Danse Macabre.
La
sposa vestiva di nero nel giorno delle sue nozze, bardata di colpa e dolore.
Il
suo velo era intessuto di bugie, ai piedi calzava le speranze tradite di un
mondo perduto. Il suo bouquet erano fiori di sangue, il rosso cremisi le
macchiava il petto come se il suo cuore avesse deciso di piangere via la vita.
E
lacrima dopo lacrima, il meschino lamento della realtà riempiva le orecchie di
coloro che avevano creduto ed avevano perduto.
Le era stata promessa una vita da fiaba,
le avevano detto che sarebbe stata regina.
Cos’era rimasto?
L’orologio
batté l’ora per dodici volte, quando la sposa uscì dalla sua camera da nubile,
lasciandosi alle spalle i giochi ed i diletti degli anni spensierati, quando la
luce splendeva sui suoi capelli d’oro e le canzoni d’amore avevano accarezzato
la sua pelle di pesca.
Il
cielo era buio.
Buie
erano le stanze della casa che aveva accolto i suoi passi di bambina,
silenziosi i saloni in cui si era consumata la bellezza effimera di una bugia
durata troppo a lungo.
La
sposa camminava, nella quiete e nel buio, senza lasciare che i suoi pensieri
infrangessero il silenzio di quelle mura senza vita.
Non
c’era uomo o donna, eppure le anime attendevano il suo arrivo. Gli invitati a
quella cerimonia dell’assurdo aspettavano di festeggiare con lei, la
attendevano a braccia aperte nel buio delle ombre.
Attendevano la regina del loro mondo,
che doveva morire com’era morto il suo sogno.
C’era
silenzio, eppure la sposa sentiva i loro sussurri eccitati, agitati, bloccati
in quel limbo fra la realtà e la fantasia che li aveva ospitati quando ancora i
loro corpi non si erano dissolti nell’Oscurità e le bugie profumavano di
un’ostentata verità.
Non
c’era musica, per la sposa vestita in nero. C’erano solo le voci. Nessuno avrebbe applaudito per lei, l’ansia per il suo
arrivo non avrebbe fatto tremare alcuno sposo.
Ci
sarebbe stata soltanto la perfezione del silenzio. La perfezione di un’attesa
macchiata di morte, di una empasse fra l’esistenza e l’assenza, l’attesa fra
due battiti del cuore, fra due respiri silenziosi, una cicatrice nel perfetto
tumulto della realtà viva, cui la sposa non desiderava più appartenere.
Una
cicatrice.
Imperfezione nella realtà che non le
apparteneva. Il desiderio di perire come il mondo che aveva tanto amato. Il
mondo che la Luce aveva distrutto.
Ma
lei era una sposa del buio, niente avrebbe mai saziato quella ferita nel suo
petto, in cui i sogni e le speranze infrante avevano trovato giaciglio,
alimentate dalla fredda benevolenza di
ciò che non era mai stato davvero e che non sarebbe stato più.
Una
cicatrice nella realtà, ecco cos’era lei. Una cicatrice nel volto perfetto
della vittoria, un’imperfezione che non poteva essere perdonata.
La
sposa era il prezzo che la Tenebra aveva pagato per quel dominio di bugie e
ricatti, il frutto di un amore malato, deviato, che di reale non aveva nulla e
che non poteva trovare requie nell’ovattato mondo della fantasia.
Frutto di una società finita, non si
sarebbe mai adeguata, non si sarebbe mai rassegnata.
Una
cicatrice che la perfezione non poteva tollerare. Un errore che doveva essere
pagato ed eliminato, affinché la bellezza potesse trionfare com’era suo
destino.
Il
destino scritto dal vincitore, l’unico capace di distinguere la verità
dall’illusione. L’unico capace di indicare ed accusare le imperfezioni, le
cicatrici, per il loro essere diversi, per il loro credere nell’incanto delle
ombre che mai più avrebbero potuto attraversare il suo mondo.
Ma
lei era una sposa di Tenebra ed in essa doveva ritornare, così che la cicatrice
potesse diventare perfezione e la perfezione cicatrice, così che sogno ed
illusione potessero fondersi e diventare nuova realtà, nuovo sospiro di vita
per un corpo che la vita aveva smesso di conoscerla.
Non
ci sarebbe stato lo sposo, al matrimonio. Non ci sarebbero stati voti nuziali
né balli.
La
sposa avrebbe brindato dal calice del suo mondo perduto, abbracciando
quell’eternità che, finalmente, avrebbe fatto risplendere le ombre sui suoi
capelli d’oro.
Bastò un sorso.
Si
stese sul suo giaciglio nuziale, attendendo la
sua sposa.
La
sentì giungere lentamente, come una carezza sulla pelle un tempo di porcellana.
Le sfiorò le gambe, le braccia, le baciò gli occhi e le labbra, posandosi,
infine sul suo petto.
La
giovane dai lunghi capelli d’ebano fu la prima a scorgere le spose nel loro
manto di nera perfezione. Urlò, chiamò affinché qualcuno fermasse quello
scempio che la Luce mai avrebbe
voluto toccare.
Ma
la sposa vestita in nero aveva abbracciato la Perfetta Eternità e nessuna cicatrice avrebbe più deturpato il
candore perfetto di quel mondo che per sempre le sarebbe appartenuto.
***
Suicidio in Cornovaglia. Giovane Strega
trovata morta nella casa dei genitori.
Daphne Greengrass,
20 anni, è stata trovata morta dalla sorella minore questa mattina all’alba nella
sua camera. Stando ai primi accertamenti, sembra che Miss Greengrass
abbia assunto del veleno dopo aver atteso che i familiari andassero a dormire.
Gli Auror escludono la pista
dell’omicidio, la famiglia Greengrass ha confermato
che la giovane soffrisse da ormai due anni di una forma estremamente acuta di
depressione. Ulteriori aggiornamenti a pagina 7.
Blaise
Zabini non era mai stato dotato di grande fede.
Non
credeva in alcuna divinità, non credeva nella missione del Signore Oscuro, non
credeva che esistesse qualcuno la cui vita avrebbe mai potuto interessargli al
punto da pregiudicare la propria.
Semplicemente,
Blaise credeva soltanto in se stesso e tanto gli era bastato.
Almeno
fino a quel momento.
Aveva
abbandonato il giornale dopo aver letto la
notizia. Draco lo aveva avvisato, gli aveva detto di non aprire il Profeta
finché non l’avesse raggiunto. Draco aveva tentato di fare la cosa giusta, come
si era ripromesso quando la Guerra era finita.
E
fare la cosa giusta comprendeva salvare il suo vecchio amico dalla verità.
Quella
mattina, la Gazzetta era stata consegnata da un corvo. Il frullare d’ali era
subito apparso insolito alle orecchie dell’uomo, troppo impegnato nel proprio
lavoro per voltarsi a verificare. Era stato il gracchiare impaziente a richiamarlo,
un attimo prima che la creatura
spiccasse un balzo per atterrare dinnanzi a lui, proprio sul calderone in cui
giaceva ancora qualche rimasuglio della pozione.
Ali oscure, oscure parole.
Sua
nonna era solita dirlo, commentando l’abitudine degli Impresari funebri di
spedire le loro missive con certi uccelli. Lui aveva sempre riso, sostenendo
che fosse semplicemente una scelta di cattivo gusto di uomini che vivevano di
un mestiere che molti avrebbero rifiutato.
In
quel momento, una volta saputo, Blaise
si rese conto di essere lui stesso un corvo.
Portatore di oscure novità, pur senza
saperlo.
Era
una scusante, la sua ignoranza? Avrebbe potuto davvero invocare quella
giustificazione, una volta che l’universo l’avesse chiamato a sé per esigere il
prezzo di quella giovane vita che aveva collaborato a far perire?
Era colpa sua.
Il
sapore dell’assenzio lo disgustò al punto che dovette reggersi al tavolo da
lavoro per non cedere alla nausea.
Il ricordo di Daphne, proprio dove si trovava
lui in quel momento, era freschissimo nella sua mente. Era arrivata di corsa,
scavalcando gli elfi domestici e spalancando la porta come se fosse stata a
casa sua.
I
modi da regina del mondo che non
aveva mai perso - nonostante quel mondo che avrebbe voluto governare fosse
svanito nel nulla – lo avevano irritato al punto da non fargli neppure chiedere
perché fosse tanto sconvolta.
Ah!
Quell’ombra, vicina alla porta… sembrava la stessa che lei aveva proiettato sul
muro, mentre lo supplicava di aiutarla un’ultima volta. E l’altra, vicina al
tavolo… non era la stessa che Daphne, furiosa, aveva proiettato dopo aver
lanciato per terra il suo ricettario?
La
nausea tornò così prepotente da farlo barcollare ancora una volta.
Si stavano avvicinando, andavano a
prenderlo. Danzavano macabre verso di lui, strisciando lungo le pareti ed il
pavimento, arrampicandosi sulle sue gambe e stringendosi intorno al suo collo.
Le
ombre lo stavano soffocando, avvolgendo il suo corpo come spire di serpente. Il
fuoco nel camino sembrava aver smesso di scoppiettare, le fiamme erano immobili
come se qualcuno avesse fermato il tempo. Non si sentiva un rumore, in quel
laboratorio che sempre pullulava di vita.
Però
c’erano le tenebre, erano silenziose, nel loro lavoro. Agivano indisturbate,
camminando su di lui come viscidi vermi giunti per consumare la sua carcassa.
Ma
Blaise non era ancora morto. Blaise non voleva morire.
Blaise
non era Daphne.
Blaise non è ancora Daphne, ma Blaise
potrebbe diventarlo – sibilò una voce
nella sua testa. Era una voce fastidiosa, serpentina, sussurrata ad un
millimetro dal suo collo sudato. Gli parve quasi di avvertire lo sfiorare di
labbra sulla pelle sensibile.
L’uomo
si voltò di scatto, troppo velocemente per le sue gambe deboli dallo shock.
Cadde in ginocchio, ma non gli importò.
Non
c’era nessuno con lui, tanto bastava. Dopotutto, nessuno aveva mai avuto il
permesso di entrare nel laboratorio. Nessuno aveva mai osato.
Nessuno, tranne lei. Lei osava sempre,
come osavi tu… quanto ci vorrà prima che la sua strada diventi la tua? – chiese nuovamente la voce, sibilando le parole nel suo
orecchio, adagiandosi gelidamente contro le sue spalle.
Le
ombre si muovevano, agitate, oscurandogli sempre di più la vista. La voce era
alle sue spalle, ma lì non c’era nessuno. Sentiva le dita di ghiaccio infilate
sotto il colletto della camicia, il respiro fetido gli arrivava alle narici.
Blaise
chiuse gli occhi, ritrovandosi a pregare per la prima volta. Pregò per Daphne,
per quella sua anima fragile e perduta, costeggiata di troppe cicatrici per
poter sperare di essere guarita. Pregò per se stesso, perché la sua anima non
si lacerasse troppo a fondo e la colpa non lo divorasse fino a renderlo
perduto.
Ma tu lo sei già, non è vero? – la voce colò, gelida, sulla sua schiena, come una
colata di lava ghiacciata. L’uomo pensò di fuggire, ma si ritrovò
immobilizzato, incapace anche solo di fare un respiro profondo o sbattere le
palpebre.
Non puoi fuggire da me, nessuno può!
No,
Blaise non poteva fuggire. Si rese conto troppo tardi che l’ombra l’avesse
completamente inghiottito, tirandolo verso il suo ventre gelido con dita abili
e voce ammaliatrice. Si sentiva stregato, cullato da quella melodia di silenzio
e brividi che gli stava mozzando il respiro, togliendogli lentamente la
coscienza ed il desiderio di combattere.
Doveva
essere stata quella la sensazione che avevano provato i topolini, attirati
verso la morte dal Pifferaio. Chiamati da qualcosa di troppo forte e troppo
terrificante per poter resistere, si erano lasciati condurre al macello, uno
dopo l’altro.
La
loro morte era stata buia come sembrava la sua? E Daphne? Anche lei aveva
abbracciato l’Oscurità con la calma generata dalla paura?
No, lei aveva accolto l’Ombra. Lei non
aveva avuto paura.
Ma
Blaise sì. Lui era terrorizzato.
Cosa
se ne faceva della sua bellezza, quando il buio rendeva tutti uguali al suo
cospetto, nient’altro che anime macchiate di fronte al Giudice dell’Eterno
Sonno?
Il
suo terrore aumentò, quando comprese che, per lui, non ci sarebbe stato alcun
giudice. Il suo peccato era stato troppo grande, la sua anima si era macchiata
troppo in profondità.
Dal
cuore dell’ombra che l’aveva inghiottito, emerse una creatura informe, il cui
viso era lo specchio del Terrore ed
il corpo coperto da una tela d’incubi. E la creatura – quell’essere che aveva
puntato i suoi occhi di vuoto su di lui – alzò le braccia, aprendo alle sue
spalle l’orrore più grande di tutti, quel vuoto che aveva inghiottito il folle
delirio di tutti i peccatori che prima di lui avevano affrontato così duramente
la più importante legge della natura.
La morte di un’innocente.
Il
corpo della creatura cambiò. Avvolto da fiamme nere, Blaise vide ogni suo arto
allungarsi e contrarsi, muscoli guizzare fuori dall’involucro della pelle ed
ossa spezzarsi e ricomporsi come se fossero state di creta malleabile.
Davanti
a lui, apparve il giudice.
Davanti
a lui, rinchiuso in uno specchio dalla cornice fatta di lacrime, sangue e
veleno – quello stesso veleno che con tanta facilità era stato regalato, appena
il giorno prima! – c’era Blaise Zabini, l’unico che il suo spirito macchiato
reputasse all’altezza di giudicarlo.
Giudice di se stesso, non era forse il
più alto peccato di vanità, quello?
La
sua stessa vista, che tanto spesso lo aveva deliziato, lo ripugnò. C’era sangue
sulle sue mani. Sangue che urlava l’innocenza di colei a cui la sua – sì, la sua! Lui, che avrebbe dovuto
custodire quell’arma maledetta! – noncuranza aveva portato la morte.
Fissando
quegli occhi neri, vuoti, Blaise sentì di aver trovato il verdetto finale.
Una vita per una vita, pena capitale.
Sospinto
dalle ombre, fece il primo passo.
Daphne, avrei dovuto aiutarti.
Chiuse
gli occhi, facendo il secondo passo.
Avrei dovuto chiederti il perché. Avrei
dovuto capire.
Li
riaprì, era ormai vicinissimo. Portò la mano alla tasca dei pantaloni,
sfilandone il suo fedele coltellino.
Farò ammenda, non temere.
Il
suo riflesso nello specchio sorrise. Fu un sorriso malvagio, troppo ampio per
poter essere umano, troppo crudele per poter appartenere ad una creatura dotata
d’anima.
“Fallo” sembrava sfidarlo, immobile con
quel suo ghigno diabolico. “Punisciti”.
Fu
semplice, in realtà. Bastò puntarsi il coltello alla gola e premere forte.
Non
chiuse gli occhi, ma l’oscurità lo inghiottì completamente, mentre il riflesso
sanguinava e rideva, rideva e urlava.
Perdonami, Daphne.
Si
risvegliò in camera sua, delle mani fresche gli accarezzavano i capelli e voci
concitate ma gradevoli riempivano la stanza.
Era morto?
«Sarebbe
potuto morire» sussurrò una voce di donna, una voce da lui conosciuta e molto
amata, mentre le mani sfioravano delicatamente la fasciatura che qualcuno
doveva aver fatto al suo collo.
«L’avrebbe
meritato, considerando quanto è stato stupido» fu la risposta velenosa di una
voce maschile, altrettanto conosciuta ma decisamente meno amata. «Gli avevo
detto di aspettarmi».
La
donna mormorò qualcosa, stizzita, prima di tornare a concentrarsi su di lui.
«Gli
resterà una cicatrice».
«Meritata».
Meritata, sì. L’aveva meritata.
Una
cicatrice che, per sempre, gli avrebbe ricordato il suo torto.
Una
cicatrice per il sangue che macchiava le sue mani.
Una cicatrice per Daphne.
»Marnie’s Corner
Bentrovati e bentornati, cari amici di EFP!
Questa
storia partecipa al Contest “Sette Colori” indetto da erzsi
sul forum di Efp.
Devo
ammettere di essere stata abbastanza dal contenuto del pacchetto scelto (non ho
intenzione di sbandierarlo, se si capisce bene,
altrimenti…) e di aver vagato parecchio con la fantasia, costruendo tutto un
mondo intorno a questi due.
Sono la
madre di tutte le backstories, è più forte di me.
Probabilmente
il fatto che questi personaggi siano ignorati nella saga mi ha ispirata molto,
lasciandomi una grande libertà che, però, è anche una grande responsabilità.
Diciamo che l’IC per un personaggio a mala pena delineato può essere una
condanna.
Per essere
chiari:
» Blaise e
Daphne non stanno insieme e non hanno mai avuto una storia d’amore.
» Daphne
doveva essere promessa a Draco – motivo per cui si riteneva regina – ma, con la fine degli scontri,
questa promessa viene infranta.
» Blaise è
felicemente fidanzato, la mano amorevole che lo accarezza alla fine è quella
della sua futura moglie.
Il titolo, Danse Macabre, viene dall’omonima composizione di Camille Saint-Saëns, vi lascio un
collegamento QUI. L’andamento
della musica mi ha ispirata molto, soprattutto per la sezione dedicata a Blaise
ed al suo delirio.
Grazie a chiunque leggerà e, soprattutto, a chi mi farà sapere un’opinione
al riguardo.
A presto,
-Marnie