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Autore: piccolo_uragano_    29/02/2016    3 recensioni
Stavo pensando a quella notte, la notte in cui ti ho conosciuta. Mi dicesti di esserti persa, però mi sembravi tutt'altro che persa, in quel momento. Anzi, a dirti la verità, con il senno di poi posso affermare con certezza che non ti fossi affatto persa: tu quella sera hai trovato me, perchè questo era il nostro destino.
Possiamo tornare indietro? Possiamo tornare al punto in cui io rovino tutto e tu te ne vai con le lacrime agli occhi?
Vorrei almeno che un legame come il nostro possa avere un addio, un finale degno di ciò che siamo stati, se proprio dobbiamo finire.
Io ti aspetto qui, domani sera. Stesso posto, stessa ora.
Ti amo. Non sono riuscito a dirtelo, ma ti amo.
A.
Consegno il messaggio alla sua amica spagnola mentre la ringrazio e penso: fa che non stia mentendo, fa che lei sia viva.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L'infinito è dietro lei. 

Lui e lei hanno quel destino, 
scritto da altri altre vite fa;
è l'unica cosa che hanno, o almeno, 
è l'unica cosa in eredità.
(Salviamoci la pelle - Luciano Ligabue)



Prologo. 


Mi sistemo al mio posto in questo aereo anonimo e uguale a tanti altri, in mezzo a persone anonime e in trepida  attesa. Io osservo questa città grande, chiassosa e addormentata e so che non la rivedrò per un po’ di tempo, e questo mi fa sentire sollevata. So che non dovrei: devo tutto a questa terra ma non riesco a fare a meno di sorridere quando le porte si chiudono e viene annunciato l’imminente decollo.
La signora accanto a me mi guarda, con occhi privi di vita e sguardo pieno d’invidia. Che ci va a fare in Inghilterra una così?
Che ci vado a fare io in Inghilterra?
Sfrego le mani e sorrido di nuovo: a ricominciare.

«Principessa, fai la brava a scuola, intesi?»
Wylda mi guarda e mi sorride, e io sono il papà più felice del mondo quando mi sorride così. «Sì, papà.» mi dice.
Le bacio la testa e vedo Sam, mia moglie, dietro dei lei che ci osserva. «Ti devo parlare.» mi dice.
Io annuisco mentre Wylda esce di casa, il cane abbaia, il microonde suona e la vita in casa nostra scorre lentamente: sono i suoi occhi, i grandi occhi di Sam ad essere fermi e tristi. La guardo e mi preoccupo, senza nasconderlo. La porta sbatte, Wylda è uscita e Sam ha ancora gli occhi vuoti. Mi guardo attorno e cerco di scacciare un presentimento orribile, ma quando  vedo due valigie accanto al divano sento lo stomaco chiudersi. Mi giro verso Sam, la donna che amo e che ho sposato, e sono sicuro che anche i miei, di occhi, in questo momento siano vuoti.
«Che cosa vuol dire, Sam?»





Capitolo primo. 

Non mi era mai capitato di vedere una fermata della metro vuota: mi guardo attorno per i lunghi corridoi della Piccadilly Line e mi sembra di stare in un vecchio film dell’orrore. Sarebbe anche divertente, se io non fossi io e se oggi non fosse oggi.
Già, oggi.
Oggi è stato probabilmente uno dei giorni più catastrofici di sempre. Non solo dei trent’anni della mia misera e fantastica vita, no, di tutta la storia di Londra, del Regno Unito e probabilmente anche del mondo intero.  Stringo il pugno nella tasca del vecchio giaccone grigio, sentendo ancora le nocche bruciare.
Questa volta ha vinto il muro.
Percorro l’ultimo immenso corridoio prima di arrivare al binario della metro, sentendo ancora le parole di Sam. ‘Sei cambiato’ , ha detto. Ha detto che sono cambiato, e se n’è andata. Sparita. È uscita dalla porta di casa senza nemmeno voltarsi indietro. Dopo cinque anni insieme, cinque anni d’amore, cinque anni di noi, solo noi, lei se n’è andata. E grazie tante.
Il primo pensiero che mi travolge quando arrivo al binario della metro è ‘non è possibile’. Il secondo è ‘sono impazzito?’.
Ciò che mi trovo davanti è ai limiti dell’assurdo: è assolutamente impossibile che una sola persona abbia addosso così tanti colori. Sono certo che sia una ragazza, vista l’altezza e la corporatura mingherlina, probabilmente giovane e in viaggio qui come tanti altri. Mi da le spalle, vedo solo il suo maglione rosso fuoco e i capelli biondi, lunghi e con le punte azzurre. I pantaloni sono la cosa più strana che abbia mai visto: sono righe orizzontali di colori sempre diversi l’uno dall’altro e ciascuna riga ha un diverso motivo geometrico bianco.
È terribile, ma, allo stesso tempo, fantastica.
Sto ancora cercando di capire come funzionino i suoi pantaloni quando si gira e mi guarda.
«Ciao.» mi dice, inclinando leggermente la testa.
Mi accorgo che ha anche una tracolla marrone, rovinata e rattoppata e che ha due bellissimi occhi azzurri.
«Credo di essermi persa. Tu sei di qui?»
«Come possono averti persa, con quei pantaloni?» rispondo, istintivamente.
Lei sorride, mostrando un sorriso bello quasi quanto gli occhi. «In effetti, hai ragione questi pantaloni non hanno fatto il loro dovere. Ma sono sola, sto solo cercando di tornare a casa.» mi spiega.
Io alzo il mento e mi guardo attorno. «Come fai a tornare a casa se non sei di qui?»
«Giusto, ehm. Sono atterrata tre giorni fa, e starò qui sei mesi.»
«E di dove sei?» domando, curioso. Non so cosa sia, ma questa bionda ha qualcosa, nello sguardo o nel sorriso, che mi tiene incatenato a lei. Non sarei dell’umore per parlare con nessuno, ma lei è come una calamita e io sono incollato ai suoi occhi da una forza maggiore.
«Forse non lo so più nemmeno io.» mi risponde, facendo una smorfia. «Ma non mi hai risposto: tu sei di qui?»
«Non ti piace che non ti si risponda?» le chiedo, fingendo un sorriso.  Mia sorella dice sempre che fingere di sorridere è la cosa che mi riesce meglio. Non voglio fare vedere a questo intruglio di colori che è stata una giornata di m …
«Perché fingi di sorridere?» mi domanda.
Ecco, appunto. Ma come fa?
«Non stavo fingendo.» replico, immediatamente.
«Si, invece, fingevi. Comunque, odio la gente che non mi risponde: sei di qui
La sua espressione non è minimamente cambiata, ma la sua voce ha assunto una leggera nota di irritazione.
«Sì» rispondo allora. «Sono di Londra.»
«Oh!» esclama lei, aprendo la sua borsa gigante e piena di toppe. «Allora puoi aiutarmi!»
Io scuoto la testa. «Posso provarci, ma …»
Ma sinceramente adesso non mi sento in grado di aiutare nessuno.
Lei tira fuori dalla borsa una cartina della metro stropicciata e piena di scritte a matita. «Il mio college è qui.» mi dice, indicando la fermata di Stradford.
Io le indico che davanti a noi, dall’altra parte delle rotaie, c’è scritto dove siamo: in Russel Square. «Fai una fermata di questa linea, poi scendi e prendi quella rossa.» le dico, alzando le spalle. «Che intendi con ‘il college’?»
«Il college è un posto in cui gli studenti vivono per un po’.» mi risponde, riponendo la cartina nella borsa.
«Ma non mi dire?» le rispondo, mentre sento la metro arrivare.
«Tu dove te ne vai?» mi chiede, mentre noto che il cappellino azzurro che porta ha l’etichetta che si perde nei suoi capelli biondi.
«Ti accompagno a Holborn e poi prendiamo la linea rossa, se ti va.» butto lì.
«Non hai una casa dove tornare?»
«Sinceramente, non lo so. Che intendi per ‘casa’?» chiedo, salendo sulla metropolitana.
«Hai ragione: in effetti ‘casa’ può essere anche una persona.» mi dice, sedendosi e incrociando le gambe sul sedile.
«Ecco» rispondo, prendendo posto davanti a lei. «allora io non ho più una casa.»
Sam. Non ho più Sam, non ho più una casa. Sento lo stomaco riempirsi del vuoto che lei ha lasciato. Sam, l’amore, i ricordi, i progetti, i capelli lunghi e gli occhi grandi che se ne sono andati con lei.
«Lei se n’è andata, vero?» mi chiede. Il suo tono è dolce: non vuole impicciarsi, non sembra. Il suo tono ricorda più la compassione.
«Lei se n’è andata.» rispondo.
«Pochi giorni fa, immagino.»
«Stamattina, a dire il vero.»
«E giri per Londra da stamattina?»
Scuoto la testa e distrattamente mi guardo il polso per controllare che ore sono: strabuzzo gli occhi quando mi rendo conto che è mezzanotte. «Oh, Dio!» esclamo.
«Vedi? Anche tu hai una casa dove tornare.» mi dice, alzandosi.
Faccio per alzarmi anche io, ma lei mi ferma con una mano, una mano piccola e pallida. «No, non ce n’è bisogno: posso farcela. E poi, hai appena scoperto che hai un posto dove tornare, non potrei mai impedirtelo.»
Istintivamente, le sorrido: ha i tratti gentili, dolci e delicati. Il suo sorriso, invece, è tutt’altro che delicato: è luminoso, accecante quasi,  e parla di vita e di cose belle.
«Come si chiama il tuo college?» le chiedo, alzandomi per essere quasi dieci centimetri più alto di lei.
«Oh, non te lo dirò: se sarà destino, ci ritroveremo.»
La metro si ferma. «Dimmi almeno come ti chiami!»
«No» risponde. «No, non ci sarebbe gusto. Ora, torna a casa.»  mi strizza l’occhio e scende dalla metro. Io la guardo perdersi nella stazione di Holborn, mischiarsi tra le poche persone presenti senza mai confondersi e poi, veloce com’è arrivata, sparire.


«Nelson?» chiamo, entrando in casa.
Chiamerei Sam, normalmente. Le chiederei scusa per il ritardo, mi inventerei una scusa, lei si irriterebbe quel tanto che basta a farla diventare ancora più bella e poi io la abbraccerei da dietro mentre si lava i denti o mentre si pettina, le bacerei il collo e le direi che la amo e che mi dispiace, mi dispiace mi dispiace e mi dispiace, e poi faremmo l’amore fino a diventare una cosa sola.
No, invece, nella casa più vuota fredda e silenziosa della storia di Londra, entrando il primo nome che faccio è quello del mio cane.
Nelson è un Jack Russel Terrier di un carattere dannatamente vivace, e io mi sono perso in giro per Londra, dimenticandomelo qui.
«Nelson, dai: da oggi saremo solo io e te.» dico, levandomi il giubbotto  e mollando le chiavi di casa sul bancone della cucina.
Dove diamine si è cacciato quel cane?
«Nelson, ti prego, non rendiamola più difficile di quanto già non sia!»
Apro la porta del bagno, quella dello studio, della camera per gli ospiti, della camera di Wylda (Dio, Wylda, dove sei? Come stai?)e del secondo bagno: niente. Scendo le scale pensando a quella volta in cui Sam è scivolata, torno in cucina e non trovo ancora nulla; faccio il giro del divano in salotto e, di nuovo, mi ritrovo a cercarlo sotto al divano, ricordando quando Sam perse il telefonino e lo ritrovò poche ore dopo esattamente sotto questo divano.
«Sei cambiato.» ha detto. Che vuol dire cambiare? Forse la risposta ce l’hanno solo persone come la ragazza della metro.
«Nelson, dai, non è divertente!» dico, salendo di nuovo le scale: Sam odia – ehm – odiava che il cane entrasse nella nostra stanza.
«Sei cambiato.»
«E quindi?»
«Rivoglio il ragazzo di cui mi ero innamorata.»

Okay, okay forse alcune cose sono cambiate. Ma siamo cresciuti, siamo grandi e vaccinati, abbiamo una bella casa, una bella vita, una bambina bellissima, stiamo bene e ci amiamo: perché andarsene? Perché non dire ‘abbiamo un problema, tesoro’? Perché scappare davanti a un problema? Perché non affrontarlo?
«Sono qui, Samantha.» le ho detto. Non le è bastato. Ha scosso la testa, mi ha posato una mano sul viso e mi ha baciato le labbra. Piangeva, ma piangeva in silenzio. «Abbi cura di te.» e se n’è andata.
Come prevedibile, Nelson è sul letto matrimoniale: sembra essersi rotolato più volte nelle lenzuola, aver mordicchiato un po’ i cuscini e ha buttato a terra i vestiti che stavano sulla mia sedia. Mi guarda come se capisse cosa è successo stamattina: mi guarda come per dire che gli dispiace, ma due maschi soli in una casa grande come questa possono fare grandi cose.
«Hai un altro?»
«Ha importanza?»
«Sì.»
«No, non ne ha.»
«E Wylda?»
«Un giorno mi capirà.»
Mi levo i pantaloni e li getto nel cesto delle cose da lavare: come farò a lavare i vestiti, ora? Lei aveva un altro? E mi toccherà imparare a cucinare. E la bambina? La mia bambina. No, davvero, era importante sapere se avesse un altro. Davvero importante. Che ne sarà del mio rapporto con la bambina? Crescerà senza di me. Le dirò scusa, scusa ma la mamma un giorno di ottobre mi ha lasciato. Lascio che il getto d’acqua gelida faccia chiarezza, ma non porta altro se non nuove domande. Domande, domande, domande. Voglio risposte. Sam, cosa è successo? Hai un altro? È colpa mia? Chi è? Da quanto tempo? Che ne sarà di noi? Del nostro futuro? Che vuol dire cambiare? Sono cambiato? Mi ami? Lo hai mai fatto? E io? Io si, dannazione, mi dico. Se fa così male, io la amo davvero. L’ho amata pian piano, l’ho amata col tempo, l’ho amata dopo qualche settimana, ma quando mi sono innamorato ero sicuro: era lei. Era lei con cui cercare casa, era lei da presentare ai miei, era lei con cui avere dei progetti, era lei quando mi ha detto di aspettare la bambina, era lei quando le ho lasciato scegliere il nome, era lei quando guardavamo Wylda dormire appena nata, era lei, era lei in ogni momento.
Era lei.
Eri tu.
E ora?
 Mi sembra di essere tornato ad avere diciassette anni. Allora avevo poche domande, ma non erano così specifiche, tipo: chi sono io?
Uscito dalla doccia, con l’asciugamano legato in vita e i capelli tirati indietro, mi guardo nello specchio: grandioso,quasi trent’anni e non so ancora chi diamine io sia. 






Okaaaaaay, allora. Ho un paio di cose da dire, come all'inizio di ogni storia. 
Prima di tutto chi mi conosce sa che non amo l'accoppiata tempo presente/prima persona, ma ho voglia di sperimentare e quindi eccomi quiiiii. Vi dico subito che il caro Aaron non sarà sempre il narratore, a volte sarà la ragazza (no, non lo dico il nome :D) a volte sarà esterno, insomma, lo scopriremo solo vivendo. 
Aaron e Sam hanno due bambine, Wylda Rae e Romy Hero, ma mi sono presa la licenza poetica di 'dimenticarmi' di Romy, non odiatemi, ma con due bambine la separazione sarebbe stata troppo pesante per la storia, oscurando il tema principale. che poi si vedrà.
Ultima cosa, Aaron Johnson ha attualmente ventisei anni, quindi la storia è ambientata nel 2018, così ne avra ventotto. 
Okay, credo di aver detto tutto, spero che questo primo capitolo vi piaccia. 

xx 

 
   
 
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