi agganciati ai
display della stazione di Lyon,
la mente impegnata a tradurre quella tua lingua di cui non ho mai
capito
granché.
Sabato:
tu che prendi il mio stesso treno, il treno che è in ritardo
di due ore (e
chissà mai perché, poi), io che ho il posto
finestrino davanti ai tuoi occhi e
i tuoi occhi azzurri patinati di tristezza.
Sabato:
tu che sorridi del mio francese biascicato, io che sono imbarazzata nel
parlare
con un ragazzo per la prima volta da anni, per la prima volta da sempre.
Quando
ho strappato il 18 giugno dall’agenda in cuoio che lasci
sempre aperta sul
comodino in salotto, non avevo idea che si trattasse di un sabato.
Come
quel sabato di sei mesi fai: tu che mi baci appena scendiamo dal treno
a
Toulouse, io che ero già innamorata di te.
Ma era
pure sabato il giorno che mi hai lasciata (e vorrei dimenticarlo, ma
non posso,
non posso davvero). Due giorni fa era sabato – questo non
puoi averlo già
scordato, o sì? Scordi sempre tutto, dalla lista della spesa
al venirmi a
prendere quando stacco da lavoro, ed è per questo che annoti
frenetico ogni
minimo dettaglio sul tuo prezioso taccuino. Su questo 18 giugno mi
sembra di
leggere la tua calligrafia sgambata che tende sempre un po’ a
destra; lait, oeufs, confiture. Nient'altro
che ologrammi dei ricordi che ho di te.
Adesso,
te ne prego, vivi in bilico tra il 17 e 19 giugno e non chiederti
perché
quest’anno abbia un giorno in meno. Ché il 18
giugno, un sabato, da qualche
parte a Lyon c’incontreremo di nuovo e da qualche pare a
Toulouse tu potrai
uccidermi ancora.
Prima
di lasciarti andare, però, devo chiedertelo (quanto ti
suonerebbe infantile
questa richiesta, se sapessi che la rivolgo a una pagina bianca?):
suonami
ancora. Ché i tuoi occhi tristi sapevano brillare solo
quando imbracciavi il
violino e io quegli occhi tristi voglio saperli illuminati di me.
Quanto è
sciocco un cuore che non sa voltare pagina?
(E no,
oggi non è il 18 giugno. Nella tua vita – e nella
mia, che ne è la conseguenza
– quel giorno non esisterà mai. Concedimi
quest’unico potere: muori, anche se
solo per ventiquattr’ore.)
L’acqua cade
ancora, ma tu non sei riapparso alla mia porta.
Note
Autrice:
Un po’
autobiografica e un po’ meno; forse perché
mettersi totalmente a nudo è sempre
più difficile di quanto c’illudiamo.
Credo
sia inutile specificarlo, ma comunque: le ripetizioni sono volute. Ho
tentato
di ricreare un ritornello, un leit motiv –
i giorni, il 18 giugno, il sabato – quasi come se si
trattasse di una melodia.
Di quelle che ti entrano in testa e non ne escono più.
Ayumu