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Autore: Hotaru_Tomoe    20/02/2016    2 recensioni
Sebastian Moran, deciso a vendicare la morte di Moriarty, entra in possesso di un dispositivo sperimentale che permette di entrare nei sogni altrui ed è deciso ad usarlo su Sherlock per distruggerlo, ma Arthur ed Eames cercheranno di impedirglielo.
[Crossover con il film Inception]
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro, personaggio, John, Watson, Mary, Morstan, Sebastian, Moran, Sebastian, Moran, Sherlock, Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 3


Sherlock aprì gli occhi su un paesaggio surreale: era al centro di una grande piazza quadrata completamente deserta. Il cotto delle piastrelle marroni era grezzo e ruvido sotto ai suoi piedi nudi, gli edifici attorno alla piazza erano semplici cubi dai colori pastello con piccole finestre prive di infissi o persiane e portici al piano terra, le cui colonnine sottili sembravano sfidare ogni legge della fisica e gettavano ombre nette e nere contro le pareti.
Guardò in basso, verso i suoi piedi: lui non stava proiettando alcuna ombra, e quella strana contraddizione lo incuriosì, poi alzò gli occhi verso il cielo, che era di un azzurro del tutto uniforme, come dipinto con un pennarello dalla mano di un bambino. Non c’era alcun sole lassù, ma ogni cosa era illuminata da una luce soffusa e uniforme di cui non riusciva a individuare la fonte.
Era un sogno talmente bizzarro che nemmeno gli dispiaceva troppo aver perso tempo a dormire.
Camminò sul selciato né caldo né freddo e provò a esplorare alcuni degli edifici che si affacciavano sulla piazza, ma una volta varcata la soglia priva di porta, si trovò immerso nell’oscurità più profonda, il passaggio dalla luce esterna al buio così repentino da causargli un attimo di smarrimento.
Generalmente Sherlock non teneva i sogni in alcuna considerazione: essi erano solo un prodotto dell’inconscio che prendeva forma durante il sonno, ma non essendo mai stati di alcuna utilità per il suo Lavoro, non avevano meritato alcun tipo di attenzione da parte sua.
Tuttavia quel particolare sogno aveva qualcosa di strano, a cominciare dall’ambientazione, diversa da qualunque suo altro sogno: era come trovarsi sul set di un vecchio film western che cercava di imitare la realtà senza troppa convinzione, dove gli edifici non esistevano sul serio, ma erano solo delle facciate di legno e cartongesso oltre le quali non c’era nulla, solo un palcoscenico pronto ad accogliere lo svolgimento di un dramma.
E peculiare era altresì la consapevolezza di stare sognando: normalmente non si rendeva conto di aver sognato se non al suo risveglio.
Forse avrebbe potuto documentarsi sul fenomeno e fare dei test di laboratorio in proposito? Chissà se al Barts Molly aveva l’equipaggiamento giusto?
“Insomma Sherlock, devi sempre prendere ogni cosa come se fosse un esperimento scientifico? Perché per una volta non provi a goderti il sogno e basta?”
La voce di John, dal tono divertito ed esasperato allo stesso tempo, lo raggiunse: sembrava provenire dalla sua mente e contemporaneamente dai dintorni, ma senza una fonte precisa, come la luce che illuminava quel luogo. Probabilmente dipendeva dal fatto che tutto si stava svolgendo all’interno della sua testa.
Guardando di nuovo verso la piazza, pensò che se il vero John fosse stato lì sarebbe stato entusiasta di visitare un luogo tanto bizzarro, e sarebbe stato molto più divertente esplorarlo insieme.
Per un istante solo ebbe l’impressione che ci fosse qualcuno lì con lui, ma poi la sensazione svanì e Sherlock percepì chiaramente che si stava risvegliando.

Al termine della seduta, Freddie scollegò Moran dal dispositivo wireless e gli prese le pulsazioni.
“Come si sente?”
Il colonnello appariva provato e la cosa non gli piaceva per niente.
“Bene, ma è più complicato del previsto: la mente di Holmes è iperanalitica e questo rende più difficile creare uno scenario realistico. Su una cosa avevi ragione: è meglio procedere per gradi, invece di tentare di sprofondarlo subito in un livello più basso, ed abituarlo lentamente ai sogni, finché non perderà completamente il contatto con la realtà e si dimenticherà di stare sognando.”
“E Watson?”
“Non sono riuscito ad agganciarlo completamente e trascinarlo nel sogno di Holmes. Per ora.”
Freddie sospirò: “Insisto nel dire che usare il dispositivo su due sognatori contemporaneamente è troppo faticoso per lei.”
Moran era sempre stato un abile estrattore con il PASIV, ma quel macchinario era sperimentale, testato solo su pochi soggetti. E con esiti disastrosi.
“Più faticoso che marciare un giorno intero nel deserto senza un goccio d’acqua? No, io non credo.”
Freddie non disse nulla: quello era il termine di paragone preferito di Moriarty quando si rivolgeva alla loro squadra e, dopo la sua morte, il Colonnello lo aveva adottato come proprio; Freddie sapeva bene che a Moran non importava poi molto delle attività criminali e non mirava a ricostruire l’impero che Holmes aveva distrutto. Ciò che Sebastian Moran stava inseguendo era una pura e semplice vendetta per la morte di Moriarty, convinto com’era che se il criminale non fosse stato così ossessionato da Sherlock Holmes, non avrebbe mai architettato un piano così folle da prevedere di farsi saltare le cervella sul tetto di un ospedale.
Per Freddie Moriarty era sempre stato fuori di testa indipendentemente Holmes o da altri fattori (anche se si guardava bene dall’esprimere questa sua opinione a voce alta), mentre per il Colonnello, che ne aveva in qualche modo idealizzato la figura, la sua dipartita era unicamente colpa del detective.
Un uomo più saggio avrebbe lasciato perdere tutto per ricominciare una nuova vita altrove, negli Stati Uniti o in Australia, ma Moran poteva definirsi in molti modi, tranne che saggio. E nemmeno lui, visto che restava nonostante tutto.

“John, tutto bene?” chiese Mary l’indomani, notando l’aria stanca del marito.
“Non lo so - rispose lui stropicciandosi la faccia - Dormire ho dormito, ma…”
“Brutti sogni?” azzardò lei: John era sempre molto restio a parlare dei sui incubi notturni.
“Non che io ricordi, è solo che mi sento stanco morto, come se per tutta la notte avessero cercato di trascinarmi da qualche parte.”
“Con tutti gli influenzati che stai visitando in questi giorni, non mi stupirei se ti fossi preso qualche virus” gli disse con un sorriso rassicurante, cui John rispose di riflesso.
“Probabilmente hai ragione.”

*

Arthur guardò con una certa preoccupazione i pezzi del dispositivo wireless disposti in fila sul tavolo e si dondolò sui talloni.
“Sei sicuro di sapere cosa stai facendo?”
“Per la decima volta: sì - rispose Eames, poggiando con delicatezza un microchip sulla formica bianca con una pinzetta - chi riparò il PASIV quella volta che si ruppe?”
“Lo so! È solo che questi sono gli unici due dispositivi che abbiamo, e se si rompono…”
“E se non capisco come funziona questo aggeggio, non abbiamo speranze di rintracciare il tuo Sebastian Moran, né la sua vittima designata.”
“Ti chiedo solo…”
“Di fare attenzione, lo so - lo interruppe di nuovo Eames - Posso finire di lavorare, ora?”
Arthur alzò una mano in un gesto di scusa, si alzò e andò alla finestra, controllando le ultime notizie di cronaca sul cellulare. Era passato quasi un mese da quando Ed era entrato in coma, e di lui ormai i giornali portoghesi non si occupavano più; inizialmente il caso aveva creato una certa agitazione a livello locale, perché si temeva un avvelenamento da cibo o una qualche misteriosa malattia tropicale, ma tutti gli esami clinici avevano dato esito negativo e alla fine i medici si erano arresi, dichiarando in un laconico comunicato stampa che le cause del coma restavano non acclarate.
La polizia di Lisbona aveva diffuso una foto ed i dati anagrafici dell’uomo, nella speranza che qualche parente si facesse avanti, ma non si era presentato nessuno. Da quel che Arthur ne sapeva, Ed non si era mai sposato e non aveva parenti in vita, c’era solo qualche amico, in gran parte criminali del mondo dei sogni come lui, e di sicuro nessuno di loro si sarebbe fatto avanti.
In realtà non c’era nulla che Arthur desiderasse maggiormente che presentarsi in ospedale per portare Edward in una struttura più adeguata e provare a risvegliarlo dal coma, nonostante le parole del suo vecchio maestro lasciassero ben poca speranza. Tuttavia sapeva di non poter agire in modo così diretto: le autorità portoghesi avrebbero fatto troppe domande, e aveva anche paura che qualche spia di Moran lo venisse a sapere.
No, per quanto gli costava, doveva prima di tutto tener fede all’ultima promessa fatta a Ed e cercare di salvare il sognatore misterioso prima che Moran portasse a termine il lavoro lì a Londra, uccidendo un innocente.
“Ecco fatto - esclamò Eames riscuotendolo dai suoi pensieri - E come promesso è ancora integro e funzionante.”
Aveva riassemblato l’apparecchio e lo stava testando.
“Dimmi tutto: sei riuscito a capirne il meccanismo?”
“A grandi linee: posso dirti che, senza un campione delle onde cerebrali del sognatore preso di mira da Moran, non posso accedere direttamente al suo sogno, ma posso provare ad entrarci per vie traverse.”
“Cioè?”
“Questi dispositivi wireless sono calibrati tutti sulla stessa frequenza, pertanto posso agganciarmi al segnale del dispositivo usato da Moran e da lì penetrare nel sogno.”
“Come una porta sul retro.”
“Sì, in un certo senso.”
“Stupendo, proviamoci!” Arthur allungò le mani verso il dispositivo, ma Eames scosse la testa: “Questa volta vado io.”
“Perché?”
“Perché sono io quello che sogna più in grande, tesoro.”
“Cosa vorresti fare una volta lì, fare a botte con Moran?”
“Se fosse necessario, sì: da quello che mi hai raccontato non è uno che va tanto per il sottile, e a volte la forza bruta è l’unica risposta possibile.”
“So picchiare anch’io” si difese l’altro, incrociando le braccia al petto con l’aria vagamente offesa.
“Arthur… ti ricordi quella volta in cui abbiamo trovato una lumaca nella vaschetta dell’insalata? L’hai raccolta e l’hai messa in un prato.”
“Non c’entra…”
“Lascia fare a me questa volta - insisté Eames - Tu resta qui e stai pronto a darmi il bacio del risveglio.”

A piedi nudi, al centro di un prato che pareva estendersi all’infinito, Sherlock aggrottò la fronte: come e quando era finito lì?
Oh, ma certo: si trattava di un altro sogno. Curioso, ultimamente dormiva e sognava molto più spesso del solito.
Il cielo era ancora di quello strano azzurro uniforme, senza alcuna fonte di luce eppure chiaro e brillante, e l’erba sotto i suoi piedi non era per nulla realistica: era troppo morbida e asciutta. Nella casa dove lui e Mycroft erano cresciuti, aveva corso e camminato a piedi nudi sui prati: l’erba era fredda, aguzza e pungente sotto le piante dei piedi, il terreno era irregolare e spesso umido di pioggia, l’aria era impregnata dell’odore dei fiori e del muschio, mentre in quel sogno era immobile e asettica.
Poiché lo scenario ricordava troppo quello di un ospedale e non era di suo gradimento, Sherlock chiuse gli occhi, evocando le sensazioni provate da bambino e, quando li riaprì, nell’aria si levò un leggero profumo di gigli; guardò alla sua destra e individuò una macchia di colore in quella distesa verde: un cespuglio di gigli bianchi ed arancioni. Si mosse in quella direzione e, dopo alcuni passi, l’erba cominciò a fargli il solletico sotto ai piedi e divenne più fresca.
Ovvio: quello era il suo inconscio, poteva far accadere tutto quello che voleva e modellare la realtà in base alle sue esperienze.
“Proviamo a vedere fin dove arriva il prato” mormorò a mezza voce, e iniziò a camminare, desiderando, ancora una volta, che John fosse lì con lui a condividere la bizzarra esperienza.

Eames aprì gli occhi su un aspro sentiero di montagna che si inoltrava in un bosco fitto ed opprimente, con gli abeti talmente vicini gli uni agli altri da rendere quasi impossibile il passaggio della luce del sole fino a terra.
Un cartello posto all’inizio del sentiero avvisava che quella era una proprietà privata ed era vietato l’accesso agli estrani. Toccò il cartello e la carta crepitò sotto le sue dita, sprigionando alcune scintille che lo costrinsero a ritrarre di scatto la mano. Il messaggio era chiaro: lui era un elemento estraneo a quel sogno e non era il benvenuto.
Ma nemmeno la montagna apparteneva al sogno del loro misterioso individuo: Eames la percepiva chiaramente disconnessa dalla coscienza del sognatore, era stata creata da qualcun altro e messa lì per qualche motivo. Da un abile architetto, senza dubbio.
“Moran” sillabò senza emettere alcun suono. Non solo paramilitare, ma anche estrattore, architetto e chissà cos’altro.
Di bene in meglio, insomma.
Sfilò un coltello da caccia da dietro la schiena e si addentrò nel bosco, attento a fare il meno rumore possibile. Cosa non facile, con il terreno disseminato di rovi e rami secchi che si spezzavano sotto ai suoi scarponi; a un certo punto un grosso lupo sbucò tra due alberi, guardandolo malevolo per lunghi istanti e ringhiando minaccioso, prima di scappare via nel folto degli alberi: Moran aveva già individuato la sua presenza, mentre lui non aveva ancora idea di dove si nascondesse.
“Dannazione, e io che pensavo di coglierlo di sorpresa. È bravo, il bastardo.”
Un rombo sordo si propagò in tutte le direzioni e la terra tremò violentemente, costringendolo a piegarsi sulle ginocchia per mantenere l’equilibrio.
“Un terremoto per sbattermi fuori? Ti sottrai al confronto così? - urlò, per provocare il suo avversario e farlo uscire allo scoperto - Non è leale, Moran!”
L’altro non cadde assolutamente nel tranello e non si mostrò, e le scosse telluriche proseguirono più forti di prima; sassi e terriccio presero a rotolare lungo i fianchi del monte e gli alberi si abbatterono al suolo con fragore. Eames non si arrese e provò lo stesso ad avanzare alla ricerca del suo opponente.
“Si può sapere cosa vuoi da questo sognatore? Cosa ti ha fatto per mettere in piedi un piano così complicato per raggiungerlo?”
La sua domanda restò senza risposta, perché all’improvviso la montagna collassò su se stessa, inghiottita in una spaventosa voragine. Prima di scivolare giù nell’abisso assieme ad alberi e detriti, Eames fece in tempo ad alzare gli occhi: il cielo era scomparso e al suo posto si poteva vedere un placido prato verde, capovolto rispetto al livello dove si trovava, che pareva estendersi all’infinito.
Cazzo, quell’intoppo non lo aveva calcolato.

“Eames. Eames, svegliati. Andiamo, svegliati.” Arthur puntualizzò ogni parola con uno schiaffetto finché Eames non gli afferrò la mano.
“Sono sveglio” biascicò.
“Come ti senti?”
“Sono stato meglio.”
“Sei riuscito a fare qualcosa?”
“No, Moran mi ha individuato quasi subito e ha impiegato davvero poco a sbattermi fuori. Quanto ho dormito?”
“Non più di due minuti.”
“Merda - Eames si grattò la nuca - Oltretutto ho scoperto una falla nel mio brillante piano di accesso secondario al sogno.”
“Cioè?”
“Prima di svegliarmi mi è apparso un altro livello, più profondo rispetto a quello dove mi trovavo, e dove probabilmente erano Moran e il sognatore; quello dove stavo io era solo una trappola per tenermi lontano dall’obiettivo. Quell’uomo fa paura: riesce a controllare più livelli contemporaneamente.”
“Speriamo gli si fonda il cervello - ringhiò Arthur - Pensi sia possibile per noi raggiungere lo stesso il livello del sognatore?”
Eames si tirò a sedere e tamburellò con le dita sul materasso: “Morire abbiamo visto che non funziona, visto che mi sono svegliato. Si potrebbe ipotizzare una specie di calcio inverso per scendere di livello.”
Arthur annuì convinto: “È una buona idea, ma serve del tempo per metterla in pratica.”
“Sì, almeno dieci minuti di tempo reale: dobbiamo fare in modo di avere abbastanza tempo all’interno del sogno per organizzarci.”
“Va bene, proviamoci.”

“Ancora loro! - Moran si sfilò il dispositivo, gettandolo sul letto - In qualche modo quei due stronzi sono riusciti ad agganciare il mio segnale.”
“Problemi, colonnello?”
“Sì, gli amici di Edward Stan: a quanto pare non intendono farmi concludere in pace il mio lavoro con Holmes.”
“Quindi hanno scoperto tutto?” si agitò l’uomo.
“No, quello che è penetrato è rimasto confinato sull’altro livello che avevo creato, tuttavia è gente in gamba, non mi stupirebbe se scoprisse un modo di saltare da un livello all’altro - strinse le labbra e rifletté - Hai detto che Alan e Seth ci aiuterebbero?”
“Senza ombra di dubbio, colonnello.”
“Molto bene: quei due hanno già lavorato con il PASIV, quindi sanno come muoversi in ambiente onirico. Contattali: dobbiamo tenere lontani quei due prodi cavalieri dai nostri sognatori.”
“Come procede con Holmes?”
“Troppo lentamente per i miei gusti, ma per lo meno questa volta sono riuscito ad agganciare Watson qualche istante. Il segnale però resta debole, e il sognatore secondario si sgancia facilmente.”
“Non ha pensato di fare di Watson il sognatore principale e trascinare Holmes nel suo sogno?”
“No. Se è difficile trascinare una mente semplice come Watson in un altro sogno, con Holmes risulterebbe impossibile. Inoltre si tratta di due volontà, due menti distinte: nel momento in cui entrano in conflitto su qualcosa, ho necessità che l’architettura onirica sia assolutamente stabile e la mente di Holmes è la più adatta allo scopo.”
Freddie annuì appena: “Va bene, è lei l’esperto in materia.”

“Hai di nuovo l’aria molto stanca - osservò Mary, versando a John il caffè appena fatto - Problemi al lavoro che ti tengono sveglio?”
“No, no, ho dormito tutta la notte e ho sognato di nuovo.”
“Cosa?” Mary si sporse in avanti, incuriosita.
John si strinse nelle spalle e fece una smorfia, come a dire che non era importante.
“Oh - scherzò la donna - Qualcosa di proibito, dottore?”
John rise e scosse la testa: “Assolutamente nulla di tutto ciò che immagini: non riesco a ricordare bene, a dire il vero. Era qualcosa che aveva a che fare con la campagna.”
“La campagna?”
“Forse. Ricordo che c’era un sacco di verde… probabilmente un prato, ma non mi viene in mente altro. Nulla di che, comunque” concluse, addentando un toast e dimenticandosi della faccenda.
Mary non disse nulla, ma restò perplessa: perché mai John sembrava così stanco se aveva sognato solo un innocuo paesaggio agreste?

*

In fondo quel luogo onirico non era molto dissimile dal suo Mind Palace e, una volta entrato in questo ordine di idee, gli era facile manipolare quel mondo a suo piacimento.
Ovviamente Sherlock gli diede le sembianze di Londra, ma razionalizzò i quartieri più disordinati sorti in fretta e furia nel secondo dopoguerra, deviò alcune linee della metropolitana, ma lasciò intatta una porzione dell’immenso campo verde dove si era ritrovato durante uno dei primi sogni e dove aveva iniziato a capire come fare a manipolare l’ambiente circostante.
Innalzava e distruggeva palazzi secondo il suo capriccio, facendo scomparire le macerie con un gesto della mano, stupito di come tutto quelle sembrasse via via sempre più naturale e realistico. Ovviamente sapeva bene che da sveglio, nella realtà, nulla di tutto quello era possibile e non avrebbe mai potuto comportarsi come un piccolo dio creatore, ma sempre più spesso, quando era lì, perdeva consapevolezza di star vivendo solo un sogno.
Sherlock era del tutto ignaro della battaglia che si andava consumando ogni notte su un altro livello, al limite estremo della sua coscienza, dove gli uomini di Moran contrastavano i tentativi di incursione di Arthur o Eames nel livello ove si trovava, mentre il colonnello Moran osservava di nascosto Holmes costruire il regno dove sarebbe rimasto intrappolato per sempre.

“Io penso che dovremo cambiare strategia” disse Arthur, dopo essere stato svegliato per l’ennesima volta da Eames, il cuore che galoppava per l’iniezione del farmaco: lo usavano talmente spesso che aveva dovuto chiedere a Yusuf di replicarlo e fornirgliene una piccola scorta.
“Sì, hai ragione.”
“Non stiamo approdando a nulla, questi uomini usano tattiche militari e ci impediscono di avvicinarci al livello dove si trova il sognatore.”
“Se solo potessimo sapere almeno il suo nome, potremmo avvisarlo di ciò che sta succedendo.”
Avevano provato davvero di tutto, anche a far cadere uno degli scagnozzi di Moran in una trappola onirica, un sogno nel sogno, per interrogarlo, ma il Colonnello aveva interrotto la loro azione, buttandoli fuori di nuovo.
“Non c’è proprio modo di contattarlo a livello onirico?” domandò Arthur rigirandosi il dispositivo tra le mani.
“No, non senza un campione delle onde cerebrali del sognatore. Ora come ora possiamo solo agganciarci al segnale dell’apparecchio di Moran, e non sta servendo a niente, se non a infastidirlo e rallentarlo.”
“Edward troverebbe una soluzione.”
“Il tuo maestro non può più aiutarci, lo sai” sospirò Eames attirandolo a sé in un mezzo abbraccio.
“Però Ed ha creato questi apparecchi, e stava lavorando a un sistema per risvegliare le persone cadute in coma, prima che Moran e i suoi uomini lo bloccassero, ce l’ha detto lui stesso. Se potessi parlare con lui ancora una volta, penso potrebbe aiutarci. Forse potremmo riportare indietro anche lui.”
“E come speri di avvicinarlo in una clinica di Lisbona senza destare sospetti?”
“Io non lo so - Arthur sorrise al compagno - Sei tu l’esperto delle truffe.”
“D’accordo… che diamine, tentar non nuoce! Ma nel frattempo cosa facciamo con il sognatore di Moran?”
“Purtroppo non c’è niente che possiamo fare, con i suoi uomini che bloccano ogni nostro tentativo di accesso al livello successivo, sprechiamo solo tempo notte dopo notte, e non possiamo più permettercelo.”
Con il trascorrere delle notti, il sognatore si avvicinava sempre di più al punto di non ritorno.

Sherlock aveva appena finito di innalzare una versione migliorata dello Shard, quando udì un fischio di ammirazione provenire da poco lontano, e si accigliò: aveva evitato accuratamente di inserire elementi umani nei suoi sogni, poiché ne aveva già abbastanza delle persone con cui aveva a che fare ogni giorno, senza dover incontrare idioti anche quando dormiva.
Camminò nella direzione da cui proveniva il fischio, deciso a cancellare l’intruso come faceva con gli edifici, svoltò un angolo e, senza troppa sorpresa, si trovò a pochi passi da John: l’unico elemento incalcolabile e indeducibile della sua vita, l’anarchia nell’ordine, la ribellione alle regole, la sua perenne eccezione, anche nella sua stessa mente.
John.
Sempre John.
Solo John.
L’ex soldato lo vide con la coda dell’occhio e, al contrario di Sherlock, sembrava molto stupito di trovarlo lì, ma anche contento, a giudicare dal modo in cui sorrise.
“Oh, ciao.”
“Ciao John.”
“Sei stato tu?” domandò il dottore, indicando il grattacielo appena innalzato.
“Ovviamente, chi altri avrebbe potuto farlo?”
“Ma quello vero è un po’ diverso.”
“Questo è migliore, più aerodinamico. Non mi interessa riprodurre elementi difettosi nei miei sogni se posso avere la versione perfetta.”
John scosse la testa e sorrise di nuovo.
“Tipico di te, essere così megalomane anche in un mio sogno.”
“Un tuo sogno? Dai per scontato che lo sia? Allora non sono io quello con problemi di megalomania.”
“Sentiamo, che altro dovrebbe essere?”
“Un mio sogno.”
“Ma dai, è ovvio che questo sogno sia mio.”
“Perché?”
“Perché sì, sono io quello che sta sognando.”
“No, sono io.”
John levò le braccia in aria: “Oh, lasciamo perdere o andremo avanti per delle ore.”
“Questo è un mio sogno - insisté Sherlock - e tu ne sei solo un elemento.”
Il detective pensò che sarebbe stato bello se John fosse stato lì per davvero in carne e ossa, ma purtroppo sapeva che era solo un frammento della sua immaginazione, come il prato, i gigli o lo Shard.
O almeno, così credeva.
L’unica cosa che lo stupiva era che non fosse comparso prima, visto che aveva desiderato spesso la sua compagnia.
“Come vuoi” rispose John alzando gli occhi al cielo: in quel momento stava pensando la stessa cosa, cioè che Sherlock fosse solo un prodotto estremamente realistico della fase REM del suo sonno. Esitò un istante e si leccò le labbra: “Oppure potremmo considerarlo il nostro sogno, per chiudere la discussione, che ne dici?”
Alzò gli occhi su di lui, sorridendo, e Sherlock balbettò, preso alla sprovvista: “Oh… er… mh…”
Infine annuì, perché non c’era nulla che desiderasse di più di un luogo, pur se remoto e irreale, dove potessero essere di nuovo loro, Sherlock e John, soli contro il resto del mondo. “Bene - John si posò le mani sui fianchi - stabilito che questo luogo è di entrambi, mi sento autorizzato a renderlo meno asettico.”
“Cosa vuoi fare? È perfetto così com’è - ribatté Sherlock, guardandolo con aria truce - Inoltre ci ho messo una settimana a riorganizzare il quartiere.”
John allargò un braccio a indicare la strada deserta: “Non c’è anima viva, è quasi inquietante, sembra il set di uno di quei film horror dove d’improvviso sbuca un pazzo armato di motosega che ti insegue per farti fuori.”
“È tranquillo e privo di seccatori, per me è il luogo ideale, e dato che l’ho progettato io, non apparirebbe mai un serial killer così scontato.”
“Non c’è un negozio e nemmeno un ristorante” insisté John.
“Possibile che pensi solo al cibo, anche in un sogno?”
“Sempre meglio che non pensarci mai. E comunque - proseguì cocciuto - voglio fare qualcosa per questo mortorio.”
“Cosa suggerisci - domandò Sherlock, incrociando le braccia al petto, vagamente offeso - Vuoi organizzare una festa di quartiere?”
A John si illuminarono gli occhi: “Ecco, questa è un’idea brillante.”
“Scherzavo. No, John, ti prego!”
Ma il dottore non lo ascoltò: si concentrò intensamente e poco dopo, dal fondo della via, sbucò una banda coloratissima che suonava un chiassoso motivetto popolare, con tanto di majorette al seguito, e una pioggia di coriandoli e stelle filanti cadde dall’alto, riflettendosi sulle superfici a specchio degli alti grattacieli.
“Sembra di stare all’interno di un caleidoscopio” gridò John facendo un giro su se stesso.
Inizialmente Sherlock si rabbuiò, voleva dirgli di smetterla di portare disordine nel suo progetto di città perfetta, ma poi guardò il suo blogger, naso all’aria ad ammirare la pioggia di frammenti di carta colorati: non ricordava di averlo visto così felice da mesi, e si limitò a sospirare.
“La prossima volta però la musica la scelgo io.”
John si voltò a guardarlo, pronto a ribattere, ma qualcosa lo bloccò e invece rise di cuore.
“Cosa c’è, ho detto qualcosa di strano?”
“No, è solo che hai dei coriandoli nei capelli.”
La testa di Sherlock era punteggiata da cerchietti di carta di ogni colore, una visione talmente buffa che John rimpianse che quello fosse solo un sogno, perché avrebbe voluto proprio fargli una foto.
Il consulente investigativo si passò una mano tra i capelli, irritato, ma non riuscì a eliminare tutti i coriandoli.
“Aspetta.” John gli si avvicinò e, senza pensare, gli scrollò via i coriandoli dalle tempie, accarezzandogli i ricci scuri.
Sherlock trattenne brevemente il fiato e anche John sussultò, rendendosi conto di ciò che aveva fatto.
“Grazie” mormorò Sherlock.
“Di nulla” rispose John, trattenendo ancora un istante la mano vicino al suo viso.

“Siete sicuri?”
“Sì, colonnello: questa notte non è penetrato nessuno nel sogno di Holmes” affermò Alan, un corpulento uomo di colore dalla testa rasata.
“Tutto il confine tra i livelli era pulito - confermò Seth - Devono aver rinunciato.”
“Può essere. Noi comunque non abbasseremo la guardia, non ora che siamo così vicini all’obiettivo.”
“Quanto pensa ci vorrà ancora?” chiese Freddie a Moran, una volta che gli altri due mercenari ebbero lasciato il loro appartamento.
“Non ne ho idea. Un mese, forse di più, perché?”
“Perché tutta questa adrenalina contenuta nel farmaco non fa bene né a lei, né a loro.”
“Hai detto qualcosa ad Alan e Seth sui possibili effetti collaterali?”
“No, certo che no - sospirò Freddie, che non avrebbe mai tradito il colonnello - ma…”
“Continua così, soldato” disse Moran, posandogli una mano sulla spalla, e con quello considerò chiusa la conversazione.

   
 
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