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Autore: Virulentia    02/03/2016    1 recensioni
Non c’era alcun bisogno di domandargli che cosa stesse succedendo e per quale motivo fosse così triste. Sarebbe stato soltanto inutile e doloroso. Entrambi condividevano lo stesso tormento segretamente e consapevolmente al contempo, ma cercavano di farsi forza a vicenda e di sperare – fingere…? – che presto sarebbe tutto finito.
Presto… ma quando? Finito… ma come?

Storia partecipante al contest "Cielo, donne, ricordi" indetto da 9dolina0 sul forum di EFP
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nick Forum/ Nick EFP: Cinnamon Charlotte 
Nick beta reader (eventuale): 
//
Titolo della storia: 
Anche i soldati guardano le stelle
Fandom: 
Originale (Introspettivo)
Gruppo tematico: 
Cielo
Rating: 
Verde
Genere obbligatorio: 
Fantasy
Altri generi: 
Introspettivo, Malinconico, Triste
Personaggi (in caso di fanfiction): 
//
Avvertimenti: 
Nessuno
Introduzione: “
Non c’era alcun bisogno di domandargli che cosa stesse succedendo e per quale motivo fosse così triste. Sarebbe stato soltanto inutile e doloroso. Entrambi condividevano lo stesso tormento segretamente e consapevolmente al contempo, ma cercavano di farsi forza a vicenda e di sperare – fingere…? – che presto sarebbe tutto finito.

Presto… ma quando? Finito… ma come?

Note dell’autore: Ho preferito restare sul vago e sull’indefinito per numerose ragioni, in modo tale da permettere a chiunque di immedesimarsi nel personaggio. Ho ricondotto la citazione al concetto di “speranza”, che si identifica appunto in una stella del firmamento.

 

Anche i soldati guardano le stelle

 

 

Un vero guerriero sa perfettamente muoversi nell’ombra senza farsi vedere dal nemico.

Il piccolo elfo trattenne il respiro, mentre percorreva a passo leggero il corridoio, prestando attenzione a non far scricchiolare il legno sotto ai suoi piedi. Chi sarebbe resistito alle ramanzine della mamma, se si fosse svegliata e l’avesse scoperto? Gli avrebbe ordinato di tornare immediatamente a letto, perché era notte fonda e i bravi ometti dovevano già essere nel mondo dei sogni da ore.

Invece lui non aveva affatto tempo da perdere con certe sciocchezze. Aveva una piccola missione personale da portare a termine e nessuno glielo avrebbe impedito, anche a costo di non mangiare dolci per una settimana intera.

Sgattaiolò nella cucina. Trattenne il respiro ancora per pochi istanti, giusto il tempo di avvicinarsi alla porta che conduceva al giardino. Adesso sì che era arrivata la parte difficile: il soldatino doveva riuscire ad uscire senza produrre il benché minimo rumore sospetto, altrimenti il generale Mamma lo avrebbe catturato e messo in prigione fino alla fine dei suoi giorni.

Poggiò una mano sulla maniglia e strinse il freddo ferro. Un brivido di adrenalina gli percorse la schiena, mentre esercitava una prima leggera pressione. Con la fronte corrugata per lo sforzo e la punta della lingua che sporgeva dalle sue labbra rosee, attese il momento in cui avrebbe sentito un leggero scatto.

Tac.

Si era aperta! Si era aperta per davvero e dalla camera di sua madre non erano giunti rumori sospetti: aveva portato a termine la sua prima missione importante! Il suo adorato capo sarebbe stato davvero fiero di lui. Non vedeva l’ora di raccontargli l’ottima riuscita di questa piccola impresa – e chissà che faccia avrebbe fatto la mamma, una volta saputolo! Sicuramente si sarebbe arrabbiata, ma ci avrebbe pensato Lui a proteggerlo.

Nonostante fosse trascorsa soltanto mezza giornata dalla sua partenza, il papà gli mancava un sacco. Sembrava così tanto lontano il ricordo dei festeggiamenti, durante i quali avevano gioito tutti insieme per la lieta notizia: il suo mito era stato scelto per entrare a far parte dell’esercito che avrebbe combattuto la guerra contro quei dannati Troll – non per niente, era considerato uno dei migliori elfi spadaccini in circolazione. Era così felice per suo padre, che non aveva minimamente pensato a quanto sarebbe stato triste guardare le stelle senza lui.

Il bambino corse verso il centro del giardino, là, sotto quella quercia secolare che entrambi amavano tanto. Si sedette sull’erba già umida di rugiada e poggiò la schiena contro il tronco ruvido, stringendo la piccola spada di legno al petto. Dopodiché sollevò lo sguardo al cielo, convinto che da qualche parte il suo eroe stesse facendo lo stesso.

Il papà gli aveva promesso che sarebbe tornato presto a casa, così avrebbero ripreso i loro allenamenti: «Ancora qualche piccolo sforzo» gli diceva sempre «e diventerai un cavaliere degno del tuo nome». Non restava altro da fare che aspettare. Chissà se, una volta diventato forte, un giorno avrebbe combattuto contro dei veri nemici assieme a lui!

Gli si gonfiò il petto di orgoglio, al solo pensiero di cosa avrebbero detto i suoi amici il mattino seguente, una volta saputo quello che era successo alla sua famiglia. L’avrebbero rispettato ancor più di prima e tutti se lo sarebbero conteso come alleato: giocare alla guerra tra Elfi e Troll sarebbe stato ancora più divertente di quanto già non fosse, di questo ne era praticamente certo! E poi avrebbe potuto immaginare di essere suo padre, intento a punire tutti i cattivi a colpi di spada. Che cosa poteva chiedere di meglio?

Posò gli occhi sulla stella più brillante del firmamento. Forse una cosetta c’era, ma si trattava di un minuscolo capriccio raggomitolato in fondo al suo cuore. Doveva soltanto aspettare, poi ogni cosa sarebbe venuta da sé e tutto si sarebbe risolto per il meglio.

 

Quella stellina era ancora lassù, esattamente dove la lasciava ogni notte. Era trascorsa una decina di giorni da quando l’aveva notata per la prima volta, anzi da quando lei si era fatta notare in tutto il suo splendore: per quanto tempo ancora l’avrebbe guardata da solo?

Il suo viso paffuto e innocente si contrasse in una smorfia impaziente. Quelle giornate erano trascorse molto velocemente ed erano state colme di divertimento, ma di recente aveva iniziato a provare una strana e a dir poco fastidiosa sensazione. Era benvoluto e rispettato dai suoi amichetti tutto il giorno, ma questo sembrava non bastargli più. Tutte le volte riusciva a recarsi in giardino senza farsi scoprire da sua madre, ma neppure quello gli dava più così tanta soddisfazione.

Che senso aveva gioire di tutti quei successi, se non poteva parlarne col suo mito? Doveva tenere tutte quelle storie per sé, senza qualcuno di valoroso con cui condividerle, qualcuno che lo capisse e si complimentasse con lui per la sua forza e per il suo coraggio.

Strinse l’elsa di legno tra le mani e sferrò con rabbia un paio di colpi al tronco di quercia. Avrebbe dovuto essere felice e orgoglioso del suo papà, eppure si sentiva triste e arrabbiato. Tuttavia, colpire un oggetto inanimato non lo aiutò affatto – non era più un poppante, aveva bisogno di uomini veri, di nemici da sfidare, di Troll da distruggere! Se i nemici erano tutti così brutti e insignificanti come venivano descritti dagli Elfi, perché suo padre ci metteva così tanto sconfiggerli? Doveva essere una bazzecola per uno come lui! Perché ci stava mettendo così tanto? Non aveva voglia di tornare a casa da lui e dalla mamma? No, era solo colpa di quei dannatissimi mostri, se lui era così lontano!

La piccola spada gli scivolò dalle mani. Lacrime furibonde gli rigarono le guance, ma lui le scacciò subito e sfregò rapidamente il dorso della mano sugli occhi. Era un bravo soldatino e aveva il compito di proteggere sua madre, così gli aveva promesso. Non c’era tempo per sciocchezze come il dolore.

Tornò a guardare il cielo, pregando che l’indomani papà tornasse vittorioso dalla guerra. Non vedeva sinceramente l’ora di ascoltare i racconti delle sue imprese e di festeggiare tutti insieme la meritatissima vittoria.

 

Nessun rumore sospetto. Per la prima volta nell’arco di un mese, la porta d’ingresso non era stata aperta.

Trascorsero una manciata di minuti, durante i quali la donna rimase perfettamente immobile e finse di avere ancora il respiro pesante. Suo figlio era semplicemente in ritardo? Stentava a credere che quella notte avesse davvero così tanto sonno da non sgattaiolare in giardino come al solito.

La prima volta non ci aveva prestato molta attenzione. Dopo aver spalancato gli occhi e aver visto il fianco del letto vuoto accanto a sé, aveva pensato che il marito e il bambino fossero andati insieme a guardare le stelle.

Ma poi ricordò. E capì. E lo lasciò sempre andare, non senza preoccupazione, sbirciando di tanto in tanto dalla finestra della camera.

Si mise a sedere sul materasso e cercò di sistemare i capelli arruffati con una mano. Si stiracchiò e sbadigliò. Lisciò le pieghe della camicia da notte e con uno schiocco di dita generò una piccola fiamma, che illuminò in modo tenue la stanza.

Ancora nessun segno di vita.

Come ogni genitore che si rispetti, cominciò a nutrire una certa preoccupazione. Che il piccolo stesse male? Quel brutto presentimento si insinuò nella sua mente fino a farle dolere la testa. Senza alcun indugio, si diresse verso la camera del suo piccolo soldatino e, una volta giunta vicino alla porta, tese le orecchie.

Neppure un fiato.

Certo che il suo amore era stato fin troppo bravo, quando gli aveva insegnato ad essere quanto più silenzioso possibile. Con un moto di nostalgia non indifferente, lo rimproverò mentalmente e si ripromise di sgridarlo, una volta tornato da quella stupida guerra.

Si fece coraggio e bussò piano. Dall’altra parte giunse in risposta quello che sembrava proprio essere un singhiozzo. In quel momento ebbe l’impressione di avere uno stiletto conficcato nel cuore.

L’elfa raggiunse il suo bambino e lo abbracciò. Lasciò che lui sfogasse il pianto contro il suo petto, anche se avrebbe tanto voluto unirsi a lui, vinta dall’opprimente sensazione di vuoto che si trascinava dietro sin dal giorno in cui il marito era partito. Doveva essere forte e infondergli coraggio, in modo che lui non smettesse di sperare nel ritorno del loro caro.

Continuò ad accarezzargli i capelli e sottovoce intonò una dolce ninnananna, la stessa che gli cantava sempre quando era ancora un bebè.

Non c’era alcun bisogno di domandargli che cosa stesse succedendo e per quale motivo fosse così triste. Sarebbe stato soltanto inutile e doloroso. Entrambi condividevano lo stesso tormento segretamente e consapevolmente al contempo, ma cercavano di farsi forza a vicenda e di sperare – fingere…? – che presto sarebbe tutto finito.

Presto… ma quando? Finito… ma come?

«Ti va di venire con me?» domandò la mamma al bambino, curvando le labbra in un dolce sorriso, sicura che il piccolo l’avrebbe intravisto alla tenue luce della luna.

Difatti, il soldatino annuì piano e si asciugò le lacrime col dorso della mano. Dopodiché scese dal letto e si aggrappò alla gonna della madre.

Quella notte si lasciò alle spalle la spada di legno.

 

Rimasero entrambi in religioso silenzio con lo sguardo rivolto verso il cielo. La mamma lo aveva condotto fino alla loro quercia e lo aveva invitato ad accoccolarsi al suo fianco. Trascorsero un po’ di tempo insieme, durante il quale non si scambiarono una sola parola, ma tutto si svolse attraverso gesti naturali e spontanei.

All’improvviso il bambino protese un braccio in avanti e con l’indice puntò la sua stella preferita. «Anche papà la vede, vero?» fu la prima cosa che disse, non senza emozione.

«Certo che la vede. Sono sicura che la adori davvero tanto, così come a te e a me» rispose con dolcezza la madre, avvolgendo il corpicino del figlio in un abbraccio protettivo. «Ad una stellina così graziosa si addice un nome altrettanto bello. Che ne dici di Speranza?».

Non lo poteva verificare, ma era pronta a scommettere che in quel momento gli occhi del figlio si erano illuminati di meraviglia. Eppure, dopo un primo «Sì, che bello!», non seguì altro. Era convinta, però, che il suo ometto volesse dirle qualcosa.

Qualcosa di molto importante.

Qualcosa che avrebbe potuto ferirla – che avrebbe ferito entrambi –, per questo indugiava.

Non fu necessario rassicurarlo a voce. Bastò semplicemente posargli un bacio leggero sulla fronte.

Quella parola sgorgò dalle sue labbra rosee, mescolandosi a numerose lacrime salate.

«Tornerà?».

Questa volta fu lei a indicare Speranza con un dito.

 

«Ci sono stelle che non tramontano mai, anche quando il cielo è coperto di nuvole, anche se c’è buio intenso. Una stella non smette di mai di brillare».

   
 
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