Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: johnlockhell    16/02/2016    3 recensioni
La scoperta del segreto di Mary è l'ennesimo trauma che la vita non ha risparmiato a John Watson. Anche dopo il ritorno a Baker Street, si trascina depresso nella routine quotidiana sotto il peso della consapevolezza che tutto quello in cui spera si distruggerà. Sherlock non può più sopportare di vedere l'amico, la luce dei suoi occhi, in questo stato afflitto. Nonostante le emozioni e interazioni umane non siano il suo forte, per farlo reagire e rimettere le cose a posto è pronto a ricorrere a qualsiasi espediente. Ma Londra non lascia mai un attimo di respiro, e c'è sempre un crimine da risolvere dietro l'angolo. [Pairing: Johnlock, accenno di Warstan]
Dal Capitolo 6: “Quello che intendo dire, è che sei tu a farmi questo effetto. Sei sempre e solo tu, John.”
Dal Capitolo 8: Aveva fatto un sogno assurdo quella notte, e il vago ricordo del sogno, la sua immagine sfocata, non si cancellava dalla sua testa. Aveva sognato di baciare Sherlock.
Genere: Drammatico, Malinconico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

One Month of Silence

 

 

Personaggi: Sherlock Holmes, John Watson, Mary Morstan, Greg Lestrade, Mrs. Hudson, Molly Hooper.
Genere: Malinconico, introspettivo, drammatico, angst, avventura, suspance, mistero, shonen-ai, slash, generale.
Pairing: Johnlock, John/Mary.
Trama: La scoperta del segreto di Mary è l'ennesimo trauma che la vita non ha risparmiato a John Watson. Anche dopo il ritorno a Baker Street, si trascina depresso nella routine quotidiana sotto il peso della consapevolezza che tutto quello in cui spera si distruggerà. Sherlock non può più sopportare di vedere l'amico, la luce dei suoi occhi, in questo stato afflitto. Nonostante le emozioni e interazioni umane non siano il suo forte, per farlo reagire e rimettere le cose a posto è pronto a ricorrere a qualsiasi espediente. Ma Londra non lascia mai un attimo di respiro, e c'è sempre un crimine da risolvere dietro l'angolo.
Parole: Capitolo 1 - 3800 parole circa, capitolo 2 - 3500 parole circa, capitolo 3 - 4500 parole circa, capitolo 4 - 3500 parole circa, capitolo 5 - 3100 parole circa, capitolo 6 - 3200 parole circa, capitolo 7 - 3400 parole circa, capitolo 8 - 4900 parole circa, capitolo 9 - 4200 parole circa.

 
***
 
Capitolo 1 – Numbness

John aprì gli occhi, la familiare vista offuscata dell'appartamento in Baker Street era ancora lì come l'aveva lasciata. Anche il formicolio del braccio addormentato era un abituale compagno del risveglio da quella posizione scomoda. Ormai erano giorni che John finiva per addormentarsi su quella poltrona, la sua poltrona. Era l'unico posto dove riusciva a prendere sonno e sfuggire agli incubi che nuovamente lo perseguitavano appena provava a mettersi a letto e spegneva le luci.

Stropicciando gli occhi assonnati e stiracchiando le braccia per riacquistare sensibilità, emise un sonoro sbadiglio e lentamente assunse una posizione più composta. Era davvero indecoroso e poco virile dormire così sulla poltrona, con le gambe rannicchiate contro il petto come un bambino spaventato, si rimproverava. Ma era l'unico modo per appisolarsi per qualche mezzora, tenere lontani gli incubi, e non cadere completamente a pezzi.

Il colpo che gli aveva inflitto Mary – se questo era il suo vero nome – aveva di nuovo mandato in frantumi la sua precaria stabilità e serenità tenute insieme con il nastro adesivo. La guerra, le indagini, il pericolo, l'adrenalina, le disavventure, gli attacchi, le minacce, la morte del suo migliore amico, la menzogna. Troppi traumi si erano accavallati l'uno sopra l'altro, senza neanche dargli il tempo di riprendere fiato. E rimanere con il fiato sospeso, il batticuore, il sangue che scorre furente nelle vene era sia veleno che farmaco per John. Ma ogni medicinale ha un dosaggio consigliato, e John aveva raggiunto il limite. Il tradimento di Mary, la bugia vivente che aveva reso la loro vita, era troppo. Soprattutto perché veniva da quella persona che l'aveva aiutato a rimettere insieme i pezzi, che l'aveva salvato l'ultima volta che era andato in frantumi, che era il suo pilastro solido e la stabile certezza a sostenerlo, appoggiarlo, accompagnarlo durante ogni avventura, e a cui tornare prima della successiva. La persona che gli aveva ridato speranza nel futuro e una ragione per vivere, solo per distruggerli nuovamente e mostrare la realtà dietro l'illusione: John Watson doveva avere qualcosa di sbagliato, perché tutto quello che entrava nella sua vita era rotto e storto.

Con un nuovo sbadiglio, John si alzò di un pezzo, pestando la coperta che era ricaduta ai suoi piedi, e rimanendo ancora ingessato e confuso a sfregarsi il braccio addormentato. Una disgustosa sensazione di malessere per il sonno disordinato gli avvolgeva lo stomaco, che ormai non era avvezzo ad un pasto decente da settimane. Fuori il sole era già calato, e il tipico chiarore grigiastro del tardo pomeriggio invernale dopo il tramonto illuminava il disordine della stanza. La mezza tazza di tè, ormai freddo, che Mrs. Hudson gli aveva gentilmente preparato al suo ritorno dall'ambulatorio, giaceva sul tavolino antistante che John urtò muovendo i primi passi nella stanza. Neanche oggi aveva rivolto parola a Mary, e definire la situazione pesante sul posto di lavoro era ridicolamente eufemistico.

“Buongiorno,” gli fece ironicamente uno Sherlock Holmes impegnato in qualche complesso esperimento chimico nella penombra della cucina, senza distogliere gli occhi dalla soluzione che stava prelevando con la pipetta.

“Accidenti, devo essermi appisolato sulla poltrona,” cercò di giustificarsi maldestramente, John senza neppure sforzarsi di provarci veramente, “non ti ho sentito rientrare.”

“Succede, quando non dormi di notte,” ribatté cinico Sherlock, che ormai da settimane doveva sopportare le precarie scuse di John al perché lo trovasse addormentato sulla poltrona a tutte le ore del giorno, in quella vulnerabile posizione infantile così spiacevolmente tenera, ma continuasse a sentirlo muoversi per tutta la notte.

Dopo la rivelazione della falsa identità di Mary, e il suo decorso in ospedale per la ferita al petto, Sherlock aveva riaccolto John nel loro appartamento da scapoli. In realtà era accaduto spontaneamente, John aveva ripreso a stare lì e a tornare lì senza bisogno di discutere nulla apertamente, come d'altronde loro non facevano mai. Era come se non se ne fosse mai andato, come se nessuno dei due se ne fosse mai andato e i due anni di vuoto non fossero mai successi, e in un certo senso era così. La tacita supplica dell'amico, che non riusciva neanche a guardare in faccia la moglie, di potersi rifugiare nella sua vecchia abitazione non era stata neppure necessaria; che John si trovasse in Baker Street era l'evento più naturale del mondo per Sherlock. Ma averlo lì in quello stato, depresso e trascurato, gli faceva ancora più male che pensarlo lontano ma appagato dalla sua nuova vita.

“Che ore sono?” chiese John, divagando.

“Abbastanza tardi perché abbia completamente perso la pazienza con questa dannata cosa,” rispose Sherlock, armeggiando con le provette e vetrini che coprivano il tavolo di cucina ed evidentemente lo stavano infastidendo molto.

“Come mai sei uscito?” continuò a chiedergli John, andando a raggiungere il frigorifero per abitudine, “stai lavorando ad un nuovo caso?”

“Non proprio.” Una risposta elusiva di Sherlock, che novità.

“Un caso con cui distrarmi è esattamente quello che mi serve in questo momento,” bofonchiò John mettendo in bocca un pezzo di formaggio, l'unica cosa che si trovava nel frigorifero, e l'unica che aveva toccato da quella mattina.

“È esattamente quello che non ti serve,” controbatté freddo Sherlock, gli occhi incollati al vetrino su cui stava attentamente facendo scendere un paio di gocce di liquido.

“Perché ovviamente tu sai sempre cos'è meglio per gli altri, giusto?” sputò sarcastico John a mezza bocca.

“Esatto!” esclamò Sherlock, lasciando cadere incurante la pipetta sul tavolo e attaccando il suo sguardo torvo su John. Il tono della sua voce era stato così fermo, incisivo e inaspettato che lo aveva fatto riscuotere, e anche John lo stava fissando negli occhi, duro e severo e in attesa di quello che Sherlock aveva da aggiungere.

“So esattamente,” continuò Sherlock con lo stesso tono perentorio, “che non puoi andare avanti per sempre senza dormire, senza mangiare, rimandando i problemi che non vuoi affrontare, ignorando la realtà per dedicarti a distrazioni potenzialmente letali. Non sei me e ti sconsiglio di cercare di diventarlo.” John alzò un sopracciglio di sdegno, ma prima che potesse aprir bocca Sherlock stava già procedendo. “Devi reagire e riprendere il controllo e smettere di essere questa versione patetica di te," disse indicandolo, “che ho di fronte da settimane!”

Un sorriso malevolo di stizza non poter fare a meno di dipingersi sul volto di John. “Sto esagerando secondo te, come sempre. Ho una reazione umana, quindi per te è inconcepibile.”

“Non c'è nulla da concepire, devi semplicemente decidere razionalmente. Cosa vuoi fare con le informazioni che sono a tua disposizione, come comportarti e come procedere. Rimettere le cose a posto e smettere di andare alla deriva.”

“Dipende sempre tutto da me, no? Rompo tutto quello che tocco, certo. Sono io che indirettamente provoco le cose e poi sono sempre io che dovrei sbrigarmele da solo”, soffiò stremato John.

“Non ho detto questo,” lo interruppe Sherlock.

“Cos'hai in mente, allora?” John era sinceramente curioso di sentire la risposta.

“Innanzitutto,” cominciò Sherlock, interrompendo il contatto visivo e lasciando la sua postazione davanti al microscopio per spostarsi sull'altro lato del tavolo e raccogliere da terra un sacchetto, che poggiò sul tavolo con un tonfo, “cinese. E mi assicurerò che tu faccia una cena completa.”

Entrambe le sopracciglia di John erano alzate in un misto di sorpresa e derisione.

“Poi,” Sherlock si chinò nuovamente a raccogliere un altro sacchetto posto sotto al tavolo, che portò sopra accanto all'altro con un tonfo ancora più sonoro, “mi sono documentato abbastanza per sapere cosa fanno le persone normali in queste situazioni per smaltire le fandonie, far sbollire tutta questa inutile emotività e cominciare a reagire.”

Dalla busta si intravedeva una nutrita collezione di bottiglie il cui tasso alcolico complessivo avrebbe fatto impallidire chiunque.

“Vuoi farmi ubriacare?” l'espressione di John era adesso di riso, incerto fra stupore e irritazione. “Sarebbe questo il tuo piano?”

“Non è forse quello che fanno gli amici normali?” ribatté Sherlock sardonico con un mezzo sorriso.

“Sei uscito di casa solo per questo, credevo servisse almeno un sette!” a questo punto John stava sorridendo apertamente, per la situazione improbabile in cui si trovava, ma anche per l'imbarazzante tentativo dell'amico di fare qualcosa di gentile per lui come nessuno faceva da tempo. E conoscendolo, sapeva quanto questo non fosse facile, banale o scontato per lui. E non conosceva le parole per spiegare quanto lo apprezzasse.

“Devi essere davvero preoccupato,” aggiunse.

“Lascia fare a me,” disse Sherlock più disteso adesso che la tensione si era alleggerita, con lo stesso tono pungente con cui affrontava le sfide investigative e i suoi puzzle da risolvere, “e vedrai che stasera non avrai problemi a dormire.”

“L'ultima volta che hai avuto una simile iniziativa alcolica, non è andata tanto bene,” ricordò John, ripensando alla rocambolesca nottata del suo addio al celibato. Era comunque un ricordo troppo piacevole, intrecciato alle emozioni del matrimonio, che adesso John non sapeva come gestire o dove mettere.

“Questa volta ho un piano a prova di manomissione.”

Per fuggire ogni possibilità che anche questa volta l'amico allungasse nel suo cilindro graduato alcolici fuori programma, il piano di Sherlock era di rimanere sobrio e far bere solo John. Ma le cose evolverono più rapidamente del previsto. Nonostante l'abbondante cena cinese, su cui John si fiondò senza fare troppi complimenti come fosse in astinenza da giorni, l'alcol a fiumi con cui la innaffiava iniziò presto ad avvampargli la faccia e fare effetto. Il clima iniziò a farsi caldo e tenue, la loro cucina si trasformò lentamente in un bar improbabile, e l'atmosfera era riempita dalle risate soffocate di John per ogni minima sciocchezza, dal cibo sfuggitogli dalle bacchette e finito sul prezioso materiale da laboratorio di Sherlock, alle sue stesse battute che l'alcol rendeva più divertenti di quanto effettivamente fossero.

“Se mi analizzasse le urine dopo questa cena Molly Hooper schiaffeggerebbe anche me!”

Sherlock stava a guardarlo e sentirlo senza prendere parte alla cena e alle bevute, ma godendo della compagnia del coinquilino con un leggero sorriso trattenuto. Era come se dopo giorni di ibernazione riconoscesse di nuovo l'amico che gli stava così a cuore, e l'appartamento fosse di nuovo illuminato dalle loro chiacchiere, discussioni e battibecchi domestici come era stato nel loro periodo d'oro. Ma più aumentavano i gradi alcolici assunti da John, più la situazione poteva diventare imprevedibile e incontrollabile anche per l'accurato calcolo predittivo del detective.

“Temo non sia l'unica donna che avrebbe voglia di schiaffeggiarti al momento,” fu la battuta di troppo che Sherlock formulò con la sua tipica noncuranza della sensibilità umana.

Il sottile riferimento a Mary fece divampare la collera e sofferenza immagazzinate dentro John, a cui l'alcol aveva tolto ogni freno.

“Come se ne avesse qualche diritto dopo quello che ha fatto!” sbottò John.

In men che non si dica, le risate e il clima divertito vennero sostituite dalle invettive e urla di John contro Mary, e contro lo stesso Sherlock.

“La mia vita è una menzogna, è tutta una menzogna per colpa vostra! Prima tu torni dalla morte,” lo indicò con occhi furenti che potevano trafiggere una pietra, “poi lei diventa una spia assassina a sangue freddo! Niente di tutto questo è reale!”

“John,” tentava invano di frenarlo Sherlock, “va bene tirare fuori la rabbia, ma non fartene dominare.”

“Smettetela di dirmi tutti cosa devo fare e come mi devo sentire!” urlava più forte John, gettando i resti della cena per terra con un energico scatto d'ira del braccio e alzandosi dalla sedia, “nessuno di voi ha questo diritto, nessuno!”

Presto ai resti della cena riversi sul pavimento si aggiunsero i frantumi delle provette e becher di Sherlock, vittime di altri sbotti di rabbia di John mentre si allontanava dal tavolo instabile sui piedi per l'influsso degli alcolici sull'equilibrio.

“Riprendi il controllo, John, sei un uomo adulto!” adesso anche Sherlock urlava severo.

“Eppure ho sempre a che fare con dei bambini troppo cresciuti che non capiscono il peso delle loro azioni!” continuava a gridare John, cominciando a prendersela con le sedie mentre procedeva verso il salotto.

Sentendo i passi per le scale, Sherlock chiuse la porta in faccia ad una Mrs. Hudson allarmata da tutta quella confusione prima che potesse irrompere nella stanza a peggiorare la situazione.

“Quello che avete fatto è imperdonabile!” sputò John, continuando a percorrere traballante la stanza avanti e indietro, “quello che ha fatto è imperdonabile! Non voglio sapere altro sul suo conto. Ho chiuso con Mary! Chiuso. Finito. Basta.”

“Non hai chiuso con nessuno finché riesce a farti arrabbiare in questo modo,” replicò Sherlock dall'alto della sua razionale saggezza.

John si fermò nel centro della stanza, gli occhi puntati al pavimento, e la mano che cercava qualcosa nella tasca.

“Adesso la chiamo e glielo dico. Abbiamo chiuso, non voglio più vederla,” il tono era meno alto ma non meno irato e sprezzante.

Sherlock accorse subito verso di lui a fermargli il braccio prima che potesse comporre il numero.

“La vedo dura, lavorando nello stesso posto,” tenendogli fermo il braccio, con l'altra mano gli sfilava il cellulare dalle mani, “mai fare telefonate impulsive sotto l'effetto dell'alcol, regola numero uno di ogni manuale per persone normali.”

“Allora andrò a dirglielo di persona!” soffiò John, liberandosi dalla presa dell'amico con uno scossone, rosso in volto per gli alcolici quanto per lo sforzo.

“Nessun taxi ti farà salire in queste condizioni,” replicò Sherlock beffardo.

“Prenderò la metro!” fece in tutta risposta John, inciampicando mentre si infilava il soprabito.

“Dubito tu sia in grado anche solo di trovare l'ingresso della metro al momento.”

“Allora accompagnami!” ribatté John, aperta la porta e mentre stava già iniziando a scendere la rampa di scale.

Un attimo di esitazione, poi Sherlock prese con una mano il cappotto al volo e lo seguì giù per le scale. 

“Inizio a temere che non sia stata una buona idea,” bofonchiò fra sé e sé.

Varcato il portone che l'amico si era lasciato aperto dietro le spalle, Sherlock si diresse verso destra lungo la strada, percorrendo i passi di John che lo precedeva di qualche falcata e, nonostante non riuscisse a tenere una traiettoria retta, sembrava deciso a non voler rallentare. Camminando a passo sostenuto, Sherlock riuscì a raggiungerlo prima della fine della via, al momento di attraversare la strada per arrivare all'ingresso secondario per la metropolitana nell'intersezione sulla sinistra.

“Pensi che la situazione migliorerà dopo che avrai fatto una scenata da ubriaco?” Sherlock chiese critico e sarcastico a John, aggiustandosi nel cappotto mentre scendevano le scale per il sottopassaggio della metro.

“Non ho bisogno di pensare,” gli sbatté in faccia John, svuotando la tasca della giacca per trovare la sua Oyster Card e passare i tornelli, “lo fai già tu abbastanza per tutti.”

La scala mobile li portava ancora più in basso al livello del binario, un ottima metafora per la fossa che si stavano scavando da soli, rifletteva Sherlock. Non dovettero attendere più di una manciata di secondi sulla banchina prima che il treno arrivasse e John salisse all'entrata più vicina, mentre Sherlock lo seguiva ancora titubante sul da farsi.

“Devo impedirti di fare un errore colossale,” disse all'amico mentre prendevano i primi posti disponibili fra gli ultimi turisti e pendolari decisi a raggiungere la loro destinazione prima che la serata si facesse troppo tarda.

“Hai già fatto abbastanza,” sibilò John, cercando di mantenere un decoro in pubblico anche se l'espressione alterata del suo volto svelava lo stato di collera e ubriachezza.

Ingenuamente, Sherlock aveva pensato che il confronto aperto con Mary, quando l'avevano analizzata come un qualsiasi cliente, fosse andato bene, in fondo. Stupidamente, aveva pensato che John avesse solo bisogno di una piccola spinta per reagire e fare la cosa giusta. Le sfumature e contraddizioni delle emozioni umane erano sempre la cosa più difficile da dedurre. Ma fuori da ogni dubbio, a prescindere da quello che poteva comportare per la loro amicizia e il loro rapporto e da quello che egoisticamente avrebbe preferito per sé, Sherlock sapeva che la cosa giusta per John era stare con Mary, e viceversa.

Senza che avessero modo di aggiungere altro, il treno aveva già raggiunto la loro destinazione e John, ancora più lucido di quanto Sherlock l'avesse pensato, fu subito pronto in piedi per scendere e avviarsi verso l'uscita. Forse Sherlock si era davvero intromesso troppo? Aveva il diritto di intervenire nelle vite di due delle persone più care a lui? Quanto rancore John provava ancora nei suoi confronti per aver finto la sua morte... Era questa una di quelle occasioni in cui la sua innata saccenteria gli aveva fatto stimare male la situazione?

Salite le scale e usciti dalla stazione, percorsero le strade che separavano John dal suo obbiettivo, sempre senza che l'uomo, carico di energia alcolica, accennasse un segno di esitazione. Finché non raggiunsero l'incrocio e la svolta da cui si intravedeva la sua casa. In quel momento si fermò, come se per la prima volta da quando era uscito, complice la gelida brezza invernale che non risparmiava un tremito e la maggior ossigenazione al cervello provocata dalla camminata spedita, riuscisse a pensare veramente.

John mosse qualche passo in avanti. Alla finestra del suo appartamento era visibile una sagoma. Qualche altro passo. Sherlock rimanse indietro, come per lasciargli un attimo di privacy. La sagoma era ovviamente Mary, rimasta sola nella casa, con la sola compagnia del bambino che portava in grembo, su cui la silhouette alla finestra teneva poggiata una mano. Non si potevano distinguere che i contorni dalla loro posizione, ma l'immobilità della sagoma, la sua staticità, davano a John l'impressione che fosse immersa in pensieri cupi, con lo sguardo vuoto fisso su qualcosa che nessuno a parte lei poteva vedere, e il cuore fermo in un'attesa che nessuno poteva spezzare. Forse ripensava alla mattina, in cui nuovamente il marito aveva a stento accennato a riconoscere la sua esistenza nella clinica senza rivolgerle uno sguardo diretto o una parola. Forse contava i giorni mancanti al congedo di maternità quando finalmente non avrebbe più dovuto sopportare il silenzio assordante in ambulatorio, e forse perdere anche quell'ultimo contatto con John era la cosa che più di tutte le trafiggeva l'anima. Forse era così assorta da non riuscire a pensare a nulla di preciso. Forse si sentiva come John.

“Andiamo via.”

Con lo sguardo basso, John fece dietrofront e prese a ripercorrere la strada da cui erano arrivati, sorpassando Sherlock ancora fermo.

“Cosa? Dopo tutto questo trambusto ce ne andiamo?” tenne il punto Sherlock, come faceva sempre.

“Andiamo via,” ripeté semplicemente l'amico.

Scesero nuovamente nella metropolitana. Il treno stava già arrivando, e ai piedi della scala John svoltò subito, prendendo il primo varco per accedere all'inizio del binario, salendo sul penultimo vagone appena in tempo prima che le porte si chiudessero, e Sherlock fece lo stesso dietro di lui. Il vagone era completamente vuoto, fatta eccezione per una giovane donna vestita in modo elegante e professionale appoggiata all'estremo sinistro del vagone contro la porta di intercomunicazione fra carrozze, di cui oscurava la finestra con la testa. Era troppo impegnata a trafficare sul suo tablet per rivolgere più di un mezzo sguardo di traverso ai due nuovi viaggiatori nella carrozza prima di tornare a premere qualcosa sullo schermo con la pennina che stringeva fra le dita. John si accasciò su un sedile vuoto a qualche metro da lei, e Sherlock si sistemò al suo fianco.

Le porte si richiusero e il treno partì con un sussulto. Dopo tutta la rabbia e lo scatto energetico, era come se John adesso avesse esaurito tutte le forze.

“È stato un utile spunto di ricerca, comunque,” iniziò a chiacchierare Sherlock, distaccato, cercando di recuperare la normalità e pensando che il peggio fosse ormai passato, “non credevo che un ubriaco potesse muoversi e orientarsi così velocemente, dovrò rivedere alcune delle mie stime abituali.”

Ma finalmente l'alcol fece l'ultimo e più spiacevole dei suoi effetti. Spentasi l'ira, vista l'immagine della moglie che gli aveva provocato questa sofferenza ad una così breve distanza incolmabile, ora era esploso lo sconforto. Con il capo chino, il corpo di John prese ad essere scosso da piccoli singhiozzi, che si fecero sempre più intensi, finché l'uomo non si portò le mani al volto per celare il pianto incontrollato che l'aveva sopraffatto.

Di tutte le reazioni umane, questa era la più aliena e sconvolgente per Sherlock, e quella per cui non aveva mai una risposta. Di sasso, guardava spaesato il volto dell'amico sprofondato nelle mani mentre i suoi singhiozzi e sussulti riempivano il silenzio del vagone quasi completamente vuoto. Sherlock cercava qualcosa da dire senza ottenere alcun risultato. Sapeva in teoria quello che si doveva fare, che non servono parole e che basta un contatto fisico di conforto e rassicurazione, glielo aveva insegnato qualcuno rimproverando i suoi deficit di comprensione delle interazioni basilari che le persone normali usano. Ma non riusciva a muovere un muscolo e creare quel contatto.

Sfarfallio delle luci del vagone, un sobbalzo del treno in corsa e il corpo di John già sconvolto dai tremiti perde l'equilibrio, andando a scontrarsi e ricadere su quello imponente dell'amico seduto accanto. John stava piangendo contro la spalla di Sherlock e sembrava aver perso ogni freno per smettere. Sherlock voleva davvero alzare il braccio e cingere la schiena di John in segno di supporto e consolazione, ma non ce la faceva. Era come paralizzato, assente. Aveva i biondi capelli brizzolati di John così vicini, quei fili argentei che li coloravano così graziosamente. Sherlock voleva quel contatto e anelava a quel contatto e probabilmente ne stava traendo più lui di quanto non facesse John, ma non riusciva a dargli riconoscimento. Non era una cosa difficile, eppure creare una simile connessione umana autentica, non preparata ed esercitata, era difficilissimo per lui, come se il software fosse assente dalla sua programmazione.

Un nuovo sfarfallio delle luci del vagone, e queste si spengono completamente, lasciandoli immersi nel buio più nero. Non particolarmente insolito per quanto spiacevole, viaggiare attraverso tunnel sotterranei completamene ciechi e in trappola chiusi in una gabbia sigillata senza nessuna possibilità di ingresso e via di fuga come topi, ma per un secondo Sherlock fu grato al buio per aver alleggerito l'imbarazzo della situazione. I singhiozzi di John rallentano e si attenuano. Nel nuovo silenzio creatosi nel vagone praticamente deserto, si avverte il rumore di un colpo. Poi sfrigolii, fruscii, suoni metallici, dei colpi soffusi, un tonfo sordo. La pressione di John contro la spalla di Sherlock è diminuita, forse l'uomo sta tornando in sé.

Il bagliore intermittente e incerto delle luci sfrigolanti riemerge, prima che la luminosità ritorni stabile e la luce funzionante nel vagone che imperterrito non ha per un momento rallentato la sua corsa. Gli occhi impiegano qualche momento di troppo a riabituarsi alla luce, e quello che li attende è una vista aberrante.

Distesa faccia a terra sul pavimento del treno a poca distanza dai piedi di Sherlock e John, l'unica altra anima viva che si trovava nel vagone, la giovane donna elegante, giace esanime al suolo in una pozza di sangue con un foro nella nuca.
 
***

Nel prossimo capitolo: Perché va a finire sempre così quando ti do retta, Sherlock!
 
***

Nota dell'autore: Sono cinque anni che non pubblico una storia su questo sito. Cinque anni. Wow. Ne sono successe di tutti i colori, e non pensavo affatto di tornare a scrivere qui. Ma se dovevo tornare, non poteva essere che per Sherlock. Ai tempi dell'ultima storia che ho pubblicato qui, Sherlock era solo alla prima stagione, il fandom italiano era appena agli inizi, avevamo solo 3 episodi e mesi di attesa davanti, e guardate invece quanta strada abbiamo fatto: adesso abbiamo ben altri sette episodi con cui tormentarci! Scorrere le mie vecchie fan fiction mi fa rabbrividire, non ho il coraggio di rileggerle, sono davvero imbarazzanti. Spererei che le mie doti di scrittura fossero un po' migliorate, ma non ci giurerei. Se, in ogni caso, in un modo o nell'altro, questo capitolo iniziale e il setting introdotto hanno stuzzicato un minimo il vostro interesse, spero che vorrete farmi sapere cosa ne pensate nei commenti e che tornerete nei prossimi giorni per il prossimo capitolo, in cui le cose inizieranno ad entrare nel vivo. The game is afoot!
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: johnlockhell