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Autore: Querthe    22/03/2009    4 recensioni
Una storia ambientata nove/dieci anni dopo la fine del settimo libro, ma prima dell'epilogo. Un'ossessione mai sopita, una ricerca interessante quanto pericolosa, una donna che vorrebbe Potter morto ma che lo deve aiutare, potenti manufatti magici, un mistero e un viaggio che solo pochissimi possono dire di aver fatto nei secoli.
Seguito de "Sussurri da un anima". Non è obbligatoria la lettura, ma caldamente consigliata
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bill Weasley, Harry Potter, Hermione Granger, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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- Questa storia fa parte della serie 'Le cronache di Ellyson Witchmahoganye' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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La stanza era buia.
Le pesanti tende alla finestra, posta sulla destra del grande letto matrimoniale a baldacchino, erano tirate, impedendo alla luce dei pochi lampioni funzionanti in Knockturn Alley di entrare e svegliare la proprietaria della casa.
La donna si stava voltando violentemente nel letto, in preda ad un incubo che per lei era ormai ricorrente. La fronte era imperlata di sudore, i denti stretti in un dolore che poteva provare solo nella sua mente, e come tale enorme, incommensurabile. Si voltò da una parte all’altra, ormai scoperta, le lenzuola cadute quasi totalmente dal letto, la sottoveste di seta grigia risalita pericolosamente dalle caviglie alle ginocchia, quindi urlò, svegliandosi.
Ansimava, gli occhi fissi, una parola non detta sulle sue labbra, mentre la testa ricadeva sul cuscino.
Inspirò, cercando di far rallentare il cuore impazzito.
- Hisser! – chiamò nel buio, mentre afferrava la bacchetta dal comodino.
Si udì un flebile crack mentre la punta di noce della bacchetta si muoveva nell’aria accendendo le varie lampade, vagamente somiglianti a torce medievali avvolte da un serpente.
- Sssì padrona? La padrona ha chiamato l’umile Hisssser? – si prostrò un elfo domestico dalla pelle verdastra tesa sullo scheletrico corpicino, gli occhi gialli e sporgenti, i pochi capelli bianchi appiccicati al cranio. Era coperto da un paio di pantaloni grigi, ricavati da un pezzo di stoffa adattato con spille da balia, che gli sfioravano le caviglie con i loro bordi sfilacciati e da un gilet di panno da tavolo da gioco verde scuro con finti bottoni apparentemente incollati, di ottone lucidato a specchio.
- No, ho starnutito. – rispose atona lei. – Certo che ti ho chiamato, stupido inutile elfo! – disse irata. – Tuo cugino Kreacher lavora sempre per… per…
- Sssì padrona. Kreacher lavora ancora per l’odiossso sssignore. Hisssser sssi punirà appena possibile perché ha come cugino un elfo cosssì ssstupido, padrona. Hissser accenderà il forno e sssi getterà dentro per punirsssi, padrona.
- Lascia perdere, Hisser. Poi dovrei scrostarlo e non ho voglia. Piuttosto. Nessuna novità? Non hai visto nulla, quando sei stato da lui, a trovarlo?
- No, no! Mia padrona, non ho potuto vedere nulla o ssscoprire nulla. L’odiossso sssignore non ha detto nulla a Kreacher mentre ero con Kreacher. Hisssser deve andare da sssuo cugino adesssso?
- No. Portami la tisana di foglie di Mentavuota. Voglio dormire tranquilla fino ad almeno la mattina. Andrò al ministero domani e chiederò direttamente a lui cosa ha intenzione di fare.
- Sssubito padrona. Hisssser sta già andando a preparare la tisssana. Hisssser sssta correndo…
Un piccolo crack, subito seguito da un altro che ne indicava il ritorno, e una tazza fumante ripiena di un liquido azzurrognolo fu posata sul comodino.
Con un veloce quanto impaurito inchino e un ennesimo scoppiettio Hisser tornò nel suo nascondiglio sotto il lavandino della casa.
La donna, che non mostrava più di trenta anni, si sedette sul bordo del letto e assaporò la tisana, con un penetrante profumo e sapore di miele, malva e menta piperita.
- Non sarò mai grata abbastanza a te Longbottom e alle tue "Tisane della Nonna".
Finì la bevanda, si risistemò a letto dopo aver legato i lunghi e ricci capelli bruni, quasi neri, con una fascia di seta verde scuro, e nel giro di pochi minuti cadde in un sonno profondo e senza nessun sogno o incubo.

La mattina seguente, Ellyson Witchmahoganye scese dalla sua camera in cucina per fare colazione ancora con la vestaglia, gli occhi cerchiati di scuro per la notte agitata.
Hisser aveva già preparato tutto quello che a lei poteva piacere per colazione, compresa la rosa nera al centro della tavola.
Lei si concesse un sorriso e mangiò un po’ di pane tostato con burro e marmellata di arance. Il caffè svolazzò borbottante dalla cuccuma alla sua tazza, dove due gocce di latte lo macchiarono e un cucchiaino di zucchero lo rese dolce come lei lo amava la mattina.
L’orologio segnava le otto di mattina meno qualche minuto.
Era in ritardo. Doveva essere al Ministero della Magia alle otto esatte se voleva riuscire a parlare con Potter.
Finì con un unico sorso il caffé e si alzò. Hisser avrebbe messo a posto dopo, quando lei fosse uscita.
Nel corridoio estrasse la bacchetta dalla tasca dalla vestaglia di seta.
- Morfovestum. – esclamò senza smettere di camminare.
La sua vestaglia venne sostituita dalla veste da maga, una raffinata creazione in velluto e seta nera, verde scuro e grigio, un richiamo smaccato alla sua appartenenza alla casa dei Slytherin, di cui andava orgogliosa, e a causa del quale aveva avuto non pochi diverbi e discussioni, che avevano a volte sfiorato il duello, con il Ministero, praticamente in mano ai Gryffindor dopo la caduta di Lord Voldemort.
Hisser comparve correndo, nelle mani tremanti il mantello, di pesante stoffa nera con cappuccio, della padrona, a cui lo porse per poi prostrarsi e strisciare all’indietro fino alla cucina.
Lei se lo fissò al collo con il fermaglio di argento e fu sul punto di uscire in strada, dirigendosi da Knocturn Alley alla Londra conosciuta, incurante degli sguardi divertiti, ammirati o solo stupiti dei babbani che incontrava, come faceva spesso. Lei era una maga, e come tale voleva apparire. Che la credessero pure pazza, o strana, o solo bizzarra. L’avevano tacciata di violare le leggi magiche, ma non l’avevano mai accusata ufficialmente. Era di certo meno bizzarra di tanti gruppi giovanili babbani, e non aveva mai mostrato la bacchetta o fatto magie in pubblico. Lei era fiera di essere diversa da loro, dalla loro orribile, pesante mediocrità di esseri che mormoravano in un brusio indistinto, tentando di sembrare ciò che non erano. Ne stimava alcuni, ma la maggioranza era per lei difficile da sopportare e impossibile da capire.
Ma quel giorno non poteva perdere tempo, quindi si diresse in salotto, di fronte ad un importante camino con alcuni ceppi pronti per essere bruciati.
- Incendio – enunciò. Lunghe lingue di fuoco scarlatto iniziarono a mordere la legna.
Una manciata di polvere. Le fiamme divennero di un bel verde acceso e con sicurezza lei si diresse dentro di loro.
- Ministero della Magia, ingresso. – esclamò con un tono di comando.
L’istante successivo Ellyson emerse da uno dei tanti camini presenti nel sottosuolo di Londra, sotto una cabina telefonica. Si sistemò il mantello, togliendo la poca fuliggine che si era depositato su di esso.
Conosceva la prassi.
Il funzionario le chiese la bacchetta, che lei gli porse senza indugio.
- Ellyson Witchmahoganye. Noce e sangue di Djinn, dodici pollici e tre quarti. Scopo della visita?
- Secondo livello, Ufficio applicazione della legge sulla magia, Quartier generale degli Auror, direzione generale, Potter, Harry.
- Grazie. – disse cortese, restituendole la bacchetta.
L’ascensore risalì lentamente, stipato di persone, elfi domestici e circolari interne che galleggiavano a mezz’aria.
Al secondo livello scese, ormai sola, e si diresse con passo sicuro lungo i corridoi fino ad una porta in pesante legno scuro.
- Capo degli Auror, H. J. Potter – lesse col pensiero l’incisione nella targa bronzea rivettata al legno, ancora coperta dall’olio di protezione. – Patetico.
Bussò e attese che lui la invitasse ad entrare.
Nessun rumore provenne dall’interno.
Bussò nuovamente.
Ancora nulla.
Afferrò la maniglia e la girò, spingendo la porta e aprendola.
L’ufficio, come sempre, sembrava più la stanza di un fanatico di Quidditch piuttosto che quella di un affermato Auror. Ovunque le pareti erano tappezzate d poster di giocatori che salutavano felici o di squadre che volteggiavano nell’aria sulle loro scope.
In un angolo, in una vetrinetta verticale, il primo modello di Firebolt sembrava osservare la confusione che regnava, in eguale misura prodotta dalle scartoffie sul tavolo e sugli schedari e dalle carte stagnole di cioccorane e altri dolciumi vari. L’unico punto sgombro, se si escludeva la poltrona del proprietario dell’ufficio, era una sedia di similcuoio, per gli ospiti. Ellyson appese il mantello ad un attaccapanni dopo avergli intimato di non muoversi se lei non glielo avesse permesso, sapendo che era un regalo di Ron Weasley all’amico. Uno di quegli oggetti normalissimi che qualche buontempone aveva incantato per potersi burlare dei babbani. Potter trovava alcuni di quegli oggetti divertenti.
La riprova che ciò che lei pensava di Potter era la pura verità.
Si sedette, accavallò le gambe sotto la veste da maga, mostrando solo un accenno dei morbidi stivali al polpaccio di cuoio scamosciato marrone scuro, e attese spazientita.
La porta si aprì nemmeno un minuto dopo.
- Scusa il ritardo, Ellyson. – disse in tono cordiale Potter, appoggiando il soprabito babbano e scaraventandosi sulla sua sedia. – Allora, è molto che aspetti?
Lei lo squadrò senza mostrare nessuna espressione.
- Troppo, direi. Vedo che usi sempre un Weasleys'Wildfire Whiz-bangs per pettinarti.
Lui rimase interdetto, quindi si sistemò gli occhiali sul naso e rise leggermente. La donna era sicura che non avesse capito la battuta.
- Mi spiace, ma sai, sono a capo degli Auror solo da pochi mesi, eppure ho già così tanti problemi da risolvere e cose da organizzare che spesso perdo il senso del tempo.
- Posso immaginare. Ma nessuno di noi ha tempo da perdere. Io più di te. Hai novità, Potter?
Lui si sistemò sulla sedia e sembrò per un paio di secondi più interessato a sistemare e mettere in ordine vari fogli sparsi sulla scrivania che a rispondere alla domanda della strega. Lei lo fissò, in particolare la cicatrice, nel centro della fronte. Sapeva che la cosa gli dava fastidio.
- Cosa stai guardando?
- Io nulla, Potter. Sto semplicemente attendendo una risposta.
- Novità, mi hai chiesto? Forse sì. Anche stamattina ho parlato con la preside di Hogwarts. Mi ha detto che ci sono degli sviluppi, ma che ancora doveva parlare con una persona. Sto aspettando una conferma nel giro di pochi minuti via gufo.
- Non mi è di molto aiuto questo. Sono giorni che mi dici la stessa cosa o quasi. Sto iniziando a credere che sto perdendo tempo con te. – gli disse, alzandosi e afferrando il mantello.
- Ellyson! – la bloccò lui, alzando la voce.
La donna ebbe un fremito nelle dita, mentre stringevano d’istinto la bacchetta.
- Ho un cognome, Potter. Usalo.
- Sono il capo degli Auror, Ellyson. – rispose lui con tono di sfida, rimarcando il nome della maga. – Se voglio chiamarti per nome, credo che posso permettermi di farlo.
- Credi in troppe cose, Potter. Due mesi su quella sedia, dietro quella scrivania ti hanno riempito il cervello di molto fumo. Quando inizierai a convincerti che potresti essere il degno successore di Shacklebolt?
- Cosa stai insinuando?
- Io nulla. Dico solo che nei due mesi che sei a capo degli Auror, e mi spiace dirlo parte della colpa è anche mia, sei riuscito senza che il Ministro sapesse nulla a distaccare al Ministero della Magia un plotone di Dementors per tuoi fini personali, a contattare segretamente la preside McGonagall e lanciarti in chissà quale strano gioco di cui io sono una pedina in parte inconsapevole, cosa che mi da estremo fastidio. Cosa ti prende? Hai paura che la tua fama stia scemando, Potter? Devi inventarti una qualche nuova avventura folle?
- Sei invidiosa? Forse perché tu al massimo potresti essere "Quella che è quasi fuggita da Azkaban" e non "Colui che ha ucciso Lord Voldemort"?
Ellyson sospirò a fondo. Sapeva che non si stavano simpatici, e che lui l’avrebbe preferita in una cella con dei Dementors che in quell’ufficio. Sotto la finta gentilezza di qualche minuto prima c’era il suo risentimento per dover chiedere aiuto ad una Slytherin, ad una donna che aveva preso in giro metà degli Auror di stanza ad Azkaban e che aveva schiantato il suo amichetto Ron prima di venir bloccata dal suo stesso avvocato. L’unica Gryffindor che stimasse, Hermione Granger Weasley.
- Io sono solo me stessa, e mi basta. Ora, prima che si finisca in un duello, di cui conosco il risultato finale visto che ci siamo praticamente già passati, salutiamoci quando ancora sei in piedi. Sai dove abito. Mandami un gufo quando saprai qualche cosa. Se saprai qualcosa.
Come se qualcuno lo avesse chiamato, un elegante barbagianni entrò dalla porta che si aprì da sola e si posò sulla scrivania, osservando la confusione come se ne fosse sorpreso e in parte disgustato.
Potter prese il messaggio dall’animale, che immediatamente si alzò in volo, facendo cadere vari fogli, e lesse la carta giallognola, su cui si vedeva chiaramente in rilievo il simbolo della Scuola di magia e stregoneria di Hogwarts.
- E’ la risposta che aspettavamo entrambi. – disse Potter, una strana luce negli occhi, qualcosa che Ellyson aveva visto a volte in un bambino davanti ad un giocattolo nuovo, a volte negli occhi da rettile del Signore Oscuro. Non le piacque per niente. - Questo pomeriggio alle cinque la preside McGonagall ti aspetta nel suo ufficio tramite metropolvere. Avevo previsto la situazione, e ho già provveduto a collegare casa tua con Hogwarts. Ti verrà spiegato tutto là.
- Ho tempo allora. Viaggio leggera. – mormorò lei, allacciandosi il mantello al collo e gettando il largo cappuccio sulla testa, nascondendo il viso. – Spero di vedere la tua cicatrice il più tardi possibile, Potter. – concluse uscendo.
Usando nuovamente la metropolvere, la donna ritornò nella sua casa, dove si rilassò su una poltrona. La notte in parte insonne e il nervoso che la sua visita da quello stolto di Potter le aveva lasciato ebbero la meglio sul suo corpo, e dopo alcuni minuti la testa di Ellyson ciondolò un paio di volte per poi appoggiarsi sulla spalliera, mentre lei scivolava nel sonno.
Un rumore la svegliò. C’era un leggero bisbiglio, una sorta di sordo mormorio che sembrava provenire dalle mura della casa.
- Hisser! – chiamò.
Non vi fu nessuno scoppiettio, nessuna sibilante scusa o squittio.
- Hisser! – ripeté arrabbiata.
Il brusio si era avvicinato ed era aumentato in volume. Era la voce di un uomo. Una voce pacata, senza espressione, una voce che lei avrebbe riconosciuto in mezzo a mille altre.
- Non… non è possibile. Tu sei morto. – gridò alzandosi, cercando la sua bacchetta che aveva lasciato appoggiata al piccolo e basso tavolino accanto alla poltrona.
Non c’era.
- Cerchi questa? – chiese la voce, maschile e calma. – Credi che sia così facile sconfiggermi? Che basti la tua bacchetta? – chiese con lo stesso tono che l’aveva fatta impazzire quando lo aveva sentito fin dalla prima volta. La bacchetta galleggiava a mezz’aria, come sospesa con un incantesimo. Qualcosa si stava formando dietro di essa. Una forma vaga, indistinta, fatta con nebbia e gelo.
- No. Scusa… E’ stato un riflesso condizionato. Non userei mai la magia su di te.
- Ne sono certo. – la voce ormai proveniva da un punto preciso, sopra la bacchetta, dove in una figura umana ci sarebbe stata la bocca. C’era solo nebbia chiara e in lento movimento. – Hai sempre la stessa bacchetta.
- Davvero sei qui con me? Davvero sei riuscito a sfuggire alla morte?
- Forse lei non mi ha voluto. Non sono mai stato simpatico a molta gente. Tu fai eccezione, Ellyson. Forse.
- Come forse? – chiese lei quasi urlando, avvicinandosi di un passo alla figura, che ancora rimaneva vaga ed indistinta. La bacchetta fu poggiata sul vicino mobile. – Come puoi dire una cosa del genere? Da quando ti ho conosciuto sei stato l’unica cosa per me. Ho abbandonato tutto. Famiglia, ideali, futuro, la mia stessa Casa, la tua Casa, per seguirti.
- Hai ragione. – c’era una nota di scherno nella sua voce. – Hai abbandonato proprio tutto. Anche me. Quella sera, durante la battaglia finale, hai abbandonato anche me…
- No! Non è vero! Non ti ho abbandonato!
- Ma tu sei viva, e io no. Tu non eri con me quando sono stato ucciso.
- La battaglia, ti ho perso nella battaglia… - gridò, per poi cadere in ginocchio, una lacrima a scendere lungo la guancia sinistra. – Ti ho perso.
- Mi hai perso. Hai ragione. Allora come ora… - sussurrò la voce, scemando come la sua figura abbozzata nella nebbia, che si disperse nella stanza come mossa da un vento invisibile.
- No! Ti prego! Non lasciarmi. Non lasciarmi ancora…
Una mano fredda e viscida le prese gentilmente la spalla sinistra, scuotendola.
Ellyson non vide nulla, ma iniziò a sentire un’altra voce, che sembrava chiamarla in lontananza.
- Padrona! Padrona!
La donna aprì gli occhi. Era ancora sulla poltrona, la fronte imperlata di sudore, la mano destra a stringere in maniera spasmodica la bacchetta, che stava emettendo piccole volute di fumo nero e scintille verdi che scomparivano con un crepitio nell’aria poco lontano dalla punta.
- Hisser.
- Sssì padrona. Hisssser sssono io. La padrona ha dormito troppo. Il pranzo della padrona è pronto da tempo. Hisssser ha tenuto in caldo il pranzo della padrona. Hisssser doveva sssvegliare prima la padrona. Hisssser è un cattivo elfo! – disse con uno sguardo folle l’essere, cercando di afferrare l’attizzatoio.
- Che ore… che ore sono?
L’elfo si fermò, le dita lunghe e fredde a stringere l’asta metallica, pronto a colpirsi violentemente.
- La lancetta piccola è sssul numero uno, la lancetta grande è sssul numero uno e due.
- La una. Ho dormito quasi quattro ore. Hai detto che il pranzo è pronto?
- Sssì padrona. Hisssser ora sssi punirà per averla sssvegliata in ritardo, poi ssservirà il pranzo.
- No. Ti punirai dopo, ma non con il mio attizzatoio. Non voglio sangue di elfo in giro per casa. Prima il pranzo. Devo assentarmi per un tempo imprecisato, Hisser. Parto questo pomeriggio alle cinque. Voglio che tu mantenga la casa in perfetto ordine, difendendola da qualsiasi tipo di nemico. Continua a sorvegliare Potter, e riferiscimi con il solito sistema. Hai capito?
- Sssì padrona. Hisssser ha capito e ubbidirà. Hisssser ama ubbidire agli ordini della padrona. La padrona è troppo gentile con Hisssser. La padrona gli permette di punirsssi come Hisssser vuole.
- Ma non l’attizzatoio, è chiaro?
- Sssì padrona. Non l’attizzatoio. Peccato. L’attizzatoio è caldo e fa molto male e Hisssser vuole farsssi molto male.
- Usalo, o usa qualsiasi cosa che faccia schizzare sangue, organi o altro di tuo sul pavimento o su un’altra parte della casa, e quanto torno ti libero. Sono stata chiara?
La paura di essere reso libero ebbe un effetto incredibile sull’elfo, che poggiò l’attizzatoio con cura, accarezzandolo, e retrocedendo con saltelli, balzelli e strisciate sulle ginocchia, guidò la padrona nella sala da pranzo, dove servì del raffinato cibo, per poi nascondersi sotto il lavabo come faceva quando non erano richiesti i suoi servigi.

Alle quattro Ellyson era in attesa davanti al camino. Aveva impacchettato tutto il necessario dentro la sua piccola valigia, lasciando i vestiti a casa, in quanto con l’incantesimo di Sostituzione poteva cambiarsi in qualsiasi momento, e Hisser avrebbe provveduto a pulirsi e rammendarli se necessario. Mentalmente stava perdendo tempo ripassando tutto quello che aveva infilato nella borsa soggetta ad incantesimo di Estensione Irriconoscibile, e allo stesso tempo ripensando all’orribile incubo che aveva avuto prima di pranzo. Era per forza collegato con l’altro, che aveva avuto quella notte.
Che fosse davvero possibile tornare dalla Morte? Che fosse possibile sfuggirle anche senza il Mantello dell’Invisibilità o senza Horcrux?
L’orologio a pendolo sulla parete accanto a quella del camino batté per cinque volte un suono lugubre e profondo. La polvere accese di verde le fiamme del camino.
- Hogwarts. – scandì chiaramente.
Hisser la stava salutando con in mano un grande fazzoletto sporco e sudicio come mai ne aveva visti, una piccola lacrimuccia sulla guancia scavata, appena sotto l’occhio tumefatto che si era procurato picchiandosi ripetutamente il volto contro il sifone del lavandino, con l’effetto collaterale di sturarlo.
La città di Londra, e poi la campagna scivolarono sotto di lei finché non vide la sagoma inconfondibile della sua vecchia scuola, dove venne risucchiata da uno dei camini principali.
   
 
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