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Autore: Hotaru_Tomoe    13/02/2016    2 recensioni
Sebastian Moran, deciso a vendicare la morte di Moriarty, entra in possesso di un dispositivo sperimentale che permette di entrare nei sogni altrui ed è deciso ad usarlo su Sherlock per distruggerlo, ma Arthur ed Eames cercheranno di impedirglielo.
[Crossover con il film Inception]
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro, personaggio, John, Watson, Mary, Morstan, Sebastian, Moran, Sebastian, Moran, Sherlock, Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 2


Il Maggiore Sholto stava spupazzando la piccola Edith fin da quando la cerimonia del battesimo si era conclusa e sommergeva Mary di domande riguardo alla piccola: quanto cresceva alla settimana, se balbettava già qualche parola o se stava mettendo i denti, quali erano le sue pappe preferite. Stava prendendo molto sul serio il ruolo di padrino che gli era stato affidato dai genitori della bambina, e John non poteva che essere felice di averlo convinto nuovamente a uscire di casa e distrarsi dai suoi pensieri, anche solo per un giorno, e magari l’avrebbe fatto con più frequenza in futuro.
La giornata era incerta, quasi fredda, ma per fortuna il tempo sembrava voler reggere ancora senza pioggia. Una fortuna, dal momento che avevano optato per un rinfresco all’aperto nel parco di una villa.
John non aveva più visto Sherlock dalla fine della cerimonia in chiesa e, mentre sua moglie ed il Maggiore continuavano a chiacchierare tranquilli e gli ospiti mangiavano stuzzichini, ne approfittò per andare a cercarlo. Salutò distrattamente diverse persone che lo fermarono per fargli i complimenti per la bambina e per la festa, e percorse il giardino in lungo e in largo fino a trovare il detective defilato dietro una grande quercia, con la schiena appoggiata al tronco, incurante del fatto che potesse rovinargli la giacca elegante, intento a scrivere un messaggio sul cellulare.
“Archie ti sta cercando, si sta annoiando da morire” gli disse John, ma Sherlock si limitò ad alzare le spalle.
“Ora non ho tempo e nessuno dei due è vestito in modo adatto per tirare calci a un pallone. Inoltre io non so giocare a calcio.”
“Come fai a sapere cosa vuol fare?”
“C’è un pallone in macchina: i suoi genitori sono stati costretti a portarlo, promettendogli che avrebbe potuto giocare, se si fosse comportato bene durante la cerimonia. Cosa che ha fatto fin troppo, considerato quanto è stata lunga” concluse con un sospiro irritato.
John annuì in silenzio: non si vergognava ad ammettere che anche lui si era distratto varie volte durante l’omelia del prete, ritrovandosi a pensare che esagerare con le parole era dannoso, perché le stesse finivano per perdere di significato, diventando una indistinta litania che nessuno ascoltava. O forse la vicinanza con Sherlock aveva affinato il suo spirito critico: prima di conoscerlo, in particolare quando era sotto le armi, lui era quello che seguiva con più attenzione i discorsi delle autorità durante le cerimonie.
“Davvero non sai giocare a calcio?”
“Non mi è mai interessato. La cosa ti stupisce?”
“No davvero.”
Sherlock si allentò la cravatta con un gesto pieno di fastidio e John pensò che avrebbe finito per odiarlo, se avesse continuato a costringerlo a indossarle. Avrebbe dovuto essere solo un’osservazione scherzosa, ma in qualche modo il pensiero che Sherlock potesse odiarlo lo mise a disagio.
“Ehi, vuoi qualcosa dal buffet? Non hai mangiato nulla.”
“Sto seguendo un caso con Dimmock al momento.”
“È interessante?”
Sherlock si strinse nelle spalle: “Un cinque, ma meglio di niente.”
“Va bene, se ti serve aiuto sai dove trovarmi” disse John, ma immediatamente aggrottò la fronte davanti a quella frase fatta che gli era uscita di bocca, così formale e vuota, come le promesse scambiate al telefono con un parente lontano il giorno di Natale: teniamoci in contatto, organizziamo per vederci una sera, se passi da queste parti vieni a trovarmi, ci sentiamo, a presto.
Realizzò, mentre spostava a disagio il peso del corpo da un piede all’altro, che lui e Sherlock non trascorrevano un’intera giornata insieme da quando era nata la bambina: lui impegnato tra i turni in ambulatorio e l’aiutare la moglie, Sherlock preso dalla conclusione del caso del finto Moriarty,e per nulla interessato a storie di pappe e cambi di pannolini (e in fondo, perché mai avrebbe dovuto esserlo? Non era lui quello che aveva avuto un figlio).
Forse Sherlock intuì parte dei suoi pensieri, perché rispose con un sorriso tirato e non del tutto sincero, ma lasciò cadere l'argomento.
In quell’istante la promessa fatta da John sulla panchina del parco, che tra di loro nulla sarebbe cambiato, sembrava più falsa che mai.
E lontana, così lontana da appartenere a un’altra vita.
Una strana malinconia si impadronì di lui, e per quanti sforzi facesse per ricordarsi che quello era un giorno di festa, ogni pensiero lo incupiva sempre più; John finì il drink che reggeva in mano e, dopo qualche altro istante di silenzio pesante, chiese: “Perché non hai voluto fare da padrino a Edith?”
“Mi sembrava di monopolizzare eccessivamente le cerimonie della tua famiglia.”
Anche Sherlock voleva solo fare una battuta, ma le sue parole risultarono dolorose come uno schiaffo in pieno volto per John.
La tua famiglia.
Sherlock non si considerava parte della famiglia, nonostante le rassicurazioni sue e di Mary.
Formalmente non lo era, non erano parenti accomunati da legami di sangue, vero, ma con tutto ciò che Sherlock aveva fatto per lui, avrebbe avuto il diritto di considerarsene parte molto più di altre persone. Più di sua sorella, ad esempio, la quale ancora una volta non aveva risposto al suo invito. C’erano momenti, come quello, in cui John desiderava sentirlo molto più vicino di quanto la sua vita non gli permettesse ora, magari come quando vivevano insieme.
“Dico sul serio, Sherlock” insisté, deciso ad approfittare di quel breve lasso di tempo di tranquillità per capire le ragioni del rifiuto del suo amico, temendo che fosse solo il preludio di un allontanamento ulteriore tra loro due, ora che le loro vite apparivano così diverse, prospettiva che gli creava uno spiacevole nodo alla bocca dello stomaco.
Ancora una volta l’altro scrollò le spalle, quasi a voler dargli intendere che la questione non aveva poi una così grande importanza, quando invece agli occhi di John ne aveva moltissima.
“Quando me l’hai chiesto non sapevo nemmeno cosa dovesse fare un padrino, così mi sono documentato e ho letto da qualche parte che il suo ruolo è quello di aiutare i genitori a crescere ed educare il bambino sulla base di saldi principi religiosi e morali, e io nemmeno credo in Dio. In pratica dovrebbe essere una figura di alta levatura morale che gli sia di esempio costante nella vita: ritieni davvero che io possa ricoprire questo ruolo?”
Sherlock scherzò ancora, ma per lo meno questa volta riuscì a strappare a John una breve risata: in effetti la figura appena tratteggiata era l’opposto di Sherlock.
“No, il Maggiore Sholto è stata la scelta migliore che potevate fare - proseguì il detective - E poi non è detto che io viva abbastanza da fare da padrino a tua figlia: il vento dell’est non mi ha preso questa volta, ma non ha mai smesso di soffiare” concluse con voce pacata, come se tutto quello riguardasse qualcun altro.
A quelle parole, il cuore di John si riempì di tristezza: Sherlock era stato piuttosto vago al riguardo, ma a quanto pareva la pena per aver ucciso Magnussen era quella di dover restare a disposizione di Mycroft e delle sue missioni, ogni volta che ce ne fosse stato il bisogno.
Almeno finché qualcosa non fosse andato terribilmente storto.
John non avrebbe mai trovato le parole per ringraziarlo per quello che aveva fatto per lui: se Magnussen fosse stato ancora vivo, la sua vita ora sarebbe in pezzi, la sua famiglia sgretolata e Mary come minimo in galera a vita, eppure, quando pensava al prezzo che Sherlock era stato costretto a pagare, desiderava che non l’avesse fatto.
Non aveva mai dato voce a quel pensiero, temendo di risultare solo un ingrato, ma sentendo parlare Sherlock della sua possibile morte con tanta noncuranza, avvertì dentro di sé un moto di ribellione.
“Non dire così” sibilò con voce tesa.
“Scusami.”
“Al mio matrimonio hai promesso che ci saresti stato sempre, e questa promessa la devi mantenere.”
Non erano le parole giuste, suonavano solo come l’ennesima richiesta capricciosa di un bambino viziato, ma nemmeno John sapeva esattamente cosa voleva dire a Sherlock in quel momento.
“Lo farò - rispose Sherlock, con gli occhi fissi su un’ape che si aggirava attorno a una piccola aiuola d’erica, ma poi aggiunse sottovoce - ma capisci anche tu che non dipende solo dalla mia volontà.”
John aprì la bocca per protestare e ribattere con cipiglio infantile che no, quella promessa non era autorizzato a infrangerla in nessun caso, ma venne interrotto.
“Ecco dove eravate spartiti voi due! Venite, ci sono da fare le fotografie.”
Mary li raggiunse e prese John sottobraccio. Non avendo sentito la moglie avvicinarsi e strappato bruscamente alla sue riflessioni, l’ex soldato si irrigidì, provando per un istante l’impulso di sottrarsi alla stretta; si rilassò quasi immediatamente e rispose alla moglie con un accenno di sorriso, ma Mary gli rivolse comunque uno sguardo inquisitore, che lui decise di ignorare.
Sherlock li seguì, l’aria ancora molto distratta, si concesse per qualche foto, tra cui una con la bambina in braccio, ma quando il cellulare vibrò nella tasca della giacca e Dimmock gli comunicò le informazioni che gli servivano, si defilò di nuovo dalla piccola folla che si assiepava attorno ai genitori e alla piccola.
Come era accaduto durante il matrimonio di John, Sherlock prelevò il cappotto dal guardaroba, lo indossò e scivolò via silenziosamente dal giardino: ormai lui era fuori posto in quel quadro, non riusciva a trovare un angolo per lui nemmeno sforzandosi, non c’era più molto per lui lì. Non per la prima volta, Sherlock si ritrovò a pensare che forse sarebbe stato meglio se fosse partito per la Serbia, almeno sarebbe uscito di scena con un gran bel botto finale.
Mycroft aveva ragione: non avrebbe dovuto farsi coinvolgere.
Se solo avesse saputo come fare.

Odiava quella zona di Londra: trovare un taxi era difficile persino per lui. Dopo dieci minuti di vana attesa sul marciapiede, sospirò irritato e si risolse a scendere in metropolitana. Delle cinque macchinette automatiche per i biglietti, due erano fuori uso e davanti alle altre si erano formate lunghe code, mentre tutto attorno la folla di gente cresceva di minuto in minuto, in concomitanza con la chiusura di molti uffici. Venne urtato un paio di volte da persone frettolose e si ricordò una volta di più perché detestava usare i mezzi pubblici; la sua coda avanzava con esasperante lentezza, così ne approfittò per mandare un altro messaggio a Dimmock, chiedendogli ulteriori dettagli sul caso.
A un certo punto provò una stranissima sensazione, come se qualcuno lo stesse osservando intensamente e molto da vicino alle sue spalle. Tutti i sensi all'erta, si voltò di scatto, deducendo velocemente le persone dietro di lui e nella fila a fianco della sua: due impiegati di banca, un architetto e un commercialista, tutti di Londra e alla fine della giornata di lavoro, una coppia di pensionati delle Isole Shetland in vacanza, una badante bulgara che stava per iniziare il turno di lavoro in una casa di riposo e due manager giapponesi (no, coreani), più una ventina di persone che si stavano allontanando a passo spedito in direzione dei tornelli dandogli le spalle, ma nessuno gli sembrò sospetto o pericoloso, né lo stava guardando o badando a lui in alcun modo.
Per un attimo rifletté se chiamare il fratello maggiore per fargli controllare le videocamere della stazione, ma poi la coda davanti a lui si mosse e Sherlock si scrollò di dosso l'accaduto dando la colpa al suo personale nervosismo che lo affliggeva fin dal mattino: dopotutto la sua era stata solo una sensazione, non era accaduto nulla, non c’era ragione per diventare paranoici.

Questa volta John si accorse subito dell’assenza di Sherlock: dopo aver perlustrato velocemente il giardino, sul quale ormai si allungavano le ombre lunghe del tardo pomeriggio, andò dritto al guardaroba, da dove mancava il lungo cappotto color antracite e la guardarobiera gli confermò che “quel bel ragazzo alto” se ne era andato da un quarto d’ora circa.
Allontanandosi dal rumore della musica che proveniva dalla sala da ballo, uscì nuovamente all’aperto, prese il cellulare dalla tasca e se lo rigirò tra le mani: il primo istinto fu quello di chiamarlo e farlo tornare indietro, perché la festa non era finita; sapeva che se avesse insistito, Sherlock l'avrebbe fatto (per lui avrebbe fatto qualunque cosa), ma se era andato via, di certo aveva avuto un buon motivo per farlo.
Probabilmente c’era stata una svolta nel caso che stava seguendo, o forse era stato mosso dalle stesse ragioni che lo avevano spinto ad abbandonare la sua cerimonia di nozze prima del tempo, ragioni su cui John non aveva mai voluto interrogarsi troppo a lungo.
"Non fare mai domande di cui non sei in grado di sopportare le risposte."
Era una massima di nonno Watson che l’anziano uomo ripeteva assai spesso e che da bambino, curioso com’era, l’aveva lasciato perplesso; solo ora John comprendeva pienamente la portata di quelle parole: da molto tempo, forse fin dal suo ritorno a Londra, tra lui e Sherlock erano rimaste molte domande in sospeso.
Solo per un momento, sulla pista del piccolo aeroporto privato, erano stati sul punto di formularle e darsi una risposta, ma qualcosa aveva frenato entrambi, e probabilmente non ne avrebbero parlato mai più: non era più quel tempo.
Forse Sherlock aveva ragione, il gioco non era finito, ma a John non piaceva affatto la piega che aveva preso quel gioco, dal quale si sentiva sempre più escluso.
Mise via il cellulare e restò ad osservarsi la punta delle scarpe, perso in quei pensieri.
Mary osservava il marito fermo in mezzo al giardino da lunghi minuti e strinse forte il manico della borsetta, poi indossò il suo miglior sorriso garbato e si mosse per andare a prenderlo, quando il maggiore Sholto la raggiunse con Edith in braccio: la neonata scalciava e piangeva a pieni polmoni e il militare la riconsegnò alla madre.
"Qualcuno qui ha molta fame."
"Ah, grazie Maggiore, ci penso io."
Sholto seguì lo sguardo della donna fino a John e sorrise.
"Al matrimonio non ho avuto occasione di dirlo, ma lei è una donna molto fortunata: di tutti i soldati che ho conosciuto, nessuno ha mai avuto lo spirito di sacrificio di John, o è mai stato ligio al dovere come lui."
"Oh?" domandò la donna, aggrottando la fronte davanti alla scelta di parole del Maggiore per lodare il marito, peculiari anche per un militare, perché era vero che per i soldati lo spirito di sacrificio era importante, ma non erano parole che lei avrebbe scelto in quella circostanza. "John è sempre pronto a sacrificarsi e anteporre le necessità degli altri alle proprie, non farà mancare mai nulla né a lei, né alla figlia; se c’è qualcuno che non mancherà mai ai propri doveri e in grado di darvi una vita serena, questo è lui."
"Doveri... - mormorò Mary, il cui sorriso vacillò per un istante - Perché non va a chiedergli se gli va di sacrificarsi un altro po' a intrattenere gli ospiti mentre io do da mangiare a questo piccolo pozzo senza fondo?"
"Ma certo."

"Bella cerimonia" disse Mary mentre metteva a letto la bambina, che già era crollata dal sonno.
John, che si stava sciacquando le mani in bagno, rispose con verso affermativo. Era stato taciturno e distratto fin da quando Sherlock aveva abbandonato la cerimonia, ma Mary decise di soprassedere: sapeva bene che quando era così pensieroso bastava veramente un nonnulla, anche solo una parola male interpretata, per farlo infuriare, e lei quel giorno era troppo stanca per litigare, specie dopo aver ascoltato le parole del Maggiore Sholto, che le si erano attaccate addosso come una ragnatela appiccicosa e su cui continuava a rimuginare.
John l’aveva perdonata, erano tornati insieme e le cose sembravano funzionare, ma ora il germe del sospetto che John restasse lì principalmente per senso di responsabilità verso la loro famiglia aveva piantato radici dentro di lei. Non era certo quello che voleva dal suo matrimonio, ma capiva benissimo che non era nella posizione per pretendere alcunché, perciò tacque.
Andò in cucina, accese il bollitore ed aprì l'armadietto per recuperare la scatola di latta del tè.
Vuota.
"Maledizione!" sbottò irritata.
"Che succede?"
"È finito il tè."
"Oh - John ponderò se sopravvivere senza per quella sera e rimandare l'acquisto all'indomani, ma l'idea non gli sorrideva affatto - Vado a comprarlo."
"Mi dispiace, ti sei appena spogliato."
"Non fa nulla - rispose, indossando velocemente jeans e maglione - vado e torno in un attimo."

L'ora di chiusura del supermercato era prossima e normalmente John era molto veloce in quei casi: sapeva bene che le cassiere non aspettavano altro che poter andare a casa dopo una giornata di lavoro, perciò prendeva velocemente quello che gli serviva e non perdeva tempo.
Tuttavia, giunto davanti allo scaffale del tè, questa volta prese due latte e le soppesò con l'aria pensierosa e le labbra strette tra i denti: nella destra reggeva un Lady Grey, quello che lui e Mary bevevano abitualmente, nella sinistra un raffinato Darjeeling, il preferito di Sherlock, che beveva sempre anche lui quando era a Baker Street.
A dire il vero gli piaceva molto di più del Lady Grey, che era leggermente troppo agrumato per i suoi gusti, ma erano mesi che non comprava più del Darjeeling e non sapeva nemmeno lui il motivo; d’accordo, era più caro e adesso stava più attento alle spese, ma non così tanto da non poterselo permettere.
Forse, rifletté, il suo era un goffo tentativo inconscio di scordarsi il passato e adattarsi al suo nuovo ruolo che prevedeva una vita più tranquilla e meno avventure al fianco del suo migliore amico lontano da Baker Street, perché anche il sapore del tè di Sherlock sul palato sarebbe riuscito ad evocare ricordi che lo avrebbero reso melanconico o di cattivo umore, a seconda del momento.
E di certo John non voleva passare la vita ad amareggiarsi per scelte che aveva compiuto di sua volontà.
Si riscosse da quelle inutili elucubrazioni e con la coda dell’occhio notò un uomo fermo giusto dietro di lui, che probabilmente voleva prendere qualcosa dagli scaffali, ma era troppo educato per chiedergli di spostarsi. John si rese conto di essere fermo lì da fin troppo tempo, mormorò un veloce "mi scusi" senza nemmeno guardarlo e andò in cassa con la sua latta di Lady Grey, che appoggiò di botto sul nastro trasportatore.

Freddie mandò un messaggio al Colonnello Moran non appena uscito dal supermercato.
“Missione compiuta.”
“Problemi?”
“Né con uno, né con l’altro.”
“Molto bene, torna subito qui.”
Qui era un piccolo appartamento preso in affitto a nome del cugino da parte di madre di Freddie a Shepherd’s Bush, un tranquillo quartiere residenziale di Londra. Moran lo attendeva impaziente sulla soglia, prese lo scanner di onde cerebrali dalle sue mani e lo collegò al dispositivo wireless di Edward, che iniziò ad elaborare i dati.
“Colonnello, è sicuro di volerlo usare su due sognatori contemporaneamente? Questa attrezzatura sperimentale è pericolosa.”
“Non se tu farai il tuo dovere con il monitor e il farmaco” tagliò corto l’altro.
“Dovremmo coinvolgere qualcun altro - insisté Freddie - Alan e Seth la aiuterebbero senza esitare, né fare alcuna domanda.”
“No - il Colonnello scosse la testa, categorico - Jim diceva sempre che delle questioni importanti è meglio occuparsene personalmente, e questa è una questione della massima importanza.”
Freddie evitò di ricordare al suo ex superiore che fine avessero fatto Moriarty e le sue convinzioni, e tornò a controllare gli elettrodi del monitor.
“Colonnello, con tutto il rispetto ancora non capisco perché non ci limitiamo ad ammazzare Holmes e Watson e la facciamo finita una volta per tutte, come abbiamo sempre fatto in questi casi. Inoltre per la sua salute sarebbe decisamente più sicuro.”
“Oh, indubbiamente sarebbe più semplice, ma se li uccidessimo solleveremmo un vespaio e ci ritroveremmo addosso una muta di cani furiosi e assetati di vendetta.”
“Si riferisce a quell’ispettore di Scotland Yard e a Mycroft Holmes?”
“Non solo loro: Watson adesso è sposato con una biondina che non vorresti avere come nemica.”
Freddie strizzò gli occhi ne tentativo di ricordarne il nome: “A.G.R.A., giusto?”
“Esattamente, anche se adesso non si fa chiamare così.”
L’altro si strinse nelle spalle: “È solo una donna.”
“Addestrata da me.”
“Oh… capisco.”
“Se invece Holmes e Watson cadono in coma per motivi misteriosi senza che noi li si debba avvicinare fisicamente, tutti si spaccheranno il cervello per capire cosa possa essere accaduto loro, faranno ogni sforzo possibile per guarirli, convocando i maggiori luminari del globo, ma non arriveranno mai a capire cosa sia successo per davvero, né a fare un collegamento con noi. E col fratello in quelle condizioni, non c’è dubbio che anche un pezzo di ghiaccio come Mycroft Holmes venga distratto dai suoi compiti, concentrando le sue energie sul curare Sherlock, e noi potremo approfittarne. Si prospetta una nuova epoca di prosperità per il crimine londinese, esattamente come quando c’era Jim - concluse Sebastian con una nota di rimpianto nella voce - Perciò sì, questo metodo non è privo di rischi e ci vorrà più tempo per raggiungere l’obiettivo, ma offre degli indubbi vantaggi. Jim approverebbe questo piano.”
“Come vuole lei, Colonello. Le chiedo soltanto di non esagerare.”
La luce sul dispositivo wireless divenne verde e Moran lo indossò.
“Cominciamo: per Holmes e Watson è tempo di sognare.”

   
 
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