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Autore: Midnight Sea    13/02/2016    0 recensioni
[Mirya]
Il tempo non è rimasto fermo per Chiara, tutto ha continuato ad andare avanti e così anche lei, insieme a Leonardo. Ma ne è valsa davvero la pena? Era stato davvero giusto concedere una possibilità alla loro storia? Quel forse, tanto sognato ed agognato, era valso tutto quello che si ritrovava ad affrontare ora?
Partecipa al contest "Forse sì" indetto da Mirya76, geniale autrice del libro "Di Carne e Di Carta" su cui verte l'intera competizione.
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DI CARNE E DI CARTA
 
FORSE
 
 
 
 
 
«E dimmi, come sta andando questa settimana? Si sono un po’ calmate le acque?»
«Ad oggi, non abbiamo ancora discusso. Ma è solo mercoledì e non sono nemmeno le tre del pomeriggio, la giornata è ancora lunga. Non posso prevedere se anche stasera si arriverà ad uno scontro.»
«Forse dovresti semplicemente essere più accomodante…»
Il rantolo di disgusto che mi uscì dalla gola fu abbastanza eloquente.
«Accomodante
«Chiquitita, sai cosa intendo. Siete in due in questa situazione, in due dovrete cercare una soluzione. Non puoi bocciare ogni singola sua richiesta così, a prescindere. Sai quanto si stia impegnando per far funzionare la vostra relazione.»
«Certo, perché io invece non mi sto impegnando!» brontolai, alzando gli occhi al cielo in un riflesso nervoso. La sentii sospirare e cercare le parole giuste per continuare la conversazione, ma non gliene diedi il tempo. «Lì come va?»
Il resto di quella telefonata con Alessandra fu decisamente più rilassante e piacevole. Mi raccontò di come ogni mattina fosse splendido aprire le imposte alle finestre e vedere quella coltre di neve purissima davanti a sé, di come Angelo non le facesse mancare sorprese e tenerezze, di come la nuova scuola le piacesse ogni giorno di più.  Da quando si era trasferita in Trentino sembrava essersi inserita nel suo ambiente naturale. All’inizio non aveva preso bene il trasferimento per lavoro di Angelo, una grandissima opportunità per la sua carriera, ma per loro la soluzione era arrivata in maniera così immediata e semplice, come se avessero sempre saputo cosa fare. Avevano già un anno di convivenza alle spalle, quindi decidere di trasferirsi insieme era stato come seguire un sentiero già tracciato.
E Alessandra sembrava davvero felice, lassù sui monti.
Se per Alessandra e Angelo trovare soluzioni a problemi importanti era facile come bere un bicchier d’acqua, per me e Leonardo tutto si trasformava in un grande allagamento, una lenta e profonda agonia che ci scavava di giorno in giorno. Da almeno un anno e mezzo eravamo una coppia di pendolari, ci vedevamo tre sere a settimana e passavamo i weekend insieme, alternandoci tra Bologna e Ferrara. All’inizio anche per noi era stato semplice, così semplice che mai mi sarei immaginata un riscontro tanto felice, mai mi sarei immaginata che con lui tutto sarebbe stato tanto semplice. Aspettavo con gioia il suo arrivo e guidavo con impazienza per raggiungerlo. Sembrava davvero che ne fosse valsa la pena, di accettare quel forse. Ben presto però l’euforia della novità era svanita, lasciando il posto alla verità della vita quotidiana. Sempre più spesso ci trovavamo ad annullare i nostri incontri a causa di giornate troppo stressanti o per un carico eccessivo di lavoro o di stanchezza, che rendeva pericoloso e inutile salire in macchina. Sempre più spesso i nostri weekend insieme si tramutavano in piccoli battibecchi e sempre più raramente riuscivamo a stare nella stessa stanza senza rinfacciarci le disdette dei giorni precedenti.
Ne valeva ancora la pena, per quel forse?
Il telefono sul tavolo prese a vibrare. Erano già le sei di sera ed ero ancora immersa nella correzione dei compiti di terza, dove avevo trovato strafalcioni degni di un comico. Primo tra tutti, che mi aveva fatta ridere e non poco, era stato leggere dell’incontro tra Dante ed il conte Ugolino nel lago del Coccige.
«Sei a casa?»
«Buona sera anche a te…» borbottai, troppo piano perché mi sentisse. «Sì, sono a casa, sto finendo di correggere delle verifiche, perché?»
«Per sapere.» e riattaccò.
Rimasi col telefono all’orecchio per qualche secondo, incredula. Ora mi controllava anche? Cercai di non pensarci troppo e ripresi in mano la penna rossa, sperando ardentemente di non trovare altri errori di quella portata. Non era la prima volta che venivo deliziata in quel modo dalla fantasia dei miei alunni, ma mi stupivo ogni volta, vedendo il livello alzarsi sempre più. Pregustavo già la risata generale alla lettura di quella risposta e l’alzata di spalle noncurante dell’autore, tradito però dal rossore del suo viso. Era abbastanza bravo a mascherare la sua grande timidezza, ma da piccoli segnali la si poteva scorgere comunque.
Ventitre minuti esatti dopo stavo fissando il vuoto senza aver corretto una sola parola e il citofono suonò, ridestandomi da quello stato catatonico in cui ero finita.
«Apri.»
Con uno sbuffo prolungato aprii il portone e socchiusi la porta d’ingresso, tornando al tavolo per raggruppare i compiti, li avrei finiti di correggere il giorno seguente durante la mia ora buca, in modo da poterli consegnare alla classe durante l’ultima ora. Sentii la porta chiudersi, delle chiavi posarsi sul tavolino dell’ingresso ed i piedini gommati del suo borsone posarsi sul pavimento. Tutti rumori a cui ero perfettamente abituata e che sentivo molto spesso, tranne l’ultimo, che sentivo solo il venerdì pomeriggio, quando veniva da me per passare il weekend insieme. Almeno aveva la fortuna di avere il sabato come giorno libero…
Mi voltai e lo guardai, perplessa.
«Il comune ha deciso di chiudere le scuole domani e venerdì, per l’allerta neve» spiegò, avvicinandosi al frigo e prendendo un bicchiere d’acqua. «Qui no?» domandò, senza nemmeno guardarmi.
«A dire il vero, non ne ho idea…» mi colse di sorpresa.
«Non importa, intanto sono qui» si voltò e finalmente i suoi occhi incontrarono i miei, facendomi sussultare il cuore. Un tuffo, un carpiato ben calibrato, una sensazione che conoscevo fin troppo bene, ma che non sentivo da tanto. Perché era da tanto che non mi perdevo in quello sguardo. Poggiò il bicchiere nel lavabo e si avvicinò, passandomi le braccia dietro la schiena e stringendomi contro il suo petto. Mi baciò la fronte e rimase immobile, in quella posizione, senza allentare la presa. «Mi sei mancata» mormorò. Non risposi, mi limitai solo a stringerlo a mia volta, sentendo tutta la tensione abbandonarmi. Per quella sera, almeno, non avremmo litigato.
«Perché non me l’hai detto prima al telefono?» domandai, quando sciolse l’abbraccio e mi lasciò libera di sistemare i compiti nella cartellina ed infilare questa nella borsa.
«Volevo farti una sorpresa»
«Beh, sorpresa riuscita»
C’era di nuovo tensione nell’aria e non volevo che si creasse di nuovo quel clima ostile e pericoloso, così mi voltai e sprofondai nuovamente nel suo abbraccio.
«Vado a fare una doccia» mormorò, accarezzandomi la schiena. «Potresti venire con me» aggiunse, malizioso, facendo salire le mani sotto la felpa che indossavo. Trattenni malamente un sospiro frustrato.
«Mi piacerebbe tanto…» sbuffai, sciogliendo dolcemente quell’abbraccio. Mi rivolse un sorriso dolce e mi baciò, un piccolo, leggero, dolce bacio, tanto desiderato.
«Credo che prima di tornare a casa riusciremo a fare una doccia, sbaglio?» mi fece l’occhiolino ed afferrò il borsone, andando in camera mia. Purtroppo non ero riuscita a fargli molto spazio nel mio armadio ed era costretto a portarsi il cambio di vestiti ogni volta che veniva a passare la notte da me, a differenza mia che, invece, gli avevo occupato un’anta intera. La differenza sostanziale stava nelle dimensioni del suo armadio, almeno tre volte più capiente del mio.
«È finito il tuo shampoo, ma te l’ho ricomprato. È nel mobiletto in bagno se ti serve» gli dissi a voce alta in modo che potesse sentirmi.
Aprii il frigo per decidere cosa mangiare quella sera e mi resi conto di non aver fatto la spesa, rimaneva ben poco. Mentre pensavo a come preparare la cena con quelle quattro cose rimaste, in perfetto stile “mistery box” di Masterchef, mi sentii abbracciare da dietro.
«Ultima chiamata per la doccia…» mormorò, con voce roca e profonda. Sospirai, appoggiando la testa alla sua spalla e permettendogli così di baciarmi il collo. «Davvero non puoi?»
«Purtroppo no» mugugnai, frustrata. «Ma per il weekend dovrei essere libera» mi voltai, legandogli le braccia al collo. «Se però ti aggiri nudo per casa mia, non penso di arrivarci viva, al weekend» gli feci l’occhiolino e lo lasciai andare, tornando a concentrarmi sul frigorifero. Niente, nemmeno Gordon Ramsay sarebbe riuscito a creare un piatto commestibile con ciò che avevo. «Non ho fatto la spesa e non ho quasi nulla da mangiare, ti va la pizza?» domandai, rimanendo sulla porta del bagno.
«Pensavo ci avessi ripensato per la doccia» ridacchiò. «Va benissimo la pizza, vuoi uscire?»
«E se ce la facessimo portare a casa? Non mi va tanto di uscire, voglio rimanere qui con te»
La sua testa sbucò dal box doccia e mi fece l’occhiolino, chiudendo di nuovo il vetro e continuando a lavarsi fischiettando.
Due ore più tardi eravamo seduti a tavola, con due cartoni di pizza fumante davanti.
«Ho controllato, le scuole sono aperte. Ma perché a Bologna hanno chiuso?»
«Non ne ho idea, ma meglio così, non trovi? Dovrebbe nevicare anche qui, se così fosse domattina ti accompagnerò io, così sarò molto più tranquillo.»
«Hai la possibilità di rimanere a dormire, non ha senso che ti svegli presto, tranquillo. So cavarmela sai?»
«Non importa, lo faccio volentieri. Così poi posso provvedere alla nostra sopravvivenza» con un cenno della testa indicò il frigorifero e mi venne da ridere.
«Basta che non fai come l’ultima volta, patatine e merendine non sono il mio concetto di cena!»
«Ma quelli erano solo snack, tu sorvoli sulle cose importanti, come la mia splendida carbonara o l’arrosto perfetto che ti sei mangiata con gusto»
Era sereno, tranquillo, come me del resto. Stavamo cenando insieme, come tante altre volte avevamo fatto, in totale rilassatezza e spensieratezza. Sorrideva, anche i suoi occhi sorridevano, ed io mi chiesi come avevamo fatto a litigare nei giorni precedenti, ad avere tanto astio l’uno con l’altro, a dire cose che non avremmo mai nemmeno lontanamente pensato.
Lì mi fu chiaro: ne era valsa la pena, per quel forse.
 
 
 
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«Hai per caso visto lo scatolone III dei libri?» domandò, affacciandosi alla porta della nostra stanza.
«I miei li ho tutti portati nello studio, ho visto che ce ne sono anche alcuni tuoi, ma non mi ricordo se c’è anche quello che stai cercando, prova a dare un’occhiata»
«Ho già controllato, non c’è» si asciugò alcune gocce di sudore dalle tempie con fare nervoso.
«Sarà sicuramente nel prossimo camion, sta tranquillo» gli sorrisi, facendogli cenno di avvicinarsi all’armadio per ammirare la mia opera. «Funzionale, non credi?» rimirò per qualche istante la mia organizzazione degli spazi, poi mi fece prigioniera tra le sue braccia. «Sei tutto sudato» mi lamentai, ridendo.
«E tu no. Dovremmo rimediare a questo…» mi sollevò da terra, depositandomi poi sul letto.
«Dai, non avevo ancora finito! E questi vestiti sono puliti e stirati, non…» come se non avessi detto nulla, maglie e pantaloni finirono sul pavimento.
«Dobbiamo ancora inaugurarlo, questo letto» si sfilò la maglietta, lasciandola cadere sul pavimento.
«Sì ma non è questo il momento» lo guardai, divertita.
«Ma è sempre il momento per questo» e si indicò, con fare trionfante.
«Oh, certamente, ma nell’ultimo periodo è stato, come dire, faticoso averti accanto»
«Infatti sei dimagrita» mi sfilò i pantaloncini di jeans.
«Non è colpa mia se cucini per un esercito e talmente bene da dover fare il bis di ogni portata. È normale ingrassare davanti a tanta bravura.»
«Ed è anche normale smaltire poi tutto. In questo sono ancora più bravo» mi rivolse un ghigno beffardo, sfilandomi anche la canotta.
«Touché» risi, legandogli le braccia al collo per baciarlo.
L’avevamo fatto davvero. Alla fine avevo ceduto, mi ero lasciata convincere ed era stato tutto un andirivieni di emozioni. Era come stare su di una giostra, un susseguirsi di adrenalina, felicità, stupore. E, per la prima volta in vita mia, non avevo il terrore che finisse tutto quanto.
Il suono del citofono mi permise di sgusciare via dalla sua presa ferrea, facendolo sbuffare contrariato e beccandosi una mia risata come risposta.
«È l’ultimo furgone, scaricano tutto nell’androne poi possiamo portare su ciò che manca. Vedrai che il tuo scatolone sarà in questo carico.»
«Non so come abbia fatto però a finirci, questa dovrebbe essere solo roba tua» era nervoso, si vedeva da come stava infilando la maglietta e sistemando i pantaloncini da palestra. Inutile dire che era fin troppo bello anche così, sudato, con i capelli scompigliati e strisce di polvere bianca in netto contrasto col nero della maglia.
«Rilassati, d’accordo? In un modo o nell’altro salterà fuori, non è andato perso. Non farne una tragedia ora» provai a tranquillizzarlo, dandogli un bacio.
Una volta che tutti gli scatoloni dell’ultimo furgone furono in salotto, la porta d’ingresso si chiuse a fatica, passando a pelo vicino ad uno di questi.
«Come faremo stanotte a dormire con tutta questa confusione in giro?» mi lamentai, guardando l’ora. Erano quasi le sette di sera e non avremmo mai fatto in tempo a sistemare tutto prima di andare a letto. Odiavo avere confusione per casa e quello che mi si stagliava davanti agli occhi era l’ennesima potenza della confusione. Sembrava che fosse appena esplosa una bomba lì dentro.
«Semplice, non dormiremo» mi fece un occhiolino carico di sottintesi ed iniziò ad aggirarsi tra gli scatoloni, urlando di gioia quando trovò quello tanto agognato.
«Mentre tu finisci di sistemare il mobile, io vado a fare una doccia. Hai già guardato dove potremmo cenare stasera?»
«Ho trovato una trattoria abbastanza conosciuta, in pieno centro, promette bene, ha ottime recensioni. Possiamo andare anche a piedi, cercando un po’ di fresco. Oggi è stata davvero una giornata caldissima» sistemò uno dei volumi della sua preziosa enciclopedia sul grande mobile che occupava tutta la parete centrale della stanza.
Gli scaffali erano già quasi tutti pieni di libri e cd, bisognava solo finire di installare il televisore con l’impianto dolby surround. Quando era stato il momento di scegliere l’arredamento era stato categorico, motivando la scelta di quell’inutile oggetto - inutile ai miei occhi - dicendo che gli altoparlanti dei televisori ultrapiatti non danno una resa del suono decente. Per quel poco che m’interessava della televisione, potevo anche accontentarlo. La gioia nei suoi occhi portando a casa il suo acquisto valeva più di qualsiasi altra cosa.
«D’accordo, passeggiata sia.»
Sotto al getto fresco dell’acqua mi rilassai, sentendo la stanchezza di quella giornata iniziare ad abbandonare il mio corpo accaldato, lasciando spazio ad una calma mai provata prima di allora, prima di quel periodo che sembrava così innaturalmente perfetto. La porta di cristallo del box doccia si aprì e sorrisi ad occhi chiusi, restando sotto il getto dell’acqua fino a quando non lo sentii stringermi tra le sue braccia.
E la doccia venne adeguatamente inaugurata.
 
 
 
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«Che effetto ti fa?»
Stavamo camminando già da un paio di minuti, mano nella mano, verso il centro di quella nuova città, che tanto ancora dovevo conoscere e che tanto mi affascinava. Con la sua storia, con i suoi palazzi e le sue leggende, con le sue tradizioni e le sue stranezze.
Ed avremmo scoperto tutto insieme, io e lui.
«Non lo so, sto bene. Non mi sembra nemmeno di essermi allontanata da quella che ho sempre definito casa. Mi piace qui, mi piace l’appartamento, ma soprattutto mi piace la persona con cui lo divido, quell’appartamento» mi fermai al semaforo e lo guardai. Il suo sguardo era lo specchio del mio, serenità incontrastata. «Non ci siamo allontanati di molto, ad Alessandra è andata peggio»
«Ma lei è solo contenta di essere lassù. A me non piacerebbe per niente, non sono un gran amante della montagna»
«A me non fa né caldo né freddo, ma se devo scegliere, allora preferisco le città marittime. Anche d’inverno, credo di essere una delle poche persone in effetti. A molti il mare d’inverno mette tristezza, così scuro e quasi sempre agitato, a me invece rilassa. Anche se ci sono pochi gradi ed un tasso di umidità incalcolabile, adoro sedermi su quello che resta della spiaggia e guardare le onde stagliarsi a riva, il rumore della spuma a contatto con la sabbia, l’odore della salsedine. In estate è tutto diverso, non riesci a godertelo a pieno. C’è il caos dei turisti, delle famiglie, dei giovani che chiacchierano a volume troppo alto per le mie orecchie, dei corsi di baby dance sulla battigia…»
«Esigente» ridacchiò, riprendendo a camminare quando il verde s’illuminò.
«Non sono esigente. Io sono una di quelle persone che puntano la sveglia alle quattro e mezza del mattino per andare a vedere l’alba sulla spiaggia, nella tranquillità e nel silenzio totale. Non mi piacciono i luoghi affollati, mi piace la calma e la tranquillità»
«Come la zona dove vivremo»
Lo disse con tale orgoglio da farmi sentire più leggera, quasi come se potessi camminare senza toccare il suolo.
Vivremo. Noi. Quel plurale suonava sempre meglio ogni volta che lo sentivo.
«Perché pensi che mi piaccia così tanto quell’appartamento…» gli feci l’occhiolino.
«Pensavo che ti piacesse solo perché ci vivrai con me» mi provocò, con un sorriso.
«Ti credi l’ombelico del mondo?» guardai davanti a me, scrollando le spalle. Lo sentii ridacchiare ed il nostro scambio di battute finì lì.
La torre campanaria si stagliava davanti ai miei occhi, bianca ed illuminata dalla luce del tramonto. Non eravamo gli unici a passeggiare in direzione centro storico, ma eravamo gli unici a farlo con calma, senza fretta, godendoci ogni attimo, ogni respiro di quella nuova città che ci stava aprendo tutte le sue porte affinché potessimo iniziare una nuova vita. Il grande viale d’ingresso, con la sua fontana zampillante, le sue siepi ben potate, il teatro pronto ad accogliere il pubblico per un nuovo spettacolo, tutto sembrava essere in armonia, tutto sembrava essere lì per un motivo ben preciso: rendere armonico e piacevole l’ingresso nella parte più antica di quella città dalla storia importante e caratteristica. Camminammo con calma, osservando i negozi della via principale, cercai di imprimere nella memoria le vetrine in modo da ricordarmene qualora ne avessi avuto bisogno. D’un tratto Leonardo si fermò al mio fianco e lo guardai, perplessa.
«Non mi ricordo la strada» borbottò e prese il telefono dalla tasca, controllando una mappa. Mi venne da ridere. «Sì, volevo andare a colpo sicuro per fare bella figura, missione fallita» non si trattenne e rise anche lui, cercando di orientarsi. Lo guardai osservare le strade che ci circondavano, concentrato, e mi dissi che era davvero bello, quella sera. Tutto era davvero bello. «Dovrebbe essere la prossima a destra, ne sono quasi sicuro» ripose il telefono nei jeans e riprese la mia mano, portandosela alla bocca e baciandola. «Acceleriamo il passo, non vorrei che dessero via il nostro tavolo»
 
 
 
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«Oh, è davvero…» mi guardai intorno, sorpresa. «Caratteristico» mormorai.
«Rustico»
Le pareti del piccolo ambiente erano completamente rivestite da pannelli di legno color nocciola, foto di personaggi famosi erano ben incorniciate, insieme a magliette autografate della squadra di calcio locale, gagliardetti e vidi anche una bandiera, la bandiera della città. I colori predominanti, alla fine, erano il marrone delle pareti e svariate macchie gialle e blu in giro per la sala. I miei occhi ci misero qualche secondo per abituarsi a quell’accozzaglia cromatica.
«Benvenuti, avete prenotato?»
«Villani»
«Certo, prego» dopo aver controllato il registro ci indicò un tavolo per due, vicino alla vetrata, l’unica dell’intero locale. «Va bene?»
«Certo, è perfetto»
Ci lasciammo consigliare e finimmo per ordinare un menù tipico, mangiando fino a scoppiare. Era tutto perfetto, sapori unici e ben equilibrati. Ora capivo le recensioni positive di cui mi aveva parlato a casa, le meritava tutte quante.
Usciti dalla trattoria mi resi conto della leggera brezza che si era alzata, che mi fece venire la pelle d’oca.
«Hai freddo?» domandò, accorgendosene.
«Freddo è una parola grossa, non essere sciocco. Ci saranno almeno trenta gradi.»
«Sì, ma abbiamo mangiato davvero tanto, non vorrei ti si bloccasse la digestione.»
«Allora ricominciamo a camminare, così mi scaldo.»
Continuammo la nostra esplorazione e rimasi a bocca aperta quando raggiungemmo la piazza principale. La cattedrale, che più volte avevo visto sui libri di storia dell’arte, mi sorprese notevolmente, al punto che volli girarla tutta, ispezionando ogni lato di quella costruzione romanica.
«Ci hanno messo esattamente duecentoventi anni per terminarla» disse, dopo che ebbi guardato ogni singolo angolo. Mi voltai verso di lui, sorpresa. «Ho fatto qualche ricerca» alzò le spalle, con noncuranza.
«Io no, non ne ho avuto il tempo. Quello che so lo devo a vecchie lezioni di storia dell’arte, ma sono reminescenze lontane. So che viene chiamato “il libro di pietra”»
«Per via dei vari bassorilievi sugli architrave delle varie porte» annuì. «È un ciclo di racconti, la maggior parte riguardando il santo protettore della città»
Non so quante volte facemmo il giro dell’intera cattedrale, il suono della sua voce mi fece perdere la cognizione del tempo. Mi raccontò tutto ciò che sapeva, dalle leggende ai fatti storici legati alla struttura e all’intera piazza.
Una volta a casa, sdraiati sul nostro letto, mi sentii completa.
«Potrebbe diventare una tradizione» sbadigliai, girandomi sul fianco e sentendo lui abbracciarmi da dietro.
«Non mi dispiacerebbe»
Mentre cedevo al sonno, cullata dal suo profumo che ormai inebriava non solo le mie narici ma tutta la mia vita, ebbi l’ennesima conferma.
Sì, era valsa la pena di accettare quel forse. Ed avrei continuato a farlo, ogni singolo giorno.
 
 
 
 
FINE

 
 
 
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Vorrei ringraziare la persona che ha reso possibile la stesura di queste poche righe, colei che ha dato vita a questi due personaggi, che ha plasmato la loro storia, le loro disavventure, le loro paure e le loro insicurezze, ma anche le loro piccole gioie, scoperte, conquiste. Vorrei ringraziarla per avermi spronata a scrivere, per aver calmato le mie “ansie da prestazione”, per aver risposto alle mie domande e per avermi fatta sentire importante, grazie alla fiducia che ha riposto in questo elaborato, a scatola chiusa. Spero di aver reso giustizia ad un libro che mi ha emozionata, che mi ha fatta arrabbiare più volte, ma che mi ha lasciata con un sorriso stampato in faccia. GRAZIE, a caratteri cubitali. Mi sono divertita immensamente a riprendere in mano questa storia, a plasmarla con le mie idee, a rendere un po’ miei due personaggi che miei non sono, a rendere mia una vicenda che non ho ideato io. È stata un’opportunità davvero d’oro che molti più autori dovrebbero dare ai loro lettori.
Ho sempre avuto l’attitudine di voler modificare qualcosa dei libri che leggo, che si tratti di eventi o del carattere di alcuni personaggi, e questo contest me ne ha dato l’occasione. Ma, come spesso mi capita, ho fatto tutt’altro. Alla fine mi sono ritrovata a scrivere un extra del libro, una sorta di continuazione, seppur breve, dove non sono andata ad agire sulle singole vicende, ma mi sono limitata ad immaginare come la loro storia avrebbe potuto evolversi nel tempo.
Col grande orgoglio campanilistico che alberga in me, potevo forse non cambiare l’ambientazione, facendoli trasferire in quella che è la mia splendida città? Volevo sentirmi a casa, anche in queste poche parole. Ma, cosa più importante, mi sono messa in gioco, mostrando anche la mia gaffe più grande dei tempi della scuola. Ebbene sì, il lago del Cocito ha cambiato nome grazie a me, ne detengo il copyright. Uno strafalcione emerso in un’interrogazione, che ha suscitato l’ilarità generale, meno che nella mia insegnante, che mi ha fulminata con lo sguardo ritenendolo quasi un affronto personale. Ho imparato di recente, a mie spese, che senza autoironia non si va da nessuna parte, quindi viva le gaffe scolastiche! Viva le gaffe in generale!
Sperando di aver reso giustizia a Di Carne e Di Carta, ringrazio voi che adesso mi state leggendo.
 
Chiara
   
 
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