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Autore: Frigidaire    13/02/2016    0 recensioni
Su una delle più grandi navi pirata della fratellanza della costa, la Dama d'avorio, naviga un uomo ai margini del mondo civilizzato: Vuba, un selvaggio nero delle terre dei cannibali del Sud. Tra i pirati della dama Vuba sarà il primo a venire a contatto con i segreti di cui sono guardiani gli Antichi Esiliati, divinità del mare dimenticate dall'uomo civilizzato. Sarà soltanto l'indole selvaggia di Vuba a proteggerlo dall'impazzire a contatto con queste antiche verità, rendendolo prezioso per l'esistenza stessa della fratellanza della costa e del mondo pirata. Una storia ambientata in un mondo fantasy piratesco con antichi misteri di ispirazione lovecraftiana.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: Non-con, Violenza
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Nella cabina del capitano Ainùr le mani faticavano a tenere il tempo mentre scivolavano lente e garbate sui tasti del pianoforte. Quelle stesse mani, così abituate sia a premere il grilletto del fucile in faccia al nemico sia a suonare le arie più popolari tra i fratelli della costa, resistevano faticosamente alla tentazione di accelerare il tempo della ballata, distratte com'erano dai passi frenetici dei marinai sul castello di poppa. Un tamburellare continuo sulla testa del capitano, frenetico, ossessionato dalla necessità di fare in modo che tutto fosse il più in ordine possibile per l'attracco sulle coste dell'Isola delle Lucertole, come la chiamavano i selvaggi negri di quelle terre. Con grande sforzo Aniùr imbrigliava il tempo di quelle note, consapevole, come lo è ogni capitano di un vascello pirata ogni volta che vede sorgere il sole, che quella poteva essere la sua ultima alba e, quindi, la sua ultima sonata.

Il suo uomo di fatica stava alle sue spalle, il grosso petto nero e nudo reggeva le enormi braccia incrociate appena sotto il viso dallo sguardo fosco. Le grandi labbra da negro imbronciate in una appena accennata smorfia, il largo naso rotto in più punti e le folte ciglia nere corrucciate erano i lineamenti che predominavano su quel cranio rasato, lucido. La pelle, incapace di bruciarsi al sole di quei mari, era decorata da cicatrici continue che partivano sul torso delle mani e percorrevano tutte le enormi braccia per poi ricongiungersi in un bizzarro disegno a forma di volto sul petto: cicatrici fatte dalle mani esperte delle vecchie anziane della sua tribù, non troppo distante da quelle acque. Incapace di comprendere quella musica fatta di note senza ritmo, un'inutile cascata di miele rancido per le sue orecchie di selvaggio, ascoltava in silenzio gli sforzi del suo capitano.

«Ah, Vuba. Se soltanto tu fossi in grado di dirmi, con la tua saggezza da selvaggio, qual è il destino di queste povere creature che amano chiamarsi “uomini”… E non intendo soltanto gli uomini bianchi o, tra loro, coloro che odiosamente son chiamati pirati, che amorevolmente si definiscono fratelli della costa: no, io intendo l'uomo tutto, bianco o negro che sia, maschio o femmina, ricco o povero. Noi, uomini tutti, dimenticati dalle divinità attuali e da quelle antiche: qual è la nostra meta?

«Viviamo invidiando gli uccelli che volano alti in cielo perché possono sorvolare le nubi e gli squali che possono esplorare i più oscuri abissi eppure la maggior parte di noi teme di varcare l'uscio della propria misera abitazione. Rintanati, in attesa della morte, consumiamo i nostri respiri bramando un pasto caldo e le labbra bagnate della nostra donna sul nostro corpo.

«Oppure solchiamo i mari. Come me, come te, trasciniamo i nostri stanchi corpi malati e corrosi in acque sempre nuove sempre facendo le stesse odiose cose. Ci ricopriamo d'oro che regaliamo a puttane, torturiamo chi ci si oppone e siamo torturati dalle persone per bene, oggi stupriamo una negra indifesa e domani una ricca donna ci acquista come schiavi per vederci combattere tra noi fino alla morte. Ma qual è il fine di tutto ciò? Se soltanto il mare potesse parlare e dirci la verità: il fine non è alcuno. Non c'è motivo per cui vi affanniate, non c'è motivo per cui corriate sui castelli di poppa e di prua, saliate arriva e come povere formiche vi affatichiate intorno alla nave.

«Del resto, Vuba, cos'altro potremmo fare? Ma tu cosa ne sai, povero negro, di tutto questo?»

Il gigante nero finì di ascoltare il lungo discorso del suo capitano che, nel frattempo, aveva anche fatto tacere le mani. Lanciò un profondo respiro, sereno che l'ascolto fosse giunto al termine, poi, inarcando in maniera impercettibile un sopracciglio: «Capitano Ainùr, la Dama d'avorio ha smesso di rollare. Ciò significa che è ora di sbarcare e io penso che sia l'uomo bianco che quello negro si stiano attardando a pensare qual è il fine di ciò che fanno mentre non stanno facendo nulla.»

 

La Dama d'avorio era una delle navi della Fratellanza della costa. Il capitano Ainùr, al comando della nave, era l'uomo più fidato di Barbarossa Bud, il fosco ammiraglio della fratellanza nonché l'uomo che poteva vantare sul proprio conto più leggende e più dicerie in tutto il Mare Ombroso. E Ainùr era l'unico a sapere quali fossero esattamente quelle vere e quali fossero vere soltanto a metà.

La Dama d'avorio era la fregata più imponente della fratellanza dopo la nave di Barbarossa Bud, la Sposa piangente. La dama e la sposa erano le due navi che avevano assediato Gol-Dashìr, l'ultima roccaforte nanica a Sud del regno di Alunor.

La polena di candido avorio svettava in prua con i seni scoperti rivolti verso le coste dell'Isola delle lucertole, al vento sventolava la bandiera con il teschio e la rosa in bocca.

Sul ponte principale si erano ormai radunati tutti i membri dell'equipaggio della Dama d'avorio, molti umani, alcuni con sangue in parte orchesco e dalla pelle giallognola, altri negri, altri cacciati da ogni parte del regno di Alunor che soltanto tra quei legni avevano trovato la possibilità di dare sfogo alle loro tristi perversioni: ladri, stupratori, assassini. Ora tutti attendevano l'unico uomo capace di intimorire tutti i presenti.

Il capitano Ainùr uscì dal castello di poppa con il lungo fucile a tracolla e il cappello a larghe falde sulla testa, accompagnato da Vuba il mastica-morti. Ad attenderlo stavano il primo ufficiale Ianos, che un tempo era un buon soldato del regno di Alunor, e il nostromo Tagliagole Finn, uno gnomo ben vestito e dal sorriso inquietante.

«Fratelli della costa! Quella che vedete davanti a voi è l'isola che i negri di queste terre dicono chiamarsi delle lucertole. Il glorioso giorno in cui prendemmo Gol-Dashìr, che tutti quanti noi ricordiamo bene, ci concesse tanti magnifici regali. Chi di noi può scordare l'oro nanico, la pietre preziose e le schiave dai corpi sodi che abbiamo portato via ai luridi nani? Eppure il dono più grande fu una pietra azzurra, di nessun valore di per sé, ma con un grezzo disegno sopra. Per i luridi nani non era altro che un insieme di scarabocchi, ma noi, i figli del mare, abbiamo riconosciuto in quel disegno una mappa.

«Non c'è un vecchio matto e ubriacone che non sappia cosa siano gli Antichi Esiliati. Dicono che se la vita è nata nell'acqua allora è nell'acqua che dormono le divinità che un giorno reclameranno la vita come un giocattolo che gli appartiene. Vero o no, fattostà che nei tempi antichi tanti templi sono stati costruiti per queste divinità, catapecchie di pietra piene d'oro. Ed ecco il motivo per cui abbiamo portato la nostra dama fino a queste coste infestate di negri mangiatori di cadaveri: là sopra c'è un tempio, e nel tempio c'è l'oro!

«E allora io invoco il “giocare sporco”, ora e fino a quando qualcuno non salirà sulla nave con l'oro del tempio. Come sapete significa che ognuno andrà per conto suo e che se qualcuno di voi cadrà vittima di un incidente mentre cerca il tempio, be', non si indagherà troppo su come sia morto.»

Dal ponte principale si alzarono una serie di risatine divertite, mentre qualcuno già teneva d'occhio le barcacce e le scialuppe, pronto a scattare.

«Che fate ancora sulla nave? AL TEMPIO!»

 

Quando Vuba giunse nel profondo della giungla il resto della ciurma si era già dileguato nell'entroterra. Il nero però sapeva che se c'era un luogo in cui i suoi antenati avevano potuto erigere un tempio per gli Antichi Esiliati non era certo sulla cima di un monte, ma vicino al mare, lungo la costa. Così fece in modo di restare indietro per quanto ritenesse sufficiente a non essere visto e, mentre gli altri pirati si andavano a scannare nel folto della giungla, lui tornò sulla costa e cominciò a procedere su quelle bianche sabbie. L'ombra delle palme non giungeva fino agli scogli, dove verdi iguane si scaldavano sotto la luce del sole che era ormai alla sua altezza massima. Vuba era vestito soltanto di un paio di logori pantaloni di stoffa grigia e due stivali di pelle neri. Al suo fianco pendevano due asce di quelle utilizzate dai selvaggi delle sue terre, decorate con piume azzurre. L'enorme corpo nero si muoveva sulla sabbia veloce e agile, lasciando, nonostante la mole enorme, un'ombra appena accennata di impronte dietro di sé.

Percorse un lungo tratto di costa, sempre tenendo d'occhio la prima porzione di giungla vicino al mare.

Fu in un punto in cui l'intrico di palme e liane era più fitto che Vuba sentì un fruscio appena udibile per un uomo normale. Con un balzo si nascose dietro uno scoglio, le asce strette in mano. Probabilmente non era altro che una pantera, ma preferiva essere prudente.

«Vuba! Maledetto negro! Tu, zitto zitto, sai esattamente dove trovare il tempio, vero?»

Era il marinaio con il nome più lungo dell'equipaggio della Dama d'avorio, il mezz'uomo Bogo Scavafosse Svuotatasche Soldodicacio Remaglini, nonché cuoco di bordo e gran torturatore, ma in fondo un brav'uomo. Ad accompagnarlo c'erano tre marinai della dama, tre secchi uomini dal pelo rosso originari delle Marche Indipendenti.

«Bogo! Non posso essere rallentato da un mezz'uomo i suoi tre amichetti. Se volete seguirmi mi sta bene, ma alla mia velocità.»

«Va bene, va bene, gigante nero! Il piccolo Bogo si farà portare in braccio da uno dei suoi tre amichetti, se credi che non riesca a starti dietro.»

«Su queste coste nessuno di voi potrebbe stare dietro ad un nero, tantomeno a me.»

Detto ciò Vuba riprese la sua corsa sulle bianche sabbia dell'Isola delle lucertole.

 

In un modo o nell'altro i tre marinai con Bogo riuscirono a tenergli dietro, ma quando il nero si fermò con lo sguardo al cielo, senza neppure dar segno di essersi affaticato, loro tutti faticavano a respirare per la fatica. Soltanto Bogo, che era stato tutto il tempo in braccio ora di uno ora dell'altro, era abbastanza fresco per seguire lo sguardo del gigante nero che osservava il pendio boscoso di un'altura poco distante: una sottile scia di fumo si alzava verso l'alto.

«Non possono essere dei nostri:» disse il negro «sono passati nel folto della giungla e anche con una strada più corta della nostra non possono aver corso tanto da passarci avanti.»

I tre uomini a fatica si reggevano in piedi, mentre increduli guardavano l'enorme Vuba il cui petto era appena perturbato da un vago cenno di affaticamento.

«Io mi avvicinerò per primo. Seguitemi a distanza, se vi vedono, chiunque siano, non vi aiuterò.»

Detto questo Vuba scomparve nel folto della giungla, perturbando appena la vegetazione con l'incredibile mole del suo corpo.

 

Alcuni minuti dopo, e in perfetto silenzio, era già nei pressi dell'accampamento del quale aveva scorto la scia di fumo. In prossimità di un pertugio naturale nella pietra rossa dell'altura quattro tende erano state piantate intorno ad un fuoco. Alcuni uomini stavano studiando vecchie carte su un tavolino su cui stavano posati alcuni bicchieri e una bottiglia di vino, uomini vestiti con lunghi cappotti blu. Tre soldati in armatura stavano picchettando l'entrata della grotta. Sulle armature e sulle tende era ben visibile il cigno del regno di Alunor.

Il regno era giunto dunque al tempio prima dei fratelli della costa. Peggio: con qualunque nave fossero giunti era probabilmente ancora attraccata su quelle coste, forse non troppo lontana dalla Dama d'avorio. Una nave pirata era un bottino troppo gustoso per una nave di Alunor: era fondamentale non far sapere a quelli uomini dell'esistenza della Dama d'avorio o sarebbe stata colata a picco.

 

Vuba fu forse il primo a sentire il rumore provenire dal folto della giungla: un piede messo in fallo e il rumore di un corpo che scivolava a terra. In un attimo le tre guardie armate si gettarono nel folto della giungla mentre gli uomini con il cappotto azzurro attendevano in silenzio dietro al tavolo, accanto alla brace del fuoco che veniva tenuta appena in vita.

Seguirono alcuni secondi di totale silenzio, poi alcuni spari, infine rumore di sciabolate e grida soffocate in gola. Quando gli uomini armati tornarono portavano con loro un ferito, uno dei tre uomini che erano insieme a Bogo. «C'erano altri due di questi cani, nel folto della foresta. Siamo riusciti a tenere in vita soltanto questo.»

Tra gli uomini con il cappotto azzurro uno, con un lungo pizzetto nero, si avvicinò al prigioniero e cominciò a fare domande, infierendo appena con un coltellino sulla tempia destra. Lo avrebbero torturato, a lungo, per sapere da dove era giunto. Forse l'avrebbero crocefisso e lasciato a seccare al sole per giorni e prima o poi gli avrebbe rivelato della Dama d'avorio. Era solo questione di tempo: prima o poi attraverso l'estrazione dei denti o delle unghie, attraverso l'evirazione o lo svisceramento il prigioniero avrebbe parlato. Era soltanto una questione di tempo, a quel punto: Vuba poteva però sperare di entrare nel tempio e tornare alla nave con il bottino prima che l'uomo avesse ceduto, in modo da mettere tra la dama e la nave di Alunor un tratto di mare sufficiente a fuggire.

Così, approfittando della momentanea distrazione di guardie e ufficiali, silenzioso come un topo e veloce come un serpente, il gigantesco negro si calò nella fenditura della roccia.

 

Non fu facile proseguire all'interno della grotta nel buio più totale. Aiutandosi con le lunghe braccia Vuba andò avanti a lungo, non avrebbe saputo dire quanto. Non sembravano esserci altre gallerie se non quella che stava percorrendo, leggermente in discesa e verso il cuore della montagna. Le pareti di tanto in tanto erano umide, forse piccole falde sotterranee. Il pavimento era dissestato: non era facile mantenere l'equilibrio nel buio più totale.

Soltanto molto dopo si accorse che davanti a lui l'oscurità andava rischiarandosi. All'inizio fu più che altro un'impressione, poi lo vide distintamente: il bagliore di una torcia nell'oscurità.

Dietro una svolta un esile ragazzino dai capelli corti e dagli abiti eleganti stava studiando, alla luce di una torcia, alcune iscrizioni che decoravano quello che doveva essere l'ingresso al tempio vero e proprio. Una colossale porta di pietra era già stata divelta e nell'arco che un tempo la conteneva la luce ballerina illuminava strani simboli scolpiti una lingua antica, troppo antica per gli uomini di Alunor. Sulla volta dell'arco era scolpita una maschera di pietra: somigliava a quelle maschere che si mettono in volto ai prigionieri per dimenticarne il viso, ma aveva la lingua di fuori. Il ragazzino stava ricopiando gli strani simboli e ne stava cercando il significato, totalmente assorbito nel suo lavoro. Era talmente concentrato che neppure si accorse dei silenziosi passi del gigante nero che gli si avvicinava alle spalle: il suo collo, nello spezzarsi, emise appena un vago rumore soffocato.

Vuba raccolse la torcia e si inoltrò nel tempio.

I simboli che aveva visto sull'arco d'ingresso si ripetevano all'interno, sulle pareti di un lungo corridoio: Vuba non sapeva leggere nessun linguaggio, neppure quelli tuttora in uso, quindi rinunciò del tutto ad interpretare quei simboli. Ricordava però di aver già visto la maschera di pietra con la lingua di fuori, in qualche rovina nelle isole da cui veniva. Doveva essere una delle antiche divinità, gli Antichi Esiliati, di cui nessuno conservava più memoria.

Quando giunse ad una grande sala circolare si fermò alcuni attimi ad osservare le sculture sulle pareti. Un enorme granchio con un volto d'uomo sul carapace dominava la scena, mentre intorno si svolgevano scene di vario tipo: nella parte più alta della parete si trovavano navi che solcavano i mari, lasciando dietro di loro una scia di corpi in mare. Subito sotto si vedevano i corpi scendere, contorcendosi, fino a giungere in prossimità del grande granchio con il volto d'uomo sulla schiena. Quegli annegati sembravano venerarlo come un dio. Il dio degli annegati.

Una scala circolare di pietra scendeva negli abissi.

Vuba scese furtivo, attendo ad osservare se sul fondo della scalinata si vedessero altre luci.

Quando era ormai sul fondo si bloccò di scatto vedendo che nel corridoio che partiva subito ai piedi della scala si trovava una figura in piedi. Doveva stare nell'oscurità più totale perché non c'erano luci a parte quella della torcia che il negro portava in mano, quindi chiunque ci fosse nel corridoio buio aveva di sicuro visto l'approssimarsi di quell'unica luce nell'oscurità. Essendo inutile nascondersi ulteriormente Vuba si gettò nel corridoio pronto a sostenere un combattimento.

Lo spettacolo che si trovò di fronte si rivelò quantomeno insolito: ai lati del corridoio si trovavano una serie di figure in piedi, corpi incatenati alle pareti da catene arrugginite infisse con uncini alle spalle e ai polsi. I corpi erano quasi del tutto mummificati, secchi e color del cuoio, coperti a malapena da vecchi stracci logori. Tutti avevano la testa rinchiusa in delle strane gabbie: erano composte da una robusta intelaiatura di metallo che proteggeva una teca di robusto vetro che racchiudeva tutta la testa. Alcune di queste teche erano in parte rotte e lasciavano vedere il cranio urlante, altre erano ancora intatte e si poteva vedere che al loro interno contenevano un'acqua torbida in cui era immerso il cranio mummificato. Tutti quei corpi erano stati incatenati alle pareti con la testa inserita in questa teca piena d'acqua: nessuno avrebbe mai saputo dire se erano già morti o se erano stati affogati in piedi, lungo quel corridoio. Erano decine e decine, lungo le pareti, lasciando tra loro appena lo spazio sufficiente per far passare un uomo.

Temendo maggiormente i vivi dei morti, Vuba si incamminò lungo il corridoio di corpi. 

   
 
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