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Autore: Kara    16/02/2016    6 recensioni
Cazzo, cazzo e ancora cazzo!
E non me ne frega niente se vi sembro maleducato ma a volte ci sono situazioni che tirano fuori il peggio di me e questa è proprio una di quelle: una situazione del cazzo.
Una serata che non sembra andare nel modo giusto per Hajime...
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hajime Taki/Ted Carter, Teppei Kisugi/Johnny Mason
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho iniziato questa storia nel 2010 e per molti anni è rimasta nel mio pc. Sono riuscita a terminarla solo la scorsa estate ma per la mia solita cronica mancanza di tempo non sono riuscita a revisionarla e farla betare fino a qualche settimana fa.
Finalmente riesco a pubblicarla.

 
Compleanno di maggio
 
Cazzo, cazzo e ancora cazzo!
E non me ne frega niente se vi sembro maleducato. Normalmente evito di imprecare perché so quanto mia madre ci tenga che io “adotti un corretto modo di parlare”, per citare le sue testuali parole, ma a volte ci sono situazioni che tirano fuori il peggio di me e questa è proprio una di quelle: una situazione del cazzo.
Guardatemi!
Sono qui, nel cesso di casa mia, costretto a fare da infermiere a quell’imbecille di mio fratello che, a soli dodici anni, ha ben pensato di saccheggiare la riserva di liquori di papà scolandosi mezza bottiglia di shochu. E non uno shochu qualsiasi, ma l’awamori, che ojiisan gli aveva portato due anni fa da Okinawa; la bottiglia a cui mio padre tiene di più in assoluto, l’ultimo regalo che ojiisan gli ha fatto prima di morire. 
Quindi, come se non bastasse già come punizione il dovermi subire la puzza del suo vomito, dovrò anche sorbirmi una doppia cazziata.
Eh sì!
Perché sono sicuro che oltre a mio padre, anche mia madre avrà da ridire quando tornerà a casa.
Figuriamoci!
Sento già i suoi rimproveri ronzarmi nelle orecchie, fastidiosi come una mosca in una giornata afosa.
“Hajime! Perché non hai sorvegliato Makoto? Una cosa, una sola piccolissima cosa ti avevo chiesto di fare in cambio della disponibilità a usare la casa per la tua festa: quella di controllare tuo fratello. E  invece… di te non ci si può più fidare.”
E via con la solita tiritera sul fatto che io, ormai, pensi solo al calcio.
Già, il calcio, che ultimamente è diventato un problema per lei. Tra di noi. Come se non volesse riconoscerne l’importanza che ha nella mia vita, per il mio futuro.
E non riesco a capirne il motivo.
Secondo Teppei, mia madre è contenta che io giochi a pallone ma che, allo stesso tempo, teme di perdermi a causa del calcio, perché, se si avverasse il mio sogno di entrare in J League, dovrei lasciare Nankatsu per trasferirmi in qualche altra città del Giappone; probabilmente  molto lontano da casa. Ma non sono sicuro che il mio migliore amico abbia ragione. Credo che mia madre voglia un altro futuro per me, diverso da quello che mi sto costruendo con tanto impegno e fatica. Non mi sono sfuggite le sue continue allusioni sul figlio della nostra vicina, Shima-san, che in poco tempo è diventato dirigente alla Sony, sta guadagnando tantissimi soldi e che, sommo gaudio e giubilo, sta per sposarsi.
L’ho ignorata, facendo finta di niente, anche perché il mio, per ora, è e rimane soltanto un sogno;  ma non nego di aver fatto un’immensa fatica a non risponderle a tono. Contrariamente a quello che sostiene Teppei, sono convinto che mia madre vorrebbe anche per me quel tipo di vita ordinaria e tranquilla che conduce Shima-san, così terribilmente diversa da quella movimentata di un giocatore di calcio.
Ma io non posso.
Per carità, non ho niente contro il figlio della vicina, contento lui contenti tutti, ma le sue scelte non sono e non potranno mai essere le mie.
Io… sono diverso.
Voglio cose diverse.
 Forse molte più di quanto mia madre possa immaginare.
“Niisan… mi sento malissimo…” La voce lamentosa di Makoto mi strappa dai miei poco piacevoli pensieri. Abbasso lo sguardo e fisso con irritazione lo spettacolo pietoso che rantola ai miei piedi. Mio fratello è accasciato sul pavimento come un palloncino sgonfio. Le sue braccia magre stringono il  water con la stessa forza con cui un naufrago si aggrapperebbe a un salvagente e la sua fronte, madida di sudore, è abbandonata contro la fredda ceramica del sanitario. Tutt’intorno a noi, minuscoli schizzi di vomito costellano, come stelle sbiadite, le piastrelle blu notte.
“Ci credo che ti senti male, razza di idiota! Hai combinato un casino che non finisce più! E adesso chi li sente mamma e papà, eh? Ma tu guarda la miseriaccia zozza boia! Proprio a me doveva capitare un fratello così deficiente! Ma che cazzo ti ha detto il cervello, me lo dici? Tu e quell’altro genio di Hiroshi-chan! Lo sapevo che avreste fatto danni! Dannati mocciosi rompicoglioni!”
Sono incazzato nero e continuerei a inveire a tutto spiano se il suo viso smunto, ora rivolto verso di me, non cambiasse di nuovo colore, assumendo una sfumatura quasi verdognola. La sua espressione da implorante si fa allarmata; le labbra tremanti non hanno il tempo di formulare parola che un nuovo conato lo scuote, costringendolo a piegarsi in avanti.
Lo afferro per i capelli e, ignorando il suo gemito di dolore, gli spingo con forza la testa nel water, impedendogli di rimettere sui miei jeans scoloriti. Già mi ha vomitato sulle pantofole la piattola, non voglio che mi fotta anche i pantaloni; sono nuovi di zecca, li ho comprati stamattina appositamente per la festa di stasera. Serro le labbra mentre un sospiro di stizza mi gonfia il petto. La festa… altro motivo di incazzatura. Come se non ne avessi già a sufficienza.
Ma di questo, purtroppo, posso incolpare solo me stesso.
E Ryo Ishizaki, ovviamente.
Il rumore della porta che si apre mi impedisce di continuare a infierire su Makoto, togliendomi la possibilità di sfogare su di lui la rabbia e la frustrazione che sto accumulando da giorni.
Continuando a tenere la testa di mio fratello ben ferma sul water, giro lo sguardo quel tanto necessario per inquadrare Taro Misaki che fa capolino dalla soglia.
“Taki-kun, come sta Makoto-chan?”
Mi stringo nelle spalle, storcendo la bocca in una smorfia seccata. “Uno schifo” mugugno, indicando in basso con un cenno della testa, di modo che il mio amico possa constatare con i suoi stessi occhi.
Makoto ha smesso di vomitare ma in compenso ha iniziato a piangere. Lo osservo con la fronte corrugata. Ora più che mai sembra un bambino, nulla a che vedere con il ragazzino sbruffone e insolente che ha accolto con arroganza i miei rimproveri quando l’ho colto sul fatto, facendomi imbestialire talmente tanto da non trovarmi certo ben disposto quando, tutto a un tratto, ha iniziato a sentirsi male.
“Ah! Ora piangi eh?” esclamo severo, lasciando la presa sui suoi capelli per avvicinarmi al mobile lavandino. Se pensa di intenerirmi con il pianto e di mettermi a tacere si sbaglia di grosso. Sono troppo arrabbiato per riuscire a calmarmi e le sue lacrime hanno su di me lo stesso effetto della benzina gettata sul fuoco. Ci mancavano solo lui e le sue cazzate a complicarmi la serata, come se già non lo fosse di suo. E anche se sono consapevole che la colpa di tutta questa merda di situazione non è soltanto sua, non posso fare a meno di prendermela con lui per l’ennesima tegola che  mi ha fatto cadere in testa.
“Potevi pensarci prima! Ormai è tardi per fare la vittima!” Apro lo sportello sotto il lavabo e afferro, dalla pila colorata e ben piegata nell’angolo, un asciugamano pulito. Faccio per bagnarlo sotto l’acqua fredda ma la voce di Misaki mi ferma.
“Taki-kun, perché non lasci fare a me e raggiungi gli altri? C’è bisogno della tua presenza di là, il padrone di casa deve occuparsi degli ospiti. E poi la manager ti sta cercando, non riesce a trovare le candeline.”
Le sue dita mi sfilano la spugna azzurra dalla mano. Prima che possa ribattere, il mio amico ha già inumidito la salvietta e si è inginocchiato davanti a Makoto.
Mi passo una mano tra i capelli, scansando con un gesto nervoso il ciuffo ribelle dalla fronte. Sono molto tentato di lasciar fare a lui. In questo modo eviterei di restare segregato in bagno e avrei la possibilità di fare una cosa che per tutta la sera, complice la festa e contrattempi vari, non sono riuscito a fare. E questo fatto ha contribuito a innervosirmi ulteriormente, mettendomi ancora più in difficoltà di quanto non sia già. Perché non è che sia proprio così sicuro di volerla fare questa cosa, eh?
A dirla tutta, non so proprio che pesci pigliare.
Sospiro per l’ennesima volta, scuotendo la testa, quasi sperando che questo semplice gesto riesca a sciogliere la massa aggrovigliata di pensieri che mi intasa il cervello. Ovviamente è tutto inutile, sarebbe troppo facile e la dea della facilità, a quanto pare, sembra avermi voltato le spalle.
Credo che Teppei abbia ragione quando afferma che quando si tratta di me è sempre tutto un gran casino.
“Ti aiuto a ripulirti un po’, mh? Vedrai che in questo modo ti sentirai meglio.” Il tono dolce e il sorriso incoraggiante che Misaki sta rivolgendo a Makoto mi riportano con i piedi per terra, impedendomi di impantanarmi, una volta ancora, nella confusione e nell’indecisione. Ci mancherebbe solo quello, come se non fossero già troppe le settimane che mi dibatto nell’incertezza, alla disperata ricerca di una soluzione. Soluzione che sarebbe dovuta arrivare da questa serata. O, almeno, dopo averci pensato e ripensato, così avevo deciso. Ma ora non ne sono più convinto, mentre fino a dieci secondi fa doveva essere per forza stasera.
Con un grugnito spazientito per questo mio continuo tentennare, mi faccio da parte.
In silenzio osservo Misaki scostare la frangetta sudata dalla fronte di mio fratello e passare con delicatezza l’asciugamano umido sul suo viso. Grazie alla calma del mio compagno di squadra, Makoto smette immediatamente di frignare. Continuando a tirare su con il naso si lascia ripulire, lanciandomi ogni tanto, di sottecchi, occhiate a metà tra il biasimo e il timore: capisco che tacitamente mi sta rimproverando per la mia durezza. Lo fulmino con lo sguardo, ottenendo in cambio un tremito di labbra e mi chino verso Misaki, dandogli un colpetto sulla spalla per richiamare la sua attenzione.
“Mi spiace lasciarti quest’incombenza, Misaki-kun, sei venuto qui per divertirti non per fare da infermiere.”
“Nessun problema. Vai tranquillo.” Il mio amico risponde con un cenno rassicurante della mano e uno dei suoi sorrisi “alla Misaki”, quelli che, ho imparato, indicano che l’artista del campo ha la situazione sotto controllo. Solitamente sul campo da calcio preludono a qualche azione che, nove volte su dieci, si conclude con un goal.
Ormai convinto e sicuro di lasciare l’impiastro in buone mani, tolgo le ciabatte da bagno e, dopo aver infilato le mie solite pantofole, apro la porta e la chiudo dietro di me con un colpo secco. Mi lascio andare per un attimo sull’anta d’ebano e chino lo sguardo a terra, rimuginando. Ora che ne ho la possibilità, avrò il coraggio di agire? Alzo gli occhi al cielo, spazientito.
E che cazzo! Basta! Non ne posso più!
Sono stanco, profondamente stanco di tutta questa situazione.
Stufo di arrovellarmi, di sentirmi lacerato.
Non fa per me.
Non è da me.
Normalmente non mi faccio tutti questi problemi, preferisco sempre agire anche se a volte, be’… evito di pensare troppo alle conseguenze e combino qualche pasticcio. Ma in questo caso è diverso, non posso non pensare a quello che potrebbe succedere, a come tutto il mio mondo potrebbe cambiare. Ed è questo a farmi tentennare.
L’insofferenza che sto provando per le continue pippe mentali degli ultimi tempi, insieme a una buona dose di impulsività, che, tanto per cambiare, non mi difetta, riesce a mettere fine a ogni mia indecisione.
E’ arrivato il momento di agire e andrò fino in fondo, costi quel che costi.
Con il passo deciso del gladiatore che entra nell’arena per abbracciare la morte, perché è così che, in un certo senso, mi sento, attraverso il corridoio e mi affaccio sotto l’arco di ingresso del salotto. La musica, che prorompe a tutto volume dalle casse dello stereo, mi percuote con forza il corpo, riempiendomi le orecchie e il cervello. Per un attimo ho l’impressione che il suo ritmico martellare scandisca i battiti del mio cuore, che sento agitarsi nel petto come un batterista invasato. Socchiudo leggermente le palpebre e scruto nella penombra della stanza, le cui luci sono state abbassate per creare l’atmosfera adatta a una festa. Tra quei corpi giovani che si dimenano con impeto, seguendo il ritmo indiavolato del rock, cerco una folta capigliatura riccia. I miei occhi navigano in quel mare di persone, registrando e scartando, istantaneamente, i volti degli amici e compagni di scuola. Vedo Izawa ballare con un’abilità e scioltezza invidiabili, circondato, come sempre, da un gruppetto di ochette adoranti. Improvvisatosi disk jockey, Kishida ha preso possesso dello stereo e sta animando la serata con del rock duro davvero forte. Devo ammettere che non se la cava per niente male in quel ruolo, se non gli andrà bene con il calcio potrà sempre lavorare in discoteca. Seduto accanto a lui, Morisaki sta curiosando tra le decine di cd impilati su una sedia. In un angolo, vicino al tavolo dei rinfreschi, Urabe sta intrattenendo alcuni kohai. Dai suoi gesti intuisco che sta raccontando barzellette e, conoscendolo come lo conosco, sono certo che ne sta tirando fuori una più sporca dell’altra.
Passo in rassegna i presenti più di una volta ma di Teppei nemmeno l’ombra.
Dove diavolo si sarà cacciato il mio migliore amico? Dovrebbe essere qui a ballare e a divertirsi insieme agli altri, non è una festa qualsiasi questa, è la festa per il suo compleanno.
Sbuffando con disappunto mi giro verso la porta finestra che si apre sul patio: è socchiusa. E se fosse in giardino? Cerco di sbirciare attraverso l’apertura ma da questa distanza non vedo nulla. Mi sposto di un paio di passi e mi alzo sulla punta dei piedi per sovrastare le teste danzanti ed avere una visuale migliore. Sì, infatti c’è qualcuno fuori: intravedo alcune ombre muoversi al di là del vetro, sagome disegnate dalla luce dei faretti nascosti tra le pietre delle aiuole. Faccio per immergermi nella calca sudata e raggiungere la finestra ma vengo fermato da una pacca sulla spalla, seguita a ruota da una voce squillante che mi urla nell’orecchio per sovrastare il frastuono.
“Taki-kun, che ci fai qui? Perché non sei con Makoto-chan?”
Mastico un’imprecazione tra i denti e mi giro, trovandomi davanti il viso sorridente della Nishimoto. “Abbiamo mandato Misaki-kun a cercarti. L’hai visto? Non riusciamo a trovare le candeline e ormai manca solo mezz’ora a mezzanotte. Abbiamo bisogno che tu ci dica dove sono!”
“Avete guardato nei cassetti della credenza?” chiedo distrattamente, tornando a voltarmi verso la portafinestra e ignorando la sua prima domanda.
Già le undici e mezzo!
Sono più di due ore che questa dannata festa è iniziata e non ho ancora avuto modo di scambiare due parole con Teppei. Quando è arrivato gli si sono subito affollati tutti intorno e, tra un augurio e un regalo, più di un ‘ciao’ non sono riuscito a dirgli.
E io devo parlare con lui.
Non posso più aspettare.
Devo parlargli prima di impazzire del tutto anche se, allo stesso tempo, ho una fifa blu. Ed è questa paura ad avermi bloccato finora.
A qualcuno potrà sembrare strano il mio legame con Teppei ma, da che ho memoria, nella mia vita ci sono sempre state due costanti: il calcio e il mio migliore amico. E non necessariamente in quest’ordine. Ho sempre pensato a me e a Teppei come due facce della stessa medaglia e come tali indivisibili. Siamo cresciuti insieme; ci siamo sempre detti tutto, confidati tutto, sostenuti a vicenda. Contando l’uno sull’altro abbiamo assaporato vittorie e sconfitte, diviso gioie e dolori. Niente è un problema se l’affrontiamo uniti. Non a caso ci chiamano ‘Silver Combi’ anche fuori dal rettangolo verde.
Ma ora…
Il vigliacco che è in me teme che tutto questo possa finire quando avrò vuotato il sacco,  perché quello che ho da dire sicuramente cambierà per sempre le nostre vite. E non so come. La mia paura è che Teppei non voglia più avere nulla a che fare con me una volta venuto a conoscenza del mio segreto, quello che gli sto nascondendo da mesi, quello che non ho ancora avuto il coraggio di confessargli; che non voglia più essere mio amico nonostante mi abbia più volte assicurato, in diverse occasioni, che saremo per sempre amici e che nulla – nulla! – potrà mai distruggere la nostra amicizia.
Non ho mai dubitato delle sue parole.
Fino a ora.
Per la prima volta in vita mia sto dubitando di noi. Di lui. Del nostro profondo legame.
Ma quello che mi è successo non l’avrei mai e poi mai immaginato.
“Ehi, Taki-kun, mi stai ascoltando?” Sento la manager scuotermi un braccio e abbasso lo sguardo su di lei, rendendomi conto di non aver sentito la sua risposta.
“Sì, scusa, è che non ricordo dove le ho messe” bofonchio, grattandomi la testa e continuando a guardarmi intorno, nella speranza che Teppei salti fuori da un momento all’altro.
“Eh? Cosa hai detto?” Yukari mi guarda confusa. “Con tutta questa musica non si sente nulla!”
“Ho detto che non ricordo dove le ho messe!” ripeto a voce più alta, accostando la bocca al suo orecchio.
“Allora vieni in cucina con me, perché noi abbiamo già guardato dappertutto.” La fisso con disperazione mentre dentro di me si agita un oni grosso quanto una montagna che vorrebbe afferrarla e lanciarla all’altro capo della stanza.
Meraviglioso, ci mancava giusto la caccia al tesoro, come se non avessi niente di meglio da fare che correre dietro a due stupide candeline.
“Ok, ok…” biascico controvoglia, mettendo a cuccia l’oni e  lanciando un’ultima occhiata alla portafinestra, prima di seguire Yukari in cucina.
Nella stanza regna il caos più totale. Uno dei ripiani è ricoperto di vassoi e scatole di pasticceria vuote, mentre su un altro sono ammassati, alla rinfusa, diversi pacchi di patatine, noccioline e snack, nonché svariate bottiglie di acqua, fanta e pepsi. In un angolo sono ammucchiate tre enormi buste piene di bicchieri, tovaglioli e piatti di carta usati. Sul tavolo, al centro della cucina, troneggia la torta di compleanno intorno alla quale si sta affaccendando Sanae.
Gemo sottovoce. Mia madre mi ucciderà anche per questo. Benché sia una delle persone più disordinate che io conosca, non ammette lo stesso disordine negli altri. Sembra un controsenso eh? Be’, per lei non lo è. Anche i vicini sentiranno i suoi strilli quando vedrà questo sfacelo. Dovrò sbrigarmi a mettere a posto prima che rientri, non voglio gettare altra benzina sul fuoco oltre a Makoto.
Probabilmente il mio flebile lamento giunge alle orecchie della capo manager, che si volta di scatto.
“Taki-kun, finalmente sei arrivato.” Le labbra di Sanae si aprono in un sorriso gentile e io non posso fare a meno di chiedermi, per l’ennesima volta, come abbia fatto quel maschiaccio di Anego a trasformarsi in una ragazza così carina e femminile. Se qualcuno, all’epoca, me l’avesse detto, giuro che gli avrei riso in faccia. Ora le cose sono diverse. Tutti noi della squadra le vogliamo bene e ci preoccupiamo per lei, perché, nonostante non se ne sia mai lamentata né ci abbia mai mostrato la sua sofferenza, sappiamo quanto senta nostalgia di Tsubasa. In questa sua forza interiore rivedo in lei l’Anego di un tempo che urlava come una furia ai margini del campo.
“Te l’ha detto, Yukari, che non riusciamo a trovare le candeline?” Le sue sopracciglia si corrugano delicatamente, mentre i suoi occhi nocciola si posano sulla Nishimoto in cerca di conferma.
“Sì, gliel’ho detto e l’ho anche trascinato qui per aiutarci a cercarle, visto che era in giro a far niente e non ricordava dove le avesse messe. Forza Taki-kun, datti una mossa, non abbiamo molto tempo. Intanto io preparo i piatti.” Yukari mi molla un pizzicotto sul braccio e si mette all’opera, mentre Sanae mi si avvicina perplessa.
“In giro? Non eri con Makoto-chan?” chiede preoccupata. “Come sta?”
“L’ho lasciato con Misaki-kun” rispondo, facendo spallucce. “Ed è stato meglio così, altrimenti avrei finito con l’ammazzarlo. Mi ha fatto proprio perdere la pazienza.”
“Sei troppo severo con tuo fratello” replica la mia amica, mettendosi le mani sui fianchi e fissandomi seria. Il sorriso gentile è scomparso dalle sue labbra. “Lo sei sempre.”
Cazzo, mi sembra di sentir parlare Teppei, anche lui mi ripete in continuazione la stessa cosa. Ma sono davvero così terribile? A me non sembra proprio. Piuttosto è il moccioso a essere insopportabile. E’ sempre tra i piedi a rompere le scatole e io voglio diventare un calciatore professionista, non un babysitter.
“Severo? Io severo?” faccio eco spalancando gli occhi. “Dici così perché non hai la più pallida idea di quanto l’abbia fatta grossa.” Scuoto la testa e la guardo, a mia volta, con aria tetra. Lei non può capire, non sa quanto siano tesi i rapporti tra me e mia madre. In più, stasera, la cara mammina avrà anche l’appoggio di mio padre e non so davvero come potrebbe andare a finire, perché se mi riattacca il solito pippone sul calcio, stavolta non sarò proprio in grado di trattenermi e litigheremo di brutto, ne sono certo come del sorgere del sole a est.
“E’ solo un ragazzino. Perché ce l’hai con lui?” La manager si sporge decisa verso di me e, per un attimo, ho l’impressione che alla sua immagine attuale si sovrapponga quella di una bambina scalmanata, con l’hachimachi rosso sulla fronte e la divisa blu con i bottoni dorati.
Perché è nato soltanto per crearmi problemi? Mi verrebbe da chiederle, ma poi decido di soprassedere. Non ho nessuna intenzione di impelagarmi in una discussione su Makoto, per stasera ha già fatto sufficienti danni e ho ben altri pensieri in mente ai quali dedicare le mie energie.
“Ho esagerato, hai ragione” mormoro, alzando le mani in gesto di resa. “So quando è il momento di gettare la spugna e so che non uscirei  mai vittorioso da uno scontro con Anego.”
L’appellativo e il sorriso strafottente con cui lo accompagno, strappano un sonoro sbuffo alla manager, che socchiude minacciosamente le palpebre e mi intima secca, agitando l’indice della mano: “Trova immediatamente quelle candeline, Taki-kun, altrimenti sono guai. E non chiamarmi Anego!”
Sì, giusto, le candeline. Meglio che mi affretti, così poi sarò libero di andare a cercare il desaparecido Teppei e fare quello che devo fare.
Tentando di far mente locale, apro tutti i cassetti della cucina e sbircio dentro, senza, tuttavia, trovare alcunché. Il fatto è che non sono stato io a comprare le candeline ma mia madre. Gliel’ho chiesto ieri come favore quando, nel pomeriggio, si è recata al market per fare acquisti. Io avevo gli allenamenti e non sarei potuto andare.
“Dove mi ha detto di averle messe?” mormoro tra me e me, mordicchiandomi il labbro inferiore, mentre nella mia testa scorrono, come tanti fotogrammi, i ricordi del suo rientro a casa: le buste della spesa, la cucina, il frigo aperto. Passo in rassegna ogni singola immagine finché, finalmente, rivedo il pacchetto nella sua mano e…
“Ma certo!” esclamo a voce alta, dandomi una manata sulla fronte. “Sono nel centrotavola, la mamma le ha riposte lì perché le avessi a portata di mano. Dove lo avete messo?” chiedo a Sanae, girandomi verso di lei.
La manager scuote la testa in un gesto di diniego, facendo ondeggiare i capelli, e lancia un’occhiata interrogativa all’altra ragazza.
“L’ho poggiato su quel ripiano” ci informa la Nishimoto, indicando con il dito il granito sommerso dai sacchetti di patatine. “Ora che ci penso ho visto una bustina dentro la ciotola, ma non ho controllato cosa contenesse.” Raggiunge me e Sanae davanti al bancone per aiutarci a recuperare il centrotavola.
“Eccolo!” Sanae sposta l’ultimo sacchetto di noccioline e prende il piccolo involto. Subito scarta il pacchetto, facendo frusciare la sottile carta velina.
“Occazzo!” Prima che riesca a trattenermi la parolaccia sfugge dalle mie labbra. “Scusate” mormoro meccanicamente all’indirizzo delle due ragazze, che, dopo aver guardato le candeline, hanno simultaneamente alzato gli occhi su di me e mi stanno fissando con una strana espressione. Ma non è la mia imprecazione l’oggetto del loro stupore. Certamente, non lo è del mio.
Dannazione! Stasera non ne va proprio bene una. Ma cos’è? Una congiura? Sembra quasi che la mia famiglia abbia complottato alle mie spalle per mandarmi la serata a rotoli. E ora che faccio?
“Cosa c’è che non va?” chiedo, facendo appello alla mia migliore faccia tosta, anche se sono perfettamente consapevole di cosa c’è che non va. Quelle candeline non vanno!
“Uh? Nulla. Allora… uhm… la mettiamo?” Dal tono soffocato con cui sta parlando, capisco che Sanae, benché provi a far finta di nulla, sta trattenendo a stento le risa.
“E’ solo uno scherzo” tento di difendermi. Ormai la frittata è fatta, quindi non mi resta che salvarmi in corner, buttandola sul gioco. E negando l’evidenza. Negare sempre negare. A oltranza!
“Certo, certo.” Non riuscendo più a restare seria la Nishimoto scoppia a ridere e sento il mio viso prendere fuoco. E’ evidente che non l’hanno bevuta e si sono accorte che la mia sorpresa è stata pari alla loro.
Oh! Ma io la ucciderò, eh? Giuro che ucciderò mia madre dopo aver ammazzato Makoto - visto che ci sono faccio fuori anche lui -. Come ha potuto farmi una cosa del genere? Solo lei poteva comprare al posto di due stupide candeline con degli stupidissimi numeri, un’unica candela sulla quale è raffigurato un orsetto rosa che tiene in mano un cartello con su scritto: ‘Sei il mio amichetto del cuore. Tanti auguri’!
Sì, non c’è altra soluzione per ristabilire il mio onore. Ucciderò mia madre a mani nude colpendo il suo punto segreto, nella migliore tradizione della Divina Scuola di Hokuto.
Senza dire altro, anche perché c’è poco da dire – la sepoltura del mio orgoglio richiede un ossequioso silenzio - osservo Sanae collocare quella scemenza immane sulla torta. E sono talmente spiazzato dalla situazione, e imbufalito, che non mi sfiora minimamente il cervello l’idea di vietarle di usare quell’oscena candela. Se fossi più presente a me stesso tirerei su le barricate pur di impedire alla manager di portare quella torta in salotto e non fare la figura di merda che, sicuramente, farò di fronte a tutti i nostri compagni. Ma il mio cervello arranca come un motore ingolfato e quando finalmente riparte ormai non c’è più nulla da fare.
“Direi che siamo pronti” ridacchia la Nishimoto, riprendendo a sistemare i piatti di plastica, e mentre Sanae, con un sorrisetto appena accennato, inizia a tirar fuori i tovaglioli di carta, decido che è tempo di battere in ritirata, portandomi dietro i brandelli della mia stracciata dignità. Altro non mi è rimasto.
“Hajime! Finalmente ti ho trovato. Ma che fine avevi fatto? Ti ho cercato ovunque!”
La voce che ho ansiosamente sperato di sentire per buona parte della serata, mi fa girare di scatto verso la porta.
Ed eccolo Teppei, il mio migliore amico, fermo sulla soglia della cucina, con una mano poggiata sullo stipite e l’altra mollemente infilata nella tasca dei jeans neri. Un allegro sorriso gli illumina il viso e le sue iridi cioccolato, bordate da lunghe ciglia nere, scintillano vivaci. Sento le labbra tendersi automaticamente nel ricambiare il sorriso e mi soffermo un istante a osservare i suoi lineamenti che mi sono familiari quanto e più dei miei. E il mio sorriso si allarga nel pensare a come si irrigidiscono quando scherzando lo prendo in giro, dicendogli che i suoi occhi sembrano quelli di una ragazza. So che la cosa non gli va giù, che si sente colpito nella sua virilità, ma provocarlo è così divertente che non riesco a farne a meno. E anche se per questo motivo finiamo quasi sempre per azzuffarci, non litighiamo mai sul serio. L’ultima volta è finita a gavettoni: ci siamo tirati tanta di quell’acqua che, alla fine, il suo giardino sembrava una palude.
“Tu mi hai cercato? Io ti ho cercato! E senza trovarti. Dove diavolo eri?” ribatto, avvicinandomi a lui e dimenticando, all’istante, Makoto, la candelina con l’orsetto e tutte le mie pippe mentali. La sua presenza ha questo effetto su di me: è capace di calmarmi e mettermi a mio agio. Ora che ce l’ho davanti, mi sembra di aver esagerato nel farmi tanti problemi e mi sento un vero idiota ad aver dubitato di lui. Teppei è la persona più leale che io conosca. E’ sempre stato sincero con me, mi ha sempre fatto notare quando sbagliavo e non ha mai lesinato critiche o rimproveri quando è servito. E, soprattutto, non mi ha mai lasciato in mezzo ai guai. Per dirne una, in quarta elementare si è addirittura autodenunciato per uno scherzo che avevamo architettato insieme. Io ero stato beccato e lui no. Avrebbe potuto farla franca ed evitare il castigo, perché non avevo fatto il suo nome, ma lui non ha voluto lasciarmi solo e ha rivelato di essere stato mio complice. Così siamo stati puniti entrambi. E quando gli ho fatto notare che era stato stupido a confessare, mi ha detto che, qualunque cosa fosse successa, non mi avrebbe mai e poi mai abbandonato. Mai.
“Kisugi-kun, esci immediatamente da qui! Taki-kun fallo uscire!” Sento le mani della Nishimoto spingermi sulla schiena, verso Teppei, e assecondo il movimento, perché portarlo via dalla cucina, stare solo con lui e parlare di quello che mi sta a cuore è l’unica cosa che voglio veramente. Non c’è nulla che desideri di più del sentire la sua voce rassicurarmi e promettermi di rimanermi sempre amico, come ha fatto tante volte in questi anni quando ne facevo una delle mie, che il mio è solo un momento di confusione che… che… non gli faccio… no… non ho nemmeno con me stesso il coraggio di ammettere cosa io tema veramente.
“Tranquilla, ci penso io” dico sforzandomi di comportarmi normalmente e così ammicco a Teppei, che ridacchia divertito. E vedere i suoi denti snudarsi in un ampio sorriso, mi fa già sentire più leggero.
“Il festeggiato non può vedere la torta?” mi chiede a bassa voce per non farsi udire dalle due manager, precedendomi fuori dalla cucina.
Sogghigno, facendo cenno di no con la testa. “Deve essere una sorpresa” rispondo nello stesso tono e lui alza gli occhi al cielo, incamminandosi lungo il corridoio.
“Ma se l’ho portata io! L’avrò vista, no?”
“Che centra! E’ sempre la tua torta di compleanno” replico, con un’evidente mancanza di logica che ferma Teppei di botto, spingendolo a fissarmi interdetto.
Dopo un istante siamo entrambi piegati in due, le mani a tenerci la pancia, e ridiamo come matti. Mentre cerco di riprendere fiato, tra uno scoppio di risa e l’altro, sento la tensione abbandonare del tutto il mio corpo, sostituita da una forte sensazione di benessere. Nessun altro mi fa sentire così; sono convinto che in compagnia di Teppei potrei vivere anche all’inferno e trovarlo un bel posto.
Mi raddrizzo e traggo lunghi respiri per soffocare i singulti, gli addominali indolenziti per il troppo ridere.
E’ il momento. Devo farlo ora.
“Devo parlarti” gli dico, tornando serio. Comunque andrà avrò fatto la cosa giusta e non avrò rimpianti. Nonostante la paura, nonostante tutto. E, anche se le cose dovessero andare male, anche se, da domani in poi, Teppei non dovesse più rivolgermi la parola andrà bene lo stesso. Perché è così che deve essere il nostro rapporto. Sincero e senza ombre. E io gli ho già mentito abbastanza.
Non posso continuare così e non ho un piano B. Tutto o niente. Prendere o lasciare.
“Che c’è? Devi tenermi lontano anche dal salotto?” domanda lui, le labbra arricciate in una smorfia ironica. “Non è che hai intenzione di farmi qualche scherzo strano?” Si guarda animatamente intorno, come se dovesse accadere qualcosa di inaspettato da un momento all’altro. “Lo sai che poi mi vendico, eh?”
“No…” Scuoto la testa e lo prendo per un braccio, costringendolo a girarsi verso di me. “Nessuno scherzo. Io…”
Vedo il suo sorriso svanire e la fronte corrugarsi, l’allegria lasciare il posto allo sconcerto e poi alla confusione. Le sue iridi scure scendono sulle mie dita che stringono spasmodicamente il suo polso e  si soffermano a osservarle, prima di rialzarsi per piantarsi con decisione nelle mie.
Mi manca la voce. Sento la gola secca e deglutisco, distogliendo lo sguardo. Non so perché ma qualcosa nel modo in cui mi sta guardando, nello strano lampo che mi è sembrato di intravedere in fondo ai suoi occhi, mi ha messo di nuovo in difficoltà.
Tutto a un tratto ho la sensazione che Teppei sia già a conoscenza di ciò che devo dirgli. Come se… come se non aspettasse altro. E quel senso di attesa che mi sembra di percepire in lui mi tronca il respiro. Mi inumidisco le labbra e mi sforzo di riprendere a respirare normalmente. Facendo appello a tutto il mio coraggio torno a incrociare i suoi occhi, che mi restituiscono uno sguardo limpido e senza ombre: nessun luccichio strano, nulla che confermi la mia impressione. Devo essermi sbagliato. Il sospiro di sollievo che mi sfugge dalle labbra  è quasi un ruggito. E non so nemmeno io perché mi senta sollevato, forse perché il solo pensiero che lui abbia intuito tutto e continui a parlarmi, a starmi vicino, è meraviglioso e terrificante al tempo stesso. Meraviglioso perché potrebbe significare che, nonostante tutto, vuole rimanermi amico, terrificante… per lo stesso motivo. Aprirebbe la porta a una serie di possibilità a cui ora non voglio e non posso pensare, per non illudermi troppo.
Gli volto le spalle e riprendo a camminare. La voglia di chiarire tutta questa situazione si è fatta incontenibile e sento l’impazienza tornare a pungolare i miei nervi, già tesi come corde di violino.
“Andiamo nella mia stanza. Lì nessuno ci disturberà.”
A costo di chiuderci dentro a chiave non permetterò a nessuno di interromperci, terrò lontani tutti i rompicoglioni che stasera sembrano spuntare ovunque, come la fottuta alga nori.
“Taki-kun! Ehi Taki-kun, aspetta!”
Ecco. Appunto.
Cosa avevo detto a proposito dei rompicoglioni?
Ci mancava solo Ryo Ishizaki, la causa di tutti i miei guai, per fare bingo. Lo ignoro e accelero il passo, anche se so che non potrò sfuggirgli né nascondermi, insieme a Teppei, da nessuna parte.
E infatti.
“Taki-kun, ma dove scappi?”
“Hajime, Ishizaki-kun ti sta chiamando!”
Le due voci si sovrappongono, impedendomi ogni tentativo di fuga. Potrei far finta di essere diventato improvvisamente sordo e procedere verso la mia camera come un panzer tedesco, ma sono certo che non ci crederebbe nessuno. Con un sospiro esasperato mi volto. Il mio livello di incazzatura ha raggiunto il limite massimo - se fossi un fumetto sopra la mia testa lampeggerebbe la scritta “alert” - ed è con uno sforzo immane che riesco a trattenermi dal mettere le mani intorno al collo di Ishizaki. In questo momento, se l’ammazzassi, non proverei il benché minimo rimorso. E avrei tutte le giustificazioni di questo mondo perché l’idea della festa, e quindi la responsabilità di questa cazzo di serata, è sua, non mia.
“Che altro c’è ora?” ringhio, fulminandolo con lo sguardo. Se se ne esce ancora con una delle sue boiate giuro che l’impicco al primo palo disponibile.
“Ma che ti prende?” mi chiede confuso il numero quattordici, grattandosi i corti capelli neri, evidentemente spiazzato dalla mia brusca risposta.
“Niente” rispondo, trattenendo una rispostaccia tra i denti e passandomi una mano sul viso, nel vano tentativo di placare l’irritazione. “Allora?”
Dopo aver lanciato un paio di rapide occhiate a me e Teppei, nelle quali leggo la divorante curiosità di indagare sui motivi del mio evidente nervosismo e che provvedo a bloccare socchiudendo minacciosamente le palpebre, Ishizaki si stringe nelle spalle e decide di farsi i cazzi suoi.
“Takasugi-kun chiede se puoi andare da lui. Credo che voglia portare Hiroshi-chan a casa.”
No, stasera non è proprio la mia serata. Forse qualcuno, lassù, sta cercando in tutti i modi di dissuadermi dal procedere con i miei piani, perché una tale serie di contrattempi non sono umanamente possibili. E’ assurdo. Tutta questa situazione è assurda.
Abbasso lo sguardo e fisso il pavimento per qualche istante, sperando che dal mio viso non traspaia la frustrazione che sto provando; quando lo rialzo i miei occhi cercano, senza che me ne renda conto, quelli di Teppei. E di nuovo mi sembra di vedere lo strano luccichio in quel velluto color cioccolato quando mi dice, con un accenno di sorriso rassegnato, intuendo la mia riluttanza ad andarmene “Stai tranquillo, non mangerò la torta senza di te. Ti aspetto”, che interpreto come un “Parleremo più tardi, quando saremo soli.”
Chiedendomi se due impressioni possano rendere tangibile qualcosa o sono solo il doppio parto di una fantasia malata, annuisco e con un sospiro di stanchezza giro sui tacchi, seguito a ruota da Ishizaki che, come una scimmia curiosa, mi saltella intorno, senza avere, però, il coraggio di chiedere nulla.
Kamisama, spero che questa maledetta serata finisca al più presto, perché, se continua così, dubito che riuscirò a sopravviverle.
E pensare che nei miei piani doveva essere totalmente diversa; non è in questo modo che l’avevo programmata. Avremmo dovuto essere soltanto io e Teppei, come negli anni scorsi. E’ così che abbiamo sempre festeggiato i nostri compleanni: da soli. E’ una specie di tradizione che abbiamo instaurato in prima elementare, quando lui ha preso la varicella e io sono andato a trovarlo. Non ci conoscevamo ancora benissimo, eravamo in squadra insieme soltanto da un paio di mesi, ma ricordo che fu veramente contento di vedermi. Nessuno dei nostri compagni era andato a fargli visita, perché nessuno di loro, tranne me, aveva avuto la varicella. Abbiamo passato un pomeriggio fantastico, ridendo e scherzando tutto il tempo. Ero meravigliato ed entusiasta, mai avrei pensato di trovare qualcuno con cui andare così d’accordo e con cui avevo tanto in comune. E quando mia madre è venuta a prendermi, dopo aver ingurgitato tanta torta da scoppiare, non avrei voluto andare a casa. Poi, quando Teppei, una volta guarito, è tornato a scuola, siamo diventati inseparabili.
Siamo entrambi convinti che sia stato quello il momento in cui è iniziata la nostra grande amicizia.
E ora… io sono qui, a occuparmi di mocciosi svomitazzanti, mentre Teppei è in salotto. E’ il suo compleanno e, per la prima volta in tanti anni, non lo stiamo passando insieme, cazzo!
Mi sono fatto fregare come un idiota; ma come potevo sapere, quando ho tirato fuori l’argomento, che non eravamo soli come credevo?
Avevamo finito tardi gli allenamenti quel giorno e, dopo aver fatto la doccia ed esserci rivestiti in fretta, avevamo lasciato gli spogliatoi diretti a casa. Il sole stava iniziando a tramontare, tingendo i tetti delle case e l’acqua del fiume di un caldo colore arancio. Camminavamo pigramente e senza fretta, le borse a tracolla che dondolavano contro le nostre cosce e le mani in tasca, godendoci la fresca brezza della sera e la reciproca compagnia. Teppei commentava gli schemi provati in campo e io intervenivo di tanto in tanto ma, benché la mia voce rispondesse a tono, il mio cervello era come scollegato dalla realtà, perso dietro ai soliti, claustrofobici pensieri. Per sfuggire a quel continuo martellare che non mi dava tregua, avevo deciso di concentrarmi su qualcos’altro.
“Cosa facciamo per il tuo compleanno?” avevo chiesto, fermandomi e girandomi a guardarlo.
Teppei mi aveva fissato, perplesso per il repentino cambio di argomento. “A pranzo sarò impegnato con i miei, vogliono provare quel nuovo ristorante che ha appena aperto in centro, ma per cena sarò tutto tuo” aveva risposto alla fine, sorridendomi.
Mio! Quella parola mi aveva investito con una violenza tale da lasciarmi senza fiato. Avevo boccheggiato per qualche secondo, come un pesce fuor d’acqua, cercando di recuperare un minimo di sangue freddo, ma senza successo. 
Mio! Non avrei mai pensato che due semplici sillabe avrebbero potuto mettermi letteralmente K.O. Improvvisamente avevo sentito un caldo pazzesco, come se ogni più piccola parte del mio essere avesse preso fuoco e avevo dovuto far appello a tutte le mie forze per ricacciare indietro l’eccitazione che si era impadronita di me. Istantaneamente avevo preso la decisione di rivelargli tutto la sera del suo compleanno. Non so perché avessi scelto proprio quel giorno, non è da me arrovellarmi troppo sulle cose come sto facendo  in questo momento. So solo che mi era sembrato giusto e questo mi bastava.
“Bene” avevo detto con voce incerta, superandolo e riprendendo a camminare velocemente, in modo che non vedesse il mio turbamento. “Andremo a mangiare il sushi e i tuoi amati mochi al thè verde ripieni di crema al mascarpone. Che ne dici?” avevo concluso, recuperando un minimo di padronanza sulle mie emozioni.
Ma un’altra voce aveva risposto al posto di Teppei e mi ero bloccato sul posto, come se mi avessero tirato addosso una secchiata d’acqua gelata.
“Ma che modo schifoso di festeggiare un compleanno! E poi… siete forse due fidanzatini che volete stare soli? Ragazzi! Siamo al terzo anno di liceo! E’ l’ultimo anno che passiamo insieme, dobbiamo festeggiare alla grande. Qui ci vuole una festa!”
Mi ero girato di scatto, incredulo, per trovarmi davanti Ryo Ishizaki. Non solo era comparso dal nulla, intromettendosi in discorsi che non lo riguardavano, ma aveva anche circondato il collo di Teppei con un braccio e stava facendo progetti sulla nostra serata con un sorriso idiota che mi aveva fatto prudere le mani.
Avrei dovuto accopparlo in quel momento. Se ne fanno di errori eh?
“Inviteremo tutta la squadra, le manager, le loro amiche, i nostri compagni di classe. Sarà una festa fantastica. Useremo la tua casa, Taki-kun, così Kisugi-kun non dovrà sbattersi per stare dietro agli ospiti e potrà divertirsi!”
Non ero riuscito a interromperlo, non me ne aveva dato modo e in men che non si dica aveva organizzato tutto, mettendo subito al corrente dei suoi progetti il resto della squadra che ci aveva appena raggiunto. Prima che me ne rendessi conto, i miei piani per il compleanno di Teppei erano stati completamente stravolti e non avevo potuto fare altro che dare il mio consenso per la fottutissima festa.
Pentendomene poi amaramente.
Sopprimo un mugugno di sconforto e mi massaggio la nuca per cercare di alleviare la tensione. A che serve continuare a rimuginarci sopra? Non solo è inutile ma anche stupido, le cose non cambieranno comunque. Sono totalmente in balia degli eventi e non posso fare altro che tenermi a galla e navigare a vista, sperando di non affondare, anche se la mia nave assomiglia in modo impressionante al Titanic.
Nel frattempo io e Ishizaki abbiamo raggiunto il piano superiore dove ci imbattiamo in Taro Misaki che sta uscendo dalla camera di mio fratello.
“Ho accompagnato Makoto in camera.”
“Hai portato Makoto a letto?”
Le nostre voci si scontrano a mezz’aria, sovrapponendosi l’una all’altra. Misaki si interrompe e io annuisco, facendogli cenno di proseguire.
“Sì. Dopo averlo aiutato a ripulirsi l’ho portato in camera sua e l’ho messo a letto. Si è addormentato subito e credo che dormirà fino a domattina” mi informa, sorridendo nel suo solito modo pacato.
“Ti ringrazio, Misaki-kun.” Mi inchino, riconoscente. Misaki è stato veramente gentile a occuparsi di mio fratello. “Non sai che gran favore mi hai fatto. Mi sei stato di grande aiuto. Inoltre sei intervenuto al momento opportuno, stavo per suonargliele di santa ragione” concludo con un sorriso imbarazzato. Inutile che lo nasconda, sono sicuro mi si leggesse in faccia che morivo dalla voglia di prendere Makoto a calci in culo.
“Non preoccuparti” mi conforta lui, stringendomi una mano sulla spalla. “Capita a tutti di perdere la pazienza. L’importante è che non sia successo nulla di grave. Avrebbe potuto sentirsi male sul serio.” Scuote la testa, e io mi sforzo di non pensare a cosa sarebbe potuto accadere se non mi fossi accorto di nulla. Ci mancava solo una corsa all’ospedale per rendere la serata indimenticabile.
“Be’, fortunatamente non è successo” si intromette Ishizaki agitando una mano in aria. “Ed è sicuro che in questo modo hanno imparato la lezione. Sono solo dei bambini” conclude con aria saputa, annuendo con vigore. 
Io e Misaki ci scambiamo uno sguardo d’intesa prima di girarci verso di lui. Misaki lo guarda scettico e io lo fisso a mia volta, incrociando le braccia.  
“Non mi sembra che tu la lezione l’abbia imparata, però, e non sei più un bambino. Quante volte ti sei ubriacato? E quante volte hai vomitato? Te lo devo ricordare?” chiedo mellifluo, socchiudendo le palpebre. Non dovrei star qui a perdere tempo, ma non posso perdere l’occasione di coglionare un po’ Ishizaki, non dopo quello che mi ha fatto.
“E’ successo solo quattro volte!” si difende subito lui, alzando le mani davanti a sé, come a fermarmi.
“Ehm… veramente… cinque” afferma Misaki con nonchalance, facendo cadere il numero come per caso.
“Ma una di quelle volte non conta! Faceva parte di una scommessa!” si giustifica Ishizaki con veemenza e a me viene da ridere nel ripensare a lui e Urabe seduti in terra e circondati da lattine di birra. Non ricordo il motivo della scommessa, però ho ben impresso in mente quanto sono stati male dopo.
“Scommessa o no, avresti dovuto saperlo che dopo saresti stato male, no? Eppure…” infierisco, implacabile.
Misaki non parla ma il suo sguardo, puntato sul difensore, è eloquente. 
Gli occhi scuri di Ishizaki fanno più volte la spola tra me e il centrocampista, come a cercare un appiglio al quale aggrapparsi per trarsi fuori d’impaccio.
“Oh! Ma insomma!” sbotta alla fine, visibilmente alle strette. “Piantatela di prendermi in giro voi due!” e ci volta le spalle, indispettito.
Rivolgo un ghigno silenzioso a Misaki che ricambia, strizzandomi un occhio e facendo spallucce. “Ti conviene raggiungere gli altri giù” gli dico, mentre il divertimento per quello scambio di battute scivola via, sostituito di nuovo dal cattivo umore. “Noi stiamo andando da Takasugi-kun. Credo se ne voglia andare.”
“Vorrà portare a casa Hiroshi-chan” annuisce, l’espressione di nuovo seria. “Anche lui non sta messo meglio di Makoto-chan.” Sposta gli occhi sulla porta della camera di mio fratello e corruga la fronte. “Domattina avranno tutti e due un bel mal di testa e lo stomaco sottosopra.”
“L’hai visto?” gli chiedo, attirandomi di nuovo la sua attenzione.
“Sì, mi sono affacciato quando ho portato su tuo fratello” conferma, tornando a guardarmi. “Anche Takasugi-kun era piuttosto arrabbiato.”
“E ci credo!” esclamo, alzando gli occhi al cielo. “E’ il minimo! Dubito che anche lui sia stato contento di fare l’infermiere stasera.” Mi giro verso Ishizaki, che ci sta osservando in silenzio da sopra la spalla, deciso a chiudere la pratica mocciosivomitosirompicoglioni al più presto. “Andiamo” gli dico, pungolandogli la schiena con un dito. “Grazie ancora, Misaki-kun, ti devo un favore.” Sorrido al gesto noncurante con cui il centrocampista liquida la faccenda. Misaki è davvero in gamba e io sono contento di essere suo amico.
“Io e Ishizaki-kun vi raggiungeremo tra poco, il tempo di salutare Takasugi-kun.”
“Ok vi aspetto di sotto.” Alzando la mano per salutare, il numero undici della Nankatsu si avvia giù per le scale mentre io e Ishizaki raggiungiamo il mio ex compagno della Shutetsu.
“Eccoci.” Ishizaki apre la porta del secondo bagno e mi precede all’interno.
Sento la mascella cadere a terra non appena varco la soglia.
Il bagno è ridotto in condizioni pietose. Ci sono schizzi di vomito ovunque che Takasugi ha cercato di ripulire con la carta igienica, con il risultato che ora parecchi frammenti di carta sporca sono sparpagliati per tutto il pavimento. Lui è in piedi e tiene una mano sulla spalla di Hiroshi, che è seduto sul water, accasciato su se stesso come una bambola di stracci. Misaki aveva ragione, è ridotto male quanto Makoto.
Se potessi girare i tacchi e lasciare la stanza, scenderei le scale e prenderei Teppei per portarlo via da qui, in un posto dove poter stare finalmente soli; purtroppo, però, non posso mollare tutto se voglio continuare a chiamare questo posto ‘casa’. E, almeno per un altro anno ancora, sono costretto a farlo. Se me ne andassi lasciando questo disastro, mia madre mi caccerebbe davvero. Così cerco di fare buon viso a cattivo gioco e reprimo la voglia che ho di spaccare tutto in mille pezzi.
“Taki-kun, mi spiace molto…” Distolgo lo sguardo dal macello che mi circonda per alzarlo su Takasugi, che mi sovrasta di parecchi centimetri. La sua espressione oscilla tra l’imbarazzato e l’incazzato e non posso dargli torto, lo capisco bene. Ce l’ho anche io, purtroppo, un fratello coglione. Credo che se fossi stato costretto a tirarmi dietro mio fratello a una festa, per poi ritrovarmi in una situazione del genere, l’avrei ammazzato. Già così mi ha fatto imbestialire, e siamo a casa nostra, figuriamoci se avesse fatto una cosa del genere in casa altrui.
“Mi spiace per questo disastro, ho cercato di pulire però…” allarga le braccia come a dirmi ‘porta pazienza, ho fatto del mio meglio’ e io sospiro per la milionesima volta, prima di fare cenno di no con la testa.
“Non preoccuparti, penseremo noi a mettere a posto.” E con noi intendo io e Ishizaki. Non penserà certo di scamparla il furbone, perché non lo lascerò andare; a costo di chiuderlo dentro a chiave resterà qui, a pulire, con me. Con la coda dell’occhio lo vedo, infatti, girarsi di scatto verso di me e strabuzzare gli occhi, agitare freneticamente le mani e poi iniziare lentamente a indietreggiare.
Fulmineo allungo un braccio e l’afferro per il golf quando ha già la mano sulla maniglia, sventando il suo tentativo di fuga. Fregato! Ora non andrà da nessuna parte. Per precauzione lascio la maglia per imprigionargli il polso in una morsa ferrea.
“Non preoccuparti, Takasugi-kun, puliremo noi, vero, Ishizaki-kun?” chiedo, lanciandogli un’occhiata inflessibile e intensificando la presa. Ignoro il suo verso di sgomento e abbasso gli occhi su Hiroshi che appare assente e totalmente indifferente ai nostri discorsi.
“Ce la fai a portarlo via?” Pur non avendo la stazza del fratello maggiore, Hiroshi non è certo un fuscello e anche se ha meno anni di me mi sovrasta già in altezza. Non ha nulla in comune con Makoto, che al confronto è uno scricciolo, se non l’età e la stessa insopportabile capacità di essere sempre tra i piedi a rompere le balle.
“Sì, nessun problema.” Takasugi annuisce e a dimostrazione che le sue non sono solo parole, con una sola mano tira in piedi il fratello che barcolla, prima di finirgli addosso con tutto il peso. Vedo il mio compagno grugnire e passargli un braccio intorno alla vita, in modo da sostenerlo agevolmente. Mi guarda  e piega la testa, facendo un cortese inchino.
“Non preoccuparti. Dico davvero” ripeto, e lo penso sul serio. Takasugi è un compagno fidato e un amico sincero, il quarto Shutetsu nella Nankatsu; in tutti questi anni di esperienze condivise ho capito che ha un gran cuore anche se non lo dà a vedere e so che è veramente dispiaciuto per l’accaduto. Così non me la sento di infierire, anche se non ho nessunissima voglia di pulire questo schifo. Già ho dovuto sorbirmi il vomito di Makoto, figurarsi quanto mi sorrida l’idea di restare qui a sistemare. C’è una puzza terrificante e sto facendo uno sforzo sovraumano per non vomitare a mia volta.
“Puoi fare gli auguri a Kisugi-kun anche da parte mia?” domanda Takasugi, trascinando di peso il fratello verso la porta. “Digli che mi spiace tanto e che mi scuso. Per tutto. E anche tu. Scusa ancora per il macello che ha combinato mio fratello.”
“Ti ho già detto di non preoccuparti, e poi non è stata tutta colpa sua. Makoto è responsabile come e più di lui. Stai tranquillo” lo rassicuro, dandogli una pacca sulle spalle quando mi passa vicino per uscire dal bagno. “Riferirò il tuo messaggio a Teppei.”
“Sbrighiamoci va…” mormoro all’indirizzo di Ishizaki, una volta rimasti soli mentre prendo il necessario per le pulizie. Non mi solleva nemmeno il pensiero che la causa di tutti i miei guai sia costretta, insieme a me, a pulire.
“Ma dobbiamo farlo proprio noi?” si lamenta Ishizaki. “Non sarebbe meglio chiamare Yukari e Sanae?”
Gli lancio un’occhiata da sopra la spalla e lo vedo osservare con aria disgustata i frammenti di carta sporca. Ripensandoci… forse… potrebbe anche essere che in un remoto angolino del mio cuore io provi piacere nel vederlo così nauseato. Ok, niente forse e quell’angolino non è poi così remoto ma - diamine! - ho bisogno di un minimo di gratificazione.
“No” rispondo lapidario, rivolgendogli un sorrisetto malevolo e, ignorando le sue suppliche, gli indico con un gesto della mano l’armadietto dietro di lui. “Lì ci sono scopa, paletta e spazzolone. Ho già preso strofinacci e detersivi. Occupati del pavimento, io penso ai sanitari.” Borbottando come una pentola in ebollizione il mio compagno inizia a spazzare mentre io affronto il water. Meglio iniziare subito dalla parte peggiore.
“Cos’è questo vociare? Lo senti?” Ishizaki si ferma e tende l’orecchio. “Stanno cantando! Senti? Cantano ‘Tanti auguri’! Taki-kun, stanno per tagliare la torta Andiamo anche noi, finiremo dopo qui! Se arriviamo tardi non ne troveremo nemmeno una briciola, quelle cavallette se la finiranno tutta! Ti preeeeeeeeeeego.”
E no! Pure la lagna no, eh?
“Vai, se proprio vuoi. Finisco io qui.”
Non se lo fa ripetere due volte e infila la porta di gran fretta. Rimasto solo mi guardo intorno. Il grosso del lavoro è fatto, resta solo da lavare il pavimento che liquido con poche passate di straccio.
E anche questa è andata. Spengo la luce e mi avvio lungo il corridoio, passando frettolosamente davanti alla stanza dei miei genitori. Forse, tutto sommato, non è stato male non essere presente quando quella dannata cand…
Fermi tutti!
Cos’è quella luce che proviene dalla porta socchiusa? I miei sono già tornati? Che strano… il musical finiva piuttosto tardi. Merda, spero che la mamma non sia entrata in cucina prima di salire. Faccio dietrofront e apro la porta, aspettandomi di vedere il viso incazzato di mia madre per il casino al piano di sotto. Invece lo spettacolo che mi trovo davanti mi lascia senza parole.
Sul letto ci sono Shun Nitta e una ragazza del mio stesso anno, di cui non ricordo il nome, avvinghiati l’uno all’altra come due piovre. E, da come sono mezzi svestiti, credo che siano chiusi qui già da un bel po’.
E bravo Nitta! A quanto pare sa come divertirsi. Sarà anche il più piccolo della squadra ma sembra che sull’argomento sia parecchio avanti rispetto a molti di noi. A Ishizaki sicuramente.
“Shun! Shun! Fermati!” Per fortuna la ragazza si accorge di me, evitandomi di dover fare la parte del guastafeste interrompendo il loro piccolo party privato. Scosta la testa dell’altro dal suo seno, di cui non posso fare a meno di notare le dimensioni, e salta giù dal letto, iniziando freneticamente a rivestirsi mentre Nitta, al contrario, si siede con calma e mi guarda con aria tra l’incazzato e l’arrapato. Mi schiarisco la gola e mi stringo nelle spalle, trattenendo a stento una risata.
“Se ne avete voglia giù stanno mangiando la torta” li informo fingendo indifferenza e accosto la porta per dare loro tempo di riordinarsi senza il mio sguardo addosso. Mi dispiace ma non posso andarmene facendo finta di nulla. Spero che Nitta lo capisca anche se nel mio intimo sogghigno al pensiero della faccia che avrebbe fatto mia madre nell’entrare in camera. Sai le urla!
“Scusa, Taki-kun.” La ragazza sguscia fuori dalla stanza a testa bassa, le guance scarlatte. Senza aspettare il suo cavaliere si affretta giù per le scale mentre io mi ritrovo davanti il volto scazzato del mio compagno di squadra.
Sollevo un sopracciglio e lo fisso a mia volta. “Cazzo, Nitta-kun è la stanza dei miei. Un po’ di rispetto…” gli dico senza troppa convinzione e sicuramente senza l’intenzione di rimproverarlo.
“Potevi chiuderla se non volevi che nessuno ci entrasse!” ribatte Nitta, lanciandomi un’occhiata irritata e portando le mani ai fianchi con arroganza.
A quella secca risposta il mio epocale giramento di coglioni, che si era momentaneamente fatto distrarre dalla situazione, torna a riprendersi la scena e Nitta rischierebbe una lezione di buone maniere a suon di pugni se la sua espressione non si facesse di colpo imbarazzata, stroncando sul nascere l’insulto con il quale stavo per sbatterlo al muro.
“Scusami, hai ragione” dice a bassa voce “ma anche tu cerca di capire, ancora poco e…” con un sospiro alza gli occhi al cielo. “E ora invece mi tocca accontentarmi di…” e il gesto con cui accompagna le ultime parole mi strappa, mio malgrado, una smorfia comprensiva. Per quanto il risultato sia lo stesso le due cose non sono certo paragonabili. “Per una volta che c’ero quasi riuscito…” borbotta con un sorriso sconsolato che mette in evidenza i suoi canini appuntiti. “Penso che a questo punto me ne andrò. Buonanotte, Taki-kun e grazie della serata anche se poteva finire meglio.”
Mentre si avvia verso le scale lo vedo portare più di una volta la mano al cavallo dei pantaloni per alleviare la pressione della stoffa e la mia smorfia si trasforma in un sogghigno. Deve fargli un male cane.
Lascio Nitta alla sua frustrazione e torno a fare i conti con la mia. Entro nella camera per sistemare il letto e controllare se ci sia qualche altra cosa fuori posto ma non mi sembra. Eliminate le tracce del passaggio dei due piccioncini, mi affaccio velocemente anche nelle altre stanze: sia mai che qualcun altro abbia avuto la stessa idea di Nitta. Fortunatamente, non trovo nessuno. Meglio così perché la prossima coppietta non si sarebbe salvata da una raffica di calci in culo. Ecchecazzo! Mi sono strarotto di vedere che tutti si divertono mentre io devo barcamenarmi tra un contrattempo e l’altro. Socchiudo la porta della camera di Makoto e controllo anche lui. Meglio evitare brutte sorprese, l’ultima cosa che voglio è il ritorno del morto vivente mentre sto parlando con Teppei e quello, pur di farmi dispetto, sarebbe capace di smaltire la sbornia all’istante. Il suo respiro regolare mi conferma che sta dormendo profondamente. Perfetto. Spero che mi faccia il favore di rimanere in coma fino a mattina inoltrata. Ma ci spero poco.
Ora che il piano di sopra è stato bonificato imbocco le scale, deciso a concludere la festa. “Tanti auguri” è stato cantato, la torta sicuramente tagliata e mangiata ed è quindi arrivato il momento in cui tutti i cagacazzi se ne vadano felicemente a fanculo lasciandomi da solo con Teppei. Perché lui no, non se ne andrà da questa casa finché io non avrò vuotato il sac…
Eh?!
Ma che diamine… Dove sono andati tutti?
Il piano di sotto è vuoto. Mi guardo intorno. Nessuno nell’ingresso, in salotto o in giardino. Possibile che sia accaduto un miracolo e siano già andati via?
 Mi affaccio in cucina e finalmente trovo qualcuno. Sanae e la Nishimoto stanno finendo di riordinare le cibarie avanzate mentre Ishizaki sta ravanando in una busta di patatine alla ricerca delle ultime briciole.
“Oh Taki-kun, eccoti. Qui abbiamo finito. Se prendi i sacchi della spazzatura ti aiutiamo a sistemare di là.” Sanae mi lancia un sorriso da sopra la spalla ma ripulire la casa è il mio ultimo pensiero, ora come ora.
“Sanae, dove sono tutti?”
“Sono andati via. Inizia a essere tardi e non dimenticare che domani avete l’allenamento.” Chiude l’ultimo pacchetto e si gira per guardarmi mentre la Nishimoto si avvicina a Ishizaki per strappargli di mano il sacchetto vuoto e buttarlo nella spazzatura, ignorando le sue proteste.
Il miracolo si è avverato. Grazie a tutti i Kami!
“E Teppei dov’è? In bagno?” Lo chiedo dando per scontata la risposta affermativa dato che è l’unico posto in cui non ho guardato. Ovviamente mi aspetto che sia ancora in casa visto che mi ha assicurato che avremmo mangiato la torta insieme.
“Anche lui è andato via.”
Cosa? Non è possibile! Sanae si sbaglia.
“Sei sicura?”
“Certo! E’ stato il primo e a quel punto se ne sono andati anche gli altri.”
“Il primo? E dove è andato? Non è che magari è andato a prendere qualcosa?”
“E cosa? E’ avanzato un sacco di cibo, non serviva nulla.”
“E che ne so? Qualcosa!” Non ci posso credere che se ne sia andato senza dirmi niente. Mi passo le mani tra i capelli, non sapendo cosa pensare.
Sanae mi guarda con aria perplessa e io mi allontano di qualche passo, cercando di riprendere il controllo. Deve esserci una spiegazione, non è da lui comportarsi in questo modo.
“Non ha detto perché è andato via così presto?” chiedo in tono più calmo. “Non è che non si sentiva bene?”
“No, Taki-kun, stava benissimo. Mi ha salutato dicendo che ci saremmo visti domani. Ha anche ringraziato tutti per la bella serata. A quel punto Kumi gli ha chiesto se l’accompagnava a casa e se ne sono andati.”
“A me non la racconta giusta! Secondo me voleva festeggiare in privato. Magari proprio con Kumi” se ne esce Ishizaki con un sorriso carico di sottintesi, prima di agguantare una busta piena di patatine e cacciarsene un pugno in bocca.
“Non dire cretinate!” Sanae si volta verso di lui e lo fulmina con gli occhi. Sembra veramente arrabbiata. Anche la Nishimoto inizia a rimproverarlo per la sua stupida uscita togliendogli la busta di patatine.
Quanto a me sono talmente pieno di rabbia che ho voglia di urlare e lo farei se non avessi un groppo in gola che me lo impedisce. Dannazione! Ci si mette anche Teppei adesso? Non posso fare a meno di sentirmi ferito, e tradito, perché aveva detto che avremmo festeggiato insieme. Mi aveva anche rassicurato!
E invece… se n’è andato. Senza salutarmi. Perché?
“Taki-kun… tutto bene?”
Rialzo lo sguardo, Sanae mi sta fissando con la fronte corrugata e io non ho voglia né di dare spiegazioni – cosa potrei mai dirle? Non lo so nemmeno io – né di avere ancora gente intorno. Non l’ho mai voluta questa festa, l’ho accettata solo per Teppei e ora che se n’è andato voglio rimanere solo perché sento di essere pericolosamente vicino al punto di rottura e non so quanto ancora riuscirò a controllarmi.
“Sì, sì.” Liquido la questione con un gesto della mano. Mi guardo intorno. “Senti, Sanae, e la torta?”
“La torta è finita in un lampo, era buonissima. Ho appena gettato la base di appoggio. Oddio, Taki-kun, mi spiace! Mi sono dimenticata di mettertene una fetta da parte. Sono mortificata.”
Ed eccola la classica ultima goccia che fa traboccare il vaso. Niente Teppei e niente torta.
“Non preoccuparti tanto non avevo fame. Senti voi andate pure, ci penso io qui.”
“Sei sicuro? Guarda che per noi non ci sono problemi. In quattro faremo più in fretta e…”
“Si Sanae, sono sicuro. Andate a casa e ancora grazie per l’aiuto.” Mi sforzo di tenere un tono educato ma non posso evitare che il fastidio trapeli. Voglio bene a Sanae ma in questo momento non sopporto nessuno, nemmeno lei, e se non si porta via al più presto Ishizaki giuro su Kamisama che lo prendo a pugni ‘sto stronzo ficcanaso. Lui e le sue trovate di merda!
Forse Sanae intuisce che non è il caso di insistere o forse la mia espressione mostra, dei miei reali sentimenti, più di quel che io pensi perché, dopo avermi lanciato un’occhiata penetrante, raggiunge gli altri due che stanno ancora battibeccando e li trascina via. Li seguo fino alla porta e rispondo con un semplice cenno del capo ai loro saluti.   
Chiudo la porta dietro di loro e su tutte le incertezze in cui mi sono dibattuto negli ultimi tempi. Dopo tanti tentennamenti avevo trovato il coraggio per rivelare tutto a Teppei ma dopo questa sera dubito che lo farò mai e lui non ne saprà nulla.
Stancamente mi siedo sugli ultimi gradini della scala. Poggio gli avambracci sulle ginocchia e fisso, senza realmente vederlo, il pavimento. Finalmente sono solo, libero di sfogarmi, di confessare ad alta voce il peso che mi porto dentro da tanto, troppo tempo.
“Non è così che doveva andare… non è così che avrei voluto che andasse… io volevo solo stare con te. Io e te. Come abbiamo sempre fatto. Ti avrei portato in quel ristorantino sulla spiaggia che ti piace tanto e ti avrei guardato ingozzarti di sushi. So quanto lo adori. Avremmo ordinato tutti i tuoi piatti preferiti: i red hot roll, i niku gyoza e il tori no karaage. E non ti avrei preso in giro, come faccio di solito, per la tua golosità.” Sento le labbra distendersi in un sorriso. “E ti avrei fatto quel regalo che avevo deciso sarebbe stato il tuo da quando il proprietario ci ha detto che con i mochi prepara anche la torta. Una torta di mochi tutta per te Teppei, perché lo so che quella torta l’hai desiderata fin dal primo istante.” Sospiro, lasciando che il sorriso sfumi. Mi guardo le mani e le strofino piano, distrattamente. “Dopo la cena ti avrei portato a passeggiare sulla spiaggia, e lì, con la complicità dell’oscurità - perché sai, parlarti di questa cosa mi spaventa - ti avrei aperto il mio cuore. Ti avrei parlato della confusione di questi ultimi mesi, dei tanti dubbi che mi hanno arrovellato la mente, della paura che spesso mi ha tenuto sveglio la notte. Sì Teppei, paura. Lo so che mi avresti guardato stupito, perché ti dico sempre che non ho paura di niente e in parte è vero, ma in questo caso avrei avuto paura Teppei, una paura fottuta. Hai idea di quanto coraggio mi ci sarebbe voluto per confessarti che sono già diversi mesi che i miei sentimenti per te sono cambiati? Che ormai non sei più soltanto il mio migliore amico ma anche la persona della quale sono perdutamente innamorato? Che la profondità del mio amore per te mi spaventa, perché non ho mai provato dei sentimenti così forti in tutta la mia vita e che al solo pensiero di non vederti più sento il cuore perdere battiti, perché tu sei il motore che lo fa muovere e senza di te non saprebbe come continuare a funzionare?
Hai idea della paura che ho avuto nello scoprirmi attratto anche da un ragazzo? Non so nemmeno come questa cosa influirà sulla mia vita!” La voce mi si incrina quando mi avvicino alla parte più difficile della mia confessione. “Ma il pensiero che più mi terrorizza è il tuo disgusto. Non ho mai sperato di avere il tuo amore Teppei, non mi hai mai dato motivo di credere che provassi per me qualcosa di più dell’amicizia, ma avevo deciso di confidarti tutto proprio in virtù di questa nostra amicizia, che è la cosa più preziosa che ho, perché non vorrei mai, mai, che tra di noi ci fossero ombre. E pur di continuare come è sempre stato, sono disposto a combatterlo questo amore, a cacciarlo via. Volevo solo che lo sapessi, che mi rassicurassi come hai sempre fatto e che mi rimarrai amico. Che non mi allontanerai. Farei di tutto pur di non perderti. Tutto.”
Nascondo il viso tra le mani mentre una lacrima scivola lungo la guancia. Mi sento a pezzi. Svuotato. Logorato nei nervi e nello spirito. E sono talmente immerso nella mia sofferenza da non accorgermi subito che una mano mi ha sfiorato la spalla con un tocco leggero.
Alzo di scatto la testa e spalanco la bocca, perché non riesco a credere ai miei occhi.
In ginocchio davanti a me, con una mano a mezz’aria e l’altra nascosta dietro la schiena, c’è Teppei.
“Io… tu… Sanae ha detto che eri andato via…” gracchio con voce rauca. Tutto mi sarei aspettato tranne che trovarmelo davanti. Da dove è spuntato? Da quanto è qui? Velocemente mi passo una mano sulla guancia per cancellare quell’unica lacrima che non sono riuscito a trattenere. Non voglio che la veda. Nascondo il viso sotto al ciuffo ribelle e assumo una postura eretta, incrociando le braccia, sulla difensiva. Avrà sentito quello che ho detto? La paura mi tronca il respiro. Non è così che doveva andare e non sono pronto ad affrontarlo; non sono preparato a sostenere il suo giudizio. E attaccarlo mi viene naturale come respirare.
“Allora? Te ne sei andato senza dirmi niente. Non merito una spiegazione?” La voce mi esce più secca di quanto vorrei ma sono troppo impegnato a tenere a bada l’agitazione per preoccuparmi del resto, altrimenti mi accorgerei che tra le mille emozioni che stanno passando sul suo viso il rifiuto è l’unica che non compare.
“Sì… in effetti ero andato via…” mormora abbassando la mano e distogliendo lo sguardo. “Ma non ero andato via sul serio.” Da dietro la schiena fa comparire un piatto di plastica contenente una fetta di torta al cioccolato e lo posa sul gradino, calibrando i movimenti come se avesse paura di farlo cadere. Poi si sporge verso di me e mi afferra le ginocchia. Il suo viso si fa vicinissimo, posso sentire il respiro accarezzarmi la pelle. “Davvero Hajime?” chiede immergendo le sue iridi nelle mie. “E’ davvero così?” E avverto urgenza nella sua domanda mentre le dita mi artigliano la carne attraverso il jeans.
“Davvero cosa?” temporeggio per cercare di schiarirmi le idee e capire come comportarmi ma l’averlo così vicino mi sta rendendo le cose difficili. Vorrei distogliere gli occhi ma non ci riesco; sono incatenati ai suoi, alla luce calda e trepidante che brilla tra le lunghe ciglia nere. E quel senso di attesa che durante la serata mi era sembrato di percepire in lui, mi appare ora come qualcosa di tangibile.
“Quello che hai detto… è vero?”
Ormai è evidente che ha sentito tutto, quindi non mi resta che confermare. Annuisco lentamente, preparandomi a… non so cosa, di preciso, ma sicuramente non il suo viso contro il mio collo e le sue mani sul mio petto. All’improvviso me lo ritrovo addosso e la sua reazione mi spiazza, mandando in tilt i miei pensieri, perché tutto mi sarei aspettato tranne questo. E il suo profumo fresco mi avvolge, provocandomi una brusca contrazione allo stomaco che in un attimo si dirama a tutto il corpo, facendomi sentire più vivo che mai.
“Ridimmelo… ” E c’è incredulità nella sua voce mentre le sue dita scivolano dietro la mia schiena e si aggrappano con forza alla maglietta. “Tu non sai Hajime… in tutti questi anni… quanto ho cercato di soffocarlo… la nostra amicizia… non volevo perderla… avevo paura… e non ti ho detto niente… poi… poi mi è sembrato che qualcosa cambiasse… non sai quanto ho sperato…”
Lo circondo a mia volta con le braccia mentre continua con parole soffocate che non riesco ad afferrare ma che mi comunicano lo stesso tutto quello che ho bisogno di sapere. L’importante. L’essenziale. E non è il disprezzo che tanto ho temuto che fa battere il suo cuore all’impazzata, all’unisono con il mio, che sento martellarmi nelle orecchie. La mia mano si muove per conto proprio, risalendo sulla sua nuca e infilandosi tra i riccioli morbidi. Mi chino su di lui, per accarezzare con la guancia la sua tempia. Agisco d’istinto, ancora incapace di realizzare quanto sta accadendo.
“E' tutto vero.” Sospiro sui suoi capelli mentre con l’altra mano percorro la sua schiena in un lento andirivieni. Un senso di completezza che non avevo mai provato prima mi pervade, come se, dopo tanto cercare, una parte perduta di me fosse tornata al suo posto. A casa. Immergo il viso in quella profumata massa riccia pensando che non mi sono mai sentito così bene e in pace, così… dannatamente felice e lo stringo di più contro di me. Sotto le mie carezze il suo corpo si rilassa, il respiro torna a regolarizzarsi e la presa sui miei vestiti si allenta.
“Scusa.” Cerca di raddrizzarsi ma non glielo permetto e lo trattengo in quell’abbraccio che ho desiderato così a lungo da non riuscire a privarmene neanche per un attimo. Ora che finalmente è dove deve essere non ho intenzione di mollarlo tanto presto. Teppei sembra capirlo perché sbuffa un sospiro arrendevole sul mio collo e si assesta meglio contro di me, avvicinandosi ulteriormente. Anche lui sembra non desiderare altro.
“Sto ancora aspettando una spiegazione, sai?” gli mormoro all’orecchio continuando strofinare la guancia contro i suoi riccioli morbidi e una risatina nervosa si infrange sulla mia pelle, provocandomi un profondo brivido lungo la schiena che va a sommarsi ai tanti piccoli e piacevoli brividi che già stanno attraversando il mio corpo.
Lo sento tendersi e poi rilasciare un pesante sospiro.
“Lo so che ti sei sbattuto tanto per organizzarmi questa festa e non sai quanto ti sia grato, però…  man mano che il tempo passava invece di sentirmi felice mi sentivo sempre più a disagio, perché più si avvicinava la mezzanotte e più mi rendevo conto che il giorno stava finendo e non lo avevamo passato insieme” scuote la testa e sospira di nuovo. “E quando hanno portato la torta e hanno cantato… tutti sorridevano ed erano contenti ma io no, io non lo ero. Volevo solo che la festa finisse. Allora ho pensato che l’unico modo per farla finire in fretta era andarmene.” Si divincola per sciogliersi dalla mia stretta e alza la testa per guardarmi.
Lo fisso a mia volta con incredulità. Anche lui, come me, ingabbiato in una festa che non ha voluto. “E hai fatto tutto questo per…”
 “Per festeggiare con te! Non ti ho praticamente visto per tutta la serata” lo dice in tono quasi accusatorio. “Eri troppo occupato a seguire tutto e tutti… allora me ne sono andato con la speranza che anche gli altri seguissero il mio esempio. Kumi mi ha chiesto di accompagnarla a casa e l’ho fatto. Poi sono tornato. Sono entrato dalla portafinestra del salotto mentre Sanae e gli altri uscivano.” Il suo sguardo mi abbandona per posarsi sul gradino e sulla fetta di torta dimenticata. Le sue mani scivolano via dal mio petto e gli ricadono in grembo mentre si siede lentamente sui talloni. “In tutti questi anni non sono stato sincero con te. Eri il mio migliore amico ma non ti ho mai rivelato cosa provavo veramente, perché mentre io mi scoprivo sempre più innamorato di te, tu iniziavi a guardare le ragazze con interesse e questa era una cosa con la quale non avrei mai potuto competere. Come potevo dirtelo? Non sapevo cosa fare, non volevo perderti, così ho cercato di farmi bastare quello che avevamo, perché ero convinto che non avrei avuto altro da te. Pur di averti accanto avrei accettato qualunque cosa. E’ stato così difficile non dirti niente…” Stringe i pugni con forza. Il suo viso ha assunto un’espressione tesa, sofferente, e i suoi occhi continuano a evitare di incrociare i miei. “Poi… mi è sembrato che qualcosa cambiasse e ho iniziato a sperare, anche se non volevo crederci fino in fondo per non illudermi troppo ma il tempo passava e tu non dicevi nulla e allora ho temuto di essermi sbagliato. E poi stasera, quando mi hai detto che volevi parlarmi… il modo in cui l’hai detto, come mi hai guardato… ho pensato che forse era giunto il momento che avevo tanto atteso. Che ti fossi deciso. Ma sei dovuto andare via, ti ho aspettato e non sei tornato. E non ce l’ho fatta più.”
“Sei un idiota!” Lo apostrofo con durezza, anche se non sono veramente arrabbiato. Eppure dovrei. “Perché non mi hai parlato prima dei tuoi sentimenti? Perché me li hai nascosti? Pensi veramente che ti avrei allontanato? Perché non hai avuto fiducia in me?”
Rialza fulmineo lo sguardo. “E tu allora? Non hai detto di temere la stessa cosa? Addirittura il mio disgusto! A quanto pare nemmeno tu ce l’hai avuta tutta questa grande fiducia!” senza tanti complimenti mi sbatte in faccia le mie stesse parole e mi fissa con decisione, quasi sfidandomi a contraddirlo. Odio quando fa così: riesce a zittirmi con una facilità estrema. Sbuffo con stizza ma non intendendo minimamente dargliela vinta. Non questa volta. Mi fa incazzare quando mi nasconde le cose importanti. E questa, dannazione, è la più importante di tutte.
“Se io non ne avessi parlato stasera cosa ne sarebbe stato di noi?”
“Intanto non ne hai parlato con me e io t’ho sentito solo per caso, se dobbiamo dirla tutta.  E poi non lo so Hajime, non ho tutte le risposte! Non sei il solo ad aver avuto paura! La posta in gioco era troppo alta…” Stringe le labbra e china la testa senza replicare, nel tipico atteggiamento che assume quando vuole troncare un discorso che lo tocca troppo da vicino.
“E quindi non mi avresti detto nulla.” La mia non è una domanda ma una constatazione. Lo conosco bene e so che quando ci si mette sa essere testardo come pochi. Se decide di non parlare non c’è verso di tirargli fuori nulla; si tiene tutto dentro salvo poi esplodere quando non ce la fa più a trattenersi e a quel punto sono dolori perché diventa drastico.
Fisso il suo collo e le sue spalle tesi fino allo spasimo e di colpo realizzo che stiamo litigando e non è quello che voglio. Non adesso che la felicità è a portata di mano. E io questa felicità la voglio toccare, annusare, baciare. Perché ha la consistenza dei suoi muscoli, l’odore della sua pelle, il sapore di quelle labbra che non vedo l’ora sfiorare con le mie. Voglio stringerla questa felicità e non lasciarla andare mai più. Il resto può aspettare.
“Teppei…” Lo chiamo, allungando la mano destra per sfiorargli una guancia. Con il dorso e le nocche  percorro il tratto dalla tempia al mento prima di fermarmi con il palmo aperto sulla mascella. La sinistra la raggiunge e insieme racchiudono il suo viso per avvicinarlo al mio. Mi fermo quando i nostri volti sono a pochi centimetri l’uno dall’altro e i suoi occhi – gli occhi più belli del mondo – sono di nuovo nei miei. Mi sento mancare il fiato per la forza del sentimento che brilla in quelle iridi tanto amate e so che farò qualunque cosa per vederlo splendere sempre vivido come in questo momento.
Lo chiamo ancora e lui mi stringe tra le braccia, le sue labbra sono a un respiro dalle mie… e la voce dei miei genitori risuona fuori la porta mentre la chiave gira nella toppa della serratura.
Cazzooooooooooo! Proprio adesso? Ma chi sono? Il figlio perduto della sfiga che mi cerca con tanta insistenza?
Teppei sobbalza e schizza in piedi mentre io, afferrato il piatto con la torta, cerco di ricompormi e assumere un’aria indifferente. O così almeno spero.
I miei entrano in casa chiacchierando e ridendo e, contrariamente alle previsioni, mia madre non si arrabbia per il disordine che regna ancora in giro. Un po’ perché il musical deve esserle particolarmente piaciuto dato che ne canticchia sottovoce le canzoni, un po’ perché Teppei, da bravo paraculo, si fa trovare indaffarato a raccogliere piatti e bicchieri.
“Vi siete divertiti ragazzi?” Ci chiede mio padre con il sorriso sulle labbra e mentre io annuisco, senza proferire parola, Teppei si inchina e li ringrazia calorosamente per la disponibilità che hanno dimostrato a lasciarci la casa.
Dopo gli auguri di rito, l’ovvia domanda sul rompicoglioni - sì mamma è a letto -  e la raccomandazione di mettere tutto a posto, i miei salgono al piano di sopra lasciandoci nuovamente soli. Quando sento la porta della loro camera chiudersi tiro un sospiro di sollievo. Non mi sembra  vero che il rientro sia stato indolore. Però so anche che l’inevitabile è stato soltanto rimandato a domattina, quando lo zombie riemergerà dalla tomba.
“C’è mancato poco” ridacchia nervosamente Teppei mollando i piatti sporchi su una sedia e venendo a sedersi tra le mie gambe, sul gradino sotto al mio. Piega indietro la testa e mi sorride con una punta di imbarazzo, guardandomi da sotto in su. 
“Già” commento io, poggiando il piatto e dimenticando all’istante i miei e tutto il resto del mondo. Come se possa esserci spazio per qualunque altra cosa a parte lui!
 “Sei troppo lontano” gli sussurro chiudendolo nella mia stretta. “Vieni più vicino.” Incollo il mio torace alla sua schiena e gli poso il mento sulla testa, cercando di tenere a bada i brividi di eccitazione che sento risalire tra le scapole ogni volta che ce l’ho così vicino. E il pensiero che siamo soltanto all’inizio del nostro futuro insieme mi riempie di una dolcezza così struggente che non posso fare a meno di abbracciarlo ancora più forte.
“Hajime.”
“Mh…”
“Anche se il mio compleanno è ormai passato ti va lo stesso di mangiare la torta con me?” domanda girandosi tra le mie braccia, in modo da potermi guardare. Mi rivolge uno sguardo talmente intenso che sento il respiro troncarsi a metà mentre il cuore riprende la sua corsa forsennata, facendomi temere che mi sfugga dal petto.
Annuisco, ma sono sicuro che non riuscirò a mandar giù nemmeno una briciola di quella torta dal momento che non riesco neanche a ricordare come inalare aria nei polmoni, figuriamoci ingoiare.
“Prima, però, mi prendo il mio regalo.”
Le sue mani salgono dal mio petto al collo in una lunga carezza fino fermarsi dietro la nuca. Le dita si infilano tra i miei capelli premendo dolcemente per avvicinare le nostre teste e a me non resta che lasciarlo fare perché non sono più padrone del mio corpo, paralizzato da un’emozione troppo intensa per poterla contrastare e che mi sta facendo ardere fino in fondo all’anima.
“Hajime…” mi soffia ormai vicinissimo, con una luce maliziosa tra le palpebre socchiuse, mentre il suo respiro mi regala tanti altri piccoli brividi che alimentano l’incendio. “…anche tu sei il mio amichetto del cuore.”
“Che stronzo” mormoro piano, abbandonandomi alle sue mani e alle sue labbra. Con un sospiro appagato chiudo gli occhi, mentre, finalmente, tutti i miei pensieri si dissolvono nella sua bocca morbida.
 
 
Fine…
 
…e palla al centro.
 
Lo shochu è un distillato.
L’awamori è un distillato della zona di Okinawa.
Ojiisan significa nonno.
I red hot roll, i niku gyoza e il tori no karaage sono piatti che servono nel ristorante giapponese dove vado di solito. Anche la torta di mochi è una loro specialità.

Ringrazio Melanto che si è offerta di betare la storia.
  
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