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Autore: theuncommonreader    23/02/2016    11 recensioni
1470. In un paesino sperduto dell'Umbria, i fratelli Nerio, giovane poeta appena messosi in ridicolo agli occhi della buona società del posto sbandierando ai quattro venti il suo amor perduto, e Brunella, scura di capelli, di pelle e di cipiglio quanto il suo nome, ballano sulle note della "Partita Crudele", danza di tradimento e gelosia, sfuggendosi e rincorrendosi sotto lo sguardo del nobile Angelo, che li segue tormentato e bramoso.
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“Ami più lui che me.”
Un gemito sfugge dalla bocca di Nerio.
La Partita Crudele termina, e il muro di ballerini si sgretola. Nerio si sistema meglio contro Brunella, senza staccare gli occhi da Angelo – e intanto le carezza la mano libera, dove si staranno formando i segni della sua stretta.
“Ma ora penso, fratello mio… che la Crudele si possa ballare anche a tre.”

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Storia partecipante al contest Le membra fanno a l'alma velo indetto da DonnieTZ sul forum di Efp. Betata dalla sempre splendida Flora.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest, Triangolo | Contesto: Rinascimento
- Questa storia fa parte della serie 'Ubi Amor, Ibi Bellum'
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*La

Partita

Crudele*

 

 

 

 

 

 

“Shadows settle on the place that you left

Our minds are troubled by the emptiness.

Destroy the middle it’s a waste of time

from the perfect start to the finish line.”

“Youth”, Daugther

 

 

 

 

 

Il suono squillante dei flauti danza nel cortile, penetrante come un sottile graffio di artiglio affilato.

La melodia allegra, ritmata dalle bacchette che battono lente sulla pelle tesa dei tamburi, nulla può per risollevargli l’animo. Il refolo d’aria troppo calda, che fa tremare appena le fiamme delle fiaccole, gli si insinua sotto la stoffa del farsetto e della camicia, incollata alla pelle umida.

Giornea e giubbone [1] giacciono abbandonati sulla panca di legno ancora tiepida del suo calore – certe libertà sono concesse a spiantati e poeti persino all’esimia presenza del cardinale di Santa Sabina, che, dal suo trespolo a capotavola, veglia sugli invitati alla festa come un avvoltoio benevolo.

Nerio dubita di offendere con la sua vista discinta i grandi occhi acuti di Bernardo Eroli, tondi come quelli di uno sparviero su un letto di pelle giallastra e rugosa: per quanto onnivedenti come quelli del Signore Iddio, il Cardinale è troppo impegnato a esplorare ogni anfratto addobbato in suo onore – non senza fare una stima di quanti denari si alleggerirà la sua borsa per soffiarlo a quei folli Capococcia.

Vendicare le povere Benedettine sfrattate da quegli arricchiti è la sua nuova segreta missione; tanto segreta che se ne sussurra persino a Castel Bufone, che pure è così lontano da certi intrighi.

Gli unici ignari, gli ingenui padroni della casa, entusiasti come fanciulli di raccogliere nella loro umile dimora le genti più nobili del paese. E che gran bella collezione di gradassi di sangue blu, tutti presi in conversazione davanti a calici di vinello e vassoi cacciagione arrostita; quegli stessi che snuderebbero le daghe a incontrarsi in un vicoletto buio: Eroli e Cardoli, Maffei e Montoro e Marinata, divisi tra Papa e Imperatore [2] ma tutti egualmente ansiosi di ingraziarsi il gran Cardinale.

Le sottigliezze dell’arte dei politicanti non catturano l’attenzione di Nerio; il suo sguardo è tutto calamitato dalle coppie che danzano, disposte in due file, di fronte all’alto pozzo di pietra al centro della piazzola, dove le loro ombre si disegnano a ogni nuova figura del ballo.

Segue con gli occhi i lunghi ricci biondi che ondeggiano a ogni movimento del proprietario, il giovane dall’aria ridente che rincorre, spezzando i passi [3], la sua dama – una Cardolina dalla chioma liscia che veleggia libera oltre le spalle tonde, fasciate di impalpabile seta.

Si sente soffocare, Nerio, e avverte forte la mancanza di Castel Bufone e dei suoi venti indomabili, che, pure in estate, paiono spirare dall’abisso su cui si affaccia. Il bel palazzo dei Capococcia non è poi tanto lontano da casa sua, ma gli pare di aver viaggiato per il mondo intero prima di ritrovarsi lì, esausto come un naufrago sbattuto dalla corrente dove meglio le è parso.

Porta il calice che stringe nella mano destra alle labbra, lasciando che il vino denso offerto dalla casa alimenti il fuoco che sente nel ventre.

Di fronte a lui, Angelo danza con sfacciata gaiezza: il riso gli allarga la bocca e gli scopre i denti dritti, forma rughe precoci attorno agli occhi distanti.

È innamorato, il suo signore: Nerio non è cieco di fronte alla verità.

Il pensiero scatena dentro di lui l’eco di un sentimento, senza che esso possa increspare la superficie. I fumi dell’ebrezza, incipiente dopo l’ennesimo fiume mostoso che gli caracolla in gola, lo avvolgono come un bozzolo di ghiaccio che le emozioni non riescono penetrare.

Neppure quando incrociano per caso gli sguardi, mentre Angelo con una mezzavolta [4] si gira a fronteggiare la sua inafferrabile Cardolina e le fa una riverenza – quando il rosso delle sue guance, tanto visibile alla luce della torcia postagli accanto, potrebbe benissimo essere vergogna, la piega degli occhi, rimpianto – neppure allora rabbia o dolore riescono realmente a sfiorare Nerio.

Che ballino pure l’Amoroso [5]: la fanciulla e la sua dote rimarranno irraggiungibili per il suo Angelo, quanto egli lo è ormai per Nerio – che volta loro le spalle e si ritira nell’oscurità del porticato.

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“Messer Nerio mio.”

Il padrone di casa chioccia giulivo al suo indirizzo, come una gallinella ruspante, ma l’ha scovato col fiuto di una faina. Posa un’enorme mano da contadino sul ventre prominente cinto dal cordone del gonnellino troppo corto; l’altra è sulla spalla di Nerio, che quasi barcolla sotto l’energia delle sue pacche.

Il calice del giovane, sempre rapido a riempirsi di nuovo liquido scuro come la Nera [6] di notte, giace abbandonato nella nicchia in cui si è rintanato. Il vino se l’è scolato tutto, e gli rende molli le gambe e leggera la testa.

“Messer Nerio, il vostro signore ci ha promesso da voi un poemetto, un sonetto, un vostro scherzo per allietare la festa. Niente ci farebbe più piacere, alla Signora mia e a me, di sentirvi cantare per il Cardinale nostro e per noi tutti.”

Non gli sta domandando un piacere – persino così annebbiato, l’ordine celato nelle sue parole è per Nerio cristallino. Vagamente concepisce l’idea di rifiutarsi, ma il pensiero è presto abortito; si passa un palmo sudato sulla fronte che pulsa, scostando la frangia nera dal viso, caldo e freddo assieme, e si avvia con un cenno d’assenso al centro della scena.

Le risa degli ospiti sono un’eco cupa e spezzata alle orecchie, le luci dardeggianti gli confondono i sensi.

Le danze si sono quietate, e i musici accordano gli strumenti in una cacofonia di suoni scomposti. Nerio, per qualche ragione, immagina il maestro di casa Capococcia fissare male il padrone, carezzandosi la lunga barba gialla – la bocca, una fessura contrariata.

Da qualche parte tra nobili impigriti, avvicinatisi ai tavoli per riprendere le forze, e servi alacri che si affrettano a tagliare carni e a svuotare botti, Brunella lo starà fissando e disapprovando. Non gli interessa; Nerio monta sul piccolo palco allestito per lui traballando sui bassi gradini di legno.

A malapena ascolta il rombo tonante di Capococcia mentre lo introduce (“Aprite le orecchie per Nerio Anerio, musico e poeta, il Dante narnese che ci canterà di scherzi d’amore”), più occupato di far cenno al suonatore di liuto di passargli lo strumento – il proprio giace disertato, intoccato da giorni a Castel Bufone.

Affatto diverso dal proprietario, dunque.

Gli viene in mente che dovrebbe dir qualche parola, ma riesce solo a inchinarsi – basta quella semplice mossa a fargli girare la testa, ma la sua riverenza è profonda e beffarda, a tutti e a nessuno – a Angelo, solo per lui. Si raddrizza e si schiarisce la voce mentre dalla bocca i settenari [7] rotolano fuori di loro volontà, le dita che pizzicano le corde del liuto. La musica è un dolce, malinconico accompagnamento al suo canto stonato.

 

“In ’lo loco che lasciasti,

Ombra ormai si stende

In poggi tanto vasti

El pensier nostro sperde.

 

Quel che in mezzo venne

Distrutto sia. Son che ore

Gettate via, tra fine

Trista e bell’albore.

 

E se anco avete l’fiato

In corpo, cieca Dea dona 

A voi bacio bendato.

 

‘Ché noaltri de ‘sto lato

Faticando respiriam

De polmone ruinato.” [8]

 

Oh, terribile carme [9] di ubriaco.

Brunella l’odierà – che faccia.

Solo dopo che l’ultima nota si è dissolta nel silenzio agghiacciato Nerio si concede di respirare. Lacrime prive di suono scorrono dagli angoli degli occhi e si mescolano al salato del suo sudore mentre discende dal palco (“Non possiamo più, Nerio: è peccato mortale questo trasporto che mi lega a te. Il Mondo, il Signore, la Natura stessa ci remano contro. Alla luce accecante del giorno, pure i sogni più belli si rivelano per le illusioni che sono.”), quasi caracollando e rabbrividendo nella brezza calda.

Una mano ferma, secca e asciutta, lo prende per il polso con la stretta di tenaglie di ferro.

Riconoscerebbe quel piglio tra tutti.

La sente parlare senza ascoltarla. Non si rivolge a lui, lo capisce dal tono cinguettante: quello, lo riserba agli altri, a chi sta sopra di loro. Il suo canto di fragile, allegro uccellino.

Chi lo trascina a danzare è una cupa gazza, avvolta nel nero del vestito, la chioma sciolta come ali lucide. [10]

Sono i primi a giungere in mezzo alla piazzola, mentre i musici si affrettano a riempire la quiete imbarazzata prendendo a suonare una bassadanza. Prima, un gemito di viola; poi, Nerio riconosce la melodia.

La Partita Crudele diffonde i suoi cupi accordi: la sua avversaria gli tiene la mano, il suo carnefice gli passa accanto con una Cesi al braccio, fantasmi neri e arancio.

Gli occhi chiari di Angelo scivolano su di loro, Anerio fratello e sorella, bruni di fuori e bruni di dentro. Si morde le labbra sottili mentre indugia il tempo di un attimo e si posiziona con la sua dama da qualche parte dietro di loro, assieme alla fiumana di altre coppie che si unisce a quello spettacolo di pupazzi danzanti nei propri affanni.

Nerio credeva di non poter sentire più nulla, ma è disgusto quello che gli invade la gola, dal sapore di bile, mentre le suole delle loro calze [11] prendono a risuonare sui sanpietrini.

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“Ti guarda tanto, il nostro giovane signore. E con l’occhio ammirato.”

Le dita magre di Brunella gli scivolano lungo il collo nudo fino sulle spalle e Nerio rabbrividisce di piacere mentre le sue labbra gli sfiorano uno zigomo affilato – ruvide e riarse sulla guancia sbarbata.

“Sul serio…?”

Non osa sperare.

Da quel primo giorno a Castel Bufone, lo scirocco, che soffia senza posa ululando fuori dalla sua finestrella, pare avergli portato via il senno e il buonsenso: mai avrebbe pensato di trovare un protettore che sapesse comprenderlo; la corrispondenza di sensi [12] che lo lega a Angelo Arca ha del miracoloso.

Nerio abbassa le palpebre e su quella membrana di carne vede disegnarsi il volto del giovane come un affresco d’artista. Ha davvero qualcosa di un messo del Signore, che traspare dalle iridi pallide come una moneta d’oro sul fondo di marmo di un’antica fontana.

Usano sedere vicini, mentre Nerio gli mostra i suoi – i loro – versi, tenendo stretti i fogli di pergamena per non lasciarseli strappare dall’aria dispettosa. Il profumo di Angelo è quello del sole, gentile come i suoi sorrisi; spesso le loro mani si sono sfiorate giocando coi fili dell’erba scura che viene su nei boschi attorno a Bufone, le membra accostate tanto da scambiarsi il calore.

Il suo cuore trema come scosso dalla febbre.

“Mi guarda, dici…?” ripete, e le unghie di sua sorella gli artigliano la carne nuda sulle clavicole fino a fargli male, imprimendo le loro mezzelune come un marchio.

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Due graziose continenze [13], sinistra, destra, poi prendono a camminare, e ogni passo è una pugnalata di rabbia alla pietra del pavimento. Nerio fissa Brunella mentre avanzano, un semplice [14] poi un altro, riverenza, mezzavolta.

Non è graziosa, Brunella.

Nerio ha posato gli occhi su donne, uomini più belli di lei; ha conosciuto – e ha visto così poco, nella sua vita – creature più mansuete, più accomodanti, pronte a piacere e a compiacere. C’è però una fiamma, in sua sorella, più luminosa di qualunque torcia.

Non c’è in lei il tiepido calore di Angelo, tenero alito che odora di buono; Brunella brucia quanto le sue parole.

“Che sciocchezza hai fatto, folle. Come t’è venuto in mente di recitare quell’obbrobrio proprio stasera? Se il vino di casa ti ha dato al cervello, potevi dir di no. Pure scappare via con la coda tra le gambe avrebbe avuto più dignità di quel disgraziato piagnisteo.”

Mentre si inchinano, Nerio strizza le dita di lei nelle proprie tanto forte da spezzare quasi le fragili ossa. “Mi spiace che i parti del mio animo tormentato non siano di tuo gusto, sorella cara,” le sputa velenoso prima di procedere per sbieco nella direzione opposta, separandosene volentieri.

Nel tragitto, Angelo le passa accanto – troppo vicino.

Una mano pallida sfiora quella color oliva di Brunella in un gesto intimo che spezza il cuore di Nerio una volta di più; la nebbia che l’ha avvolto sta svanendo, e ogni sentimento pungola la carne viva come una punta di daga.

Si sbagliava, infine: può ancora sentire qualcosa.

Gira su se stesso in una mezzavolta, per tornare faccia a faccia con l’avversaria. Si fissano, Nerio e la traditrice, e si avvicinano di nuovo a passi lenti, a ritmo del lamento di cornamusa e viola.

“Se non riesci a produrre nulla che non faccia lacrimar sangue è meglio che lasci a me il comporre, per il momento,” sibila lei, quando sono l’uno di fronte all’altra – le altre coppie troppo lontane per poterli ascoltare.

“Non possiamo perdere il prezioso favore degli Arca per i tuoi sciocchi colpi di testa.”

Nerio vorrebbe agguantarla per il collo lungo fino a spremerne la vita; invece, si porta dietro di lei, per poi allontanarsi di nuovo di gran passo doppio. [15]

“Fortunata tu che, nella tua felice condizione di donna, puoi vivere senza pensieri il nuovo amore,” ribatte mentre si inchina, derisorio, e le afferra il polso sinistro.

“Fortunata io?”

L’ira di Brunella quasi si taglia e lo taglia. “Fortunata io che, per quello che il Signore ha voluto mettermi tra le gambe, mi trovo a essere un peso per i miei cari e a nascondere il mio unico talento dietro la penna di mio fratello?”

“Non fare la vittima. Conosco bene il tuo giardino e ancor meglio chi altro vi sia penetrato.”

Ha visto la verità scritta sui loro volti: è stata lei a stappargli via il suo Angelo – non perché sia più bella, più cara, più geniale di lui, no. Per quel taglio tra le cosce.

Brunella gli trema tra le dita. La pelle è morbida ma secca, abbarbicata all’osso.

“Come avresti potuto tenerlo legato a te?” gli chiede, tra un passo semplice e l’altro. “I dubbi lo divorano ed egli teme il peccato ben più di quanto facciamo noi. Credi che mi ami? Forse, ma con me pensa di poter essere perdonato, ché la sodomia è ben più grave colpa di una semplice ruzzolata tra le lenzuola. [16] Ecco cosa gli importa.”

Sodomia: a parole a tutti odiosa, ma lo sa il Signore Iddio quanti, anche tra i più stretti collaboratori di Sua Santità, si dedichino al piacere greco, dietro le porte chiuse delle loro alcove grasse di sete e broccati. Davvero il loro amore può essere ridotto a un semplice motto, e da esso così distrutto? Bel sentimento, che cede alle convenzioni e al biasimo altrui, divorando se stesso e lasciando solo tradimento e morte.

“Tu per primo lo hai spinto a sposarsi, a trovarsi una giovane che gli desse dei figli. Essere la sua sposa non posso, ma fossi io a concepire un bastardo, resteremmo legati agli Arca finché viviamo. Chi vorrebbe mai una zitella che ha superato i venti inverni? La reputazione è per me poco sacrificio.”

Nerio non vuole ascoltare.

(“Dovrete sposarvi, prima o poi, amor mio, e perpetuare la vostra casata. Forse che una moglie al vostro fianco renderà meno puro, meno forte il nostro sentimento?”)

Si strappa via da lei nuovamente, affrettando i passi e scrollando il capo come uno stallone che, ostinato, rifiuta la briglia. Quando urta contro un altro corpo, riconosce subito a chi appartiene – col cuore sciocco prima che con la mente appena sveglia.

Si guardano, lui e Angelo, per un lunghissimo momento.

Attorno a loro, gli altri danzatori continuano le figure del ballo, imperterriti nel lento trascinarsi della bassadanza; si muovono aranciati alla luce delle torce, chiacchierando sopra la musica struggente che si insinua discreta nelle orecchie di Nerio.

Sono vicini, più di quanto lo siano stati dacché Nerio voglia ricordare; tanto da respirare il fiato l’uno dell’altro – quello di Angelo porta ancora le tracce della carne di fagiano arrostito offerta per cena.

Le labbra dischiuse di Angelo fremono, come volesse dire qualcosa ma le parole gli si incagliassero in gola. Con un guizzo di sopracciglio scuro, Nerio lo invita a parlare, ma nessun suono esce dalla bocca che ha baciato mille e più volte – la stessa che con poche frasi lo ha distrutto.

“Mio Signore, mio fratello è stanco. Concedeteci un attimo di riposo, prima di riprendere le danze.”

Sempre in agguato, la gazza dal becco appuntito.

La malia si rompe, e gli occhi di Angelo non sono più nei suoi. Nerio afferra saldo la mano di Brunella – un poco per farle male, un poco per tenersi a lei come un naufrago allo scoglio affilato.

“… Certamente.”

La replica di Angelo non è pronta. Esita. La sua dama anch’ella lo reclama, gridando il suo nome.

Nerio li guarda, prima Angelo, poi Brunella.

Poi, si lascia condurre via.

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Non è morbido, il seno di Brunella.

Nerio ci tiene accostato il viso, premuto contro la stoffa scura del vestito, contro la carne che si nasconde al disotto.

Le dita di Brunella si inanellano coi suoi capelli, mentre la Crudele suona in sottofondo, nel cerchio di luce dalle torce. La nicchia che sua sorella ha scelto per loro è avvolta in misericordiosa oscurità.

Nerio socchiude le palpebre, ascoltando il respiro lento e regolare di lei, avvertendolo allargarle e restringerle la gabbia del torace. Brividi di piacere lo attraversano mentre si calma.

Angelo è poco lontano, al tavolo delle cibarie.

Il Cardinale in persona gli sta parlando, ma il giovane fissa un punto lontano oltre la folla – verso di loro. Il mirto ha lasciato il suo viso, che pare quasi un teschio dalle orbite vuote.

“Te l’ho portato via perché sono gelosa.”

Brunella lo carezza con l’amore di una madre, mentre parla. Nerio non riesce a ricordare un singolo attimo bello passato con Angelo – i loro pomeriggi sotto gli abeti dalle foglie scure, a sognare che il loro amore fosse sempreverde come quei rami.

“Ami più lui che me.”

Un gemito sfugge dalla bocca di Nerio.

La Partita Crudele termina, e il muro di ballerini si sgretola. Nerio si sistema meglio contro Brunella, senza staccare gli occhi da Angelo – e intanto le carezza la mano libera, dove si staranno formando i segni della sua stretta.

“Ma ora penso, fratello mio… che la Crudele si possa ballare anche a tre.”

 

POSTFAZIONE

 

Questo pezzo è ambientato nella mia città, Narni, in Umbria, ai tempi parte dello Stato Pontificio, nell’anno 1470. I luoghi nominati sono tutti realmente esistenti tra le località di Narni e Montoro.

Castel Bufone, che probabilmente prende nome dagli “sbuffi” di vento scirocco particolarmente avvertiti per via della posizione a picco di un precipizio, viene abbandonato nella prima metà del 1500 a causa di pestilenza e carestia. Ad oggi resta solo la torre, trasformata in una torre campanaria.

Il palazzo dei Capococcia, precedentemente un convento di benedettine, è oggi il Castello di San Girolamo, che a lungo ha ospitato prima un’abbazia e poi una scuola. Venne ceduto dai Capococcia (famiglia realmente esistente, così come tutte le nobili nominate nel pezzo) a Berardo Eroli, illustre membro dell’élite locale e cardinale di Santa Sabina, nel 1471.

Nonostante Nerio e Brunella siano personaggi inventati, il loro cognome, Anerio, è realmente esistente. Felice Anerio, originario di Narni, fu un famoso compositore nella Roma degli inizi del 1500, e così suo fratello.

La figura di Angelo vuole rifarsi a quella di Egidio Angelo Arca, nato attorno al 1450 e morto a sessant’anni nel 1510. In età matura, egli ebbe importanti incarichi presso Stato Pontificio e fu un prediletto di papa Giulio II.

Per quanto riguarda i balli citati, le coreografie e i passi sono quelli originali citati nel trattato quattrocentesco di Guglielmo Ebreo da Pesaro, uno dei primi sull’arte del danzare, in cui si catalogano bassedanze e balli del tempo.

La Partita Crudele, o La Crudele è una bassadanza che, a quanto ho compreso dalle mie ricerche, può realmente essere danzata sia in coppia che in tre sulla medesima base musicale.

Esclusi personaggi e ambientazione, le vicende sono frutto della mia fantasia.

 

 

NOTE

 

 

[1]: Nel XVesimo secolo, la giornea (precedentemente una veste militare) divenne una sopravveste senza maniche stretta in vita da una cintura e aperta ai lati, indossata sopra gli abiti da uomini di ogni condizione. Il giubbone era una giacca corta alle costole portata sopra al farsetto e alla camicia.

[2]: Nonostante le lotte tra Guelfi e Ghibellini fossero terminate nel secolo precedente, nella città erano ancora molto sentiti gli antichi schieramenti.

[3]: Lo spezzato è un passo di danza eseguito partendo col piede sinistro e strisciando il piede destro.

[4]: La mezzavolta si esegue ruotando di centottanta gradi su se stessi, utilizzando passi diversi a seconda della danza.

[5]: L’Amoroso è una bassadanza (danza che prevede più di una coppia o di un trio di ballerini) a due citata nel trattato quattrocentesco di Guglielmo Ebreo da Pesaro, più notoriamente a servizio di Alessandro Sforza. Essenzialmente, nella danza prima l’uomo si fa rincorrere dalla donna, poi i ruoli si invertono.

[6]: Fiume che scorre nei pressi di Narni, aggettivata dagli abitanti al femminile.

[7]: Versi a sette sillabe. Il sonetto in settenari è una variante realmente esistente di quello in endecasillabi, diffusosi nel XVesimo secolo.

[8]: Si tratta di una rivisitazione della quote iniziale, riscritta da me nello stile del tempo.

[9]: Sinonimo latineggiante di “componimento poetico cantato”.

[10]: Il vestito si diffonde nel XVesimo secolo. Si tratta di un abito che si stringe in vita, indossato sulla sopravveste e la camicia, ed è una variante estiva in seta della gamurra invernale, in lana. In quanto appartenente al ceto medio, Brunella indossa un tessuto scuro e privo di fronzoli.

[11]: Uomini e donne usavano indossare calze suolate piuttosto che scarpe vere e proprie.

[12]: Una citazione quasi perfetta da I Sepolcri di Foscolo.

[13]: La continenza è un passo di danza eseguito saltellando sul posto in modo da posizionarsi leggermente di trequarti.

[14]: “Semplice”, “scempio” o “sempio” è la denominazione di un singolo passo, eseguito partendo col piede sinistro e chiudendo col destro. Viene chiamato, appunto, anche “singolo”.

[15]: Un passo doppio si esegue partendo col piede sinistro. Si tratta di una sequenza di tre passi chiusa col piede destro, alzandosi leggermente sulla punta del sinistro.

[16]: Nella graduatoria dei peccati, la Lussuria figurava come peccato minore rispetto alla Sodomia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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