Ehi, ciao!
Sono… lenta, sì.
Non sto neanche a sprecare tempo per scuse varie (:
Our
lives dictated by tradition, superstition, false religion
Innuendo,
Queen
Le parole e le risate acquisiscono sempre più spazio nella
mia mente, e da un semplice brusio tutto è immagini.
Nel prato vicino all’ingresso del ristorante vedo un tavolo che sostiene la
possente torta nuziale – nel pieno stile di mia cugina. Le persone si addensano
da quelle parti e nelle zone circostanti, alcune con piattini o bicchieri tra
le dita.
Non abbiamo assistito al taglio della torta. Che peccato.
Ottenute le torte continuiamo a camminare in questo luogo circoscritto. La
torta è molto buona, con la crema al mascarpone dentro ed altre cose sul bianco
di cui più che l’identità mi interessa il sapore.
«Potremmo ubriacarci.» Propongo. «Tanto qui non c’è niente da fare…»
La prima idea malsana che dai neuroni mi è balzata direttamente fuori dalle
labbra, sicuramente. Ne è conferma lo sguardo confuso di Gerard.
«Non credo sia la cosa più appropriata da fare.» Con il naso e le labbra fa una
mossa da coniglio involontaria, molto tenera, per esprimere la scarsa
convinzione.
Ci penso qualche attimo, guardando i fili d’erba che subito vengono coperti
dalla mia scarpa. «Già, forse h-»
Sento un rumore stranissimo, e mi sento come uno di quei famosi corpi che viene
disturbato dal proprio stato di movimento dall’intervento di una forza esterna
– o quello che è. Un principio della dinamica, o dell’inerzia?
Mi ritrovo dei fiori sulla torta, e occhi truccati su gran parte del corpo.
Una ventina – ma forse di più, chi vuole saperlo? – di donne mi guardano
chiedendosi come agire.
Guardo il mio piatto, pensando che tutti questi fiori vivaci non potranno avere
il sapore della torta.
Oltre le risate di Gerard sento le parole di mia cugina avvicinarsi: «Scusami
Frank, devo averlo lanciato troppo storto.»
Guardo ancora il bouquet, sporco di torta.
«No, scusami tu, ero in mezzo.» Le porgo i fiori, rattristato per la sorte
della mia fottuta torta, e mi sforzo di farle un sorriso cortese per
dimostrarmi gentile, almeno oggi che – in teoria – dovrebbe essere una data per
lei memorabile.
Sicuramente lo sarà per me. Sono stato aggredito da un fottuto bouquet.
Il gruppo di scapole le zampetta fiduciosamente dietro, ma interrompo il mio
interesse per quelle vane azioni e torno a dispiacermi per il buon cibo che
dovrà essere gettato via.
Lo punzecchio con la forchetta, rassegnato. «Ma porca tr-»
«Puoi prendere la mia fetta, se vuoi.»
Spero non stia sottovalutando il proprio gesto.
Devo chiedere ad Elisabetta – o qualsiasi sia il nome della regina attuale – di
investirlo come cavaliere.
«Non posso, davvero…» Gli riavvicino il piatto ed indietreggio, diretto al
tavolo della torta. Che in realtà è pieno anche di frutti e dolcetti assortiti,
ma quelli non mi interessano.
Presa una nuova, intatta, fetta, torno da Gerard e gli dico subito di
allontanarci per evitare spiacevoli incidenti.
«Non credi sia un’usanza da disperati?»
«Parli del matrimonio o del lancio del bouquet?» Ovviamente intendeva il
lancio, ma ho voluto dire una cosa divertente nella speranza di vederlo
sorridere, come infatti sta facendo.
«Il lancio del bouquet. Tutte quelle tizie dovrebbero aspirare a qualcos’altro,
oppure trovare altri modi per conseguire i propri scopi.»
«Hai ragione. Ma non credo che lo facciano tutte nella speranza di sposarsi,
voglio dire, non c’è un cazzo da fare qui, almeno quello è un modo per
divertirsi.» Anche per questo odio le cerimonie, troppo formali, troppe cose
inutili e noiose.
Mi guarda e dopo un paio di secondi di ragionamento annuisce.
«Frank, l’hai preso tu il bouquet, quindi?»
«No, è stato lui a prendere me.»
«Allora possiamo iniziare una nuova tradizione: chi viene colpito dal bouquet,
invece di sposarsi, partecipa ad un matrimonio.»
Lo guardo, e rido.
΅΅΅
Pare che la credenza inventata da Gerard sia corretta: alla
fine – non che sia strano da credere – ho confermato il fatto che andrò al
matrimonio di Micheal con lui. Così si chiama il
fratello, forse ha anche un altro nome ma al momento non lo rammento.
Il secondo di Gerard invece sì: Arthur.
Non so che paio di genitori eccentrici abbiamo deciso di chiamare il proprio
primogenito Gerard Arthur, per poi optare per un più semplice “Michael” seguito
da qualcosa di altrettanto semplice.
Potrei chiedere a Gerard di parlarmi delle origini del suo nome e di quelle del
fratello, se ne ha voglia.
Già, il matrimonio è stato tre giorni fa e oggi io e Gerard ci incontriamo per
pranzo.
Senza validi motivi, ci siamo accordati per passare un paio d’ore insieme dal
momento che saremmo stati liberi entrambi.
Dovrebbe arrivare a minuti – secondi.
Ho deciso che non gli chiederò niente riguardo al nome. Perché sento che io e
lui diventeremo amici e quindi avrò ancora molto tempo per scoprirlo, magari
per caso. E se dovessimo allontanarci, sento anche che farò tutto ciò in mio
potere affinché non accada.
Questo posto è abbastanza pieno di persone, alcune mi guardano e anch’io ogni
tanto guardo qualcuno. Chissà cosa pensano di me. Un ragazzo con una felpa
verde scuro, una mezza cresta storta in testa, e lo sguardo vago.
Io, ad esempio, quando vedo qualcuno mi limito a sperare che non abbia una vita
patetica.
Tutte queste vibrazioni dell’aria mi urtano il corpo e mi entrano dentro,
creando un po’ di confusione dove capita. Chiudo gli occhi per estraniarmi, un
minimo, da questo luogo destabilizzante.
Tutto diventa brusio, quasi un sottofondo che mi rilassa e pian piano disperde
il mal di testa.
Quando il brusio inizia ad affievolirsi, apro gli occhi.
Gerard è a due metri da me. Io sono seduto, lui è in piedi. Lui sembra confuso,
io sono spaventato. È un mago, in pratica.
«C-Ciao Gerard.» Perfetto. Balbetta pure, Frank.
Intanto si è avvicinato, e le luci aranciate che si gettano su di lui lo fanno
quasi sembrare vivo. Trovo molto affascinante la sua pelle candida e
liscissima, come se la pubertà non gliel’avesse mai intaccata.
«Ehi Frank. Tutto bene?» Si siede, direzionando subito il proprio sguardo verso
i miei occhi.
«Sì, avevo un po’ di mal di testa e -» no, non posso parlargli del brusio
«niente. Prendi qualcosa, ti aspetto.» Cambio argomento, poi rimango fermo come
il panino che mi sta davanti.
Annuisce, poi si alza – e la sedia non stride contro il pavimento, grazie ad
un’altra magia – e dopo essersi girato va nella zona della cassa.
La giacca nera che indossa è attillata al punto giusto, facendogli sembrare la
schiena una bella schiena. Sono sicuro che chiunque, in questo bar, gli veda la
schiena abbia la voglia di appoggiarvici sopra la mano, di farla scorrere verso
il collo e appena sotto le scapole. Se ce l’hanno tutti, ce l’ho anch’io. Un
semplicissimo sillogismo per non farmi sembrare un maniaco.
Il mio panino è caldo, ma non brucia, lo so perché l’ho appena toccato.
Rimango con le braccia timidamente sotto il tavolo per qualche minuto e quando
Gerard arriva le uso per prendere il panino.
Mentre mastico provo a non osservarlo, il che sembra più facile di quello che
sembra, perché non lo vedo da tanto tempo ed è proprio di fronte a me. Troppo
tempo? Tre giorni al massimo. Zittisco la ragionevole vocina nella mia
testa.
Dopo aver inghiottito il primo morso, gli dico: «Ehm, allora… parlami di tuo
fratello.»
Mi guarda, sorride, furbamente. Con tono altrettanto furbo dice: «Pensandoci
bene, forse sarebbe meglio se non ti dicessi niente su di lui.»
«Okay, fai come vuoi.» Addento il panino. Non ho la minima intenzione di dargli
corda. Ora chi è che sorride furbamente, eh? Ha!
«Ha gli occhiali,» afferma, come se stesse lanciando una sfida. Faccio un cenno
disinteressato e aggiunge: «sono neri.»
«Ho capito, Gerard, se vuoi che rimanga una sorpresa cambiamo argomento, non è
così importante.» Ed è quello che penso, l’idea del fratello sorpresa mi sembra
carina.
Mi sto immaginando Gerard con gli occhiali: dalla montatura semplice, nera,
lenti non troppo grandi, magari rettangolari. Con i bordi arrotondati,
ovviamente, ma al punto giusto. Lo vedo, con gli occhiali, che scruta un menù.
La luce che si abbatte sulle lenti provocando luccichii.
No, non mi va bene: i luccichii comprometterebbero l’immagine che noi poveri
mortali possiamo osservare dei suoi occhi.
Si sarà capito, ma tengo ai suoi occhi.
Un po’ perché li ho sempre trovati una parte del corpo interessante, un po’
perché tra le tante cose che sento, sento anche che i suoi sguardi siano capaci
di comunicare molte cose, e in momenti di silenzio questo risulterà
fondamentale.
In generale, Gerard con gli occhiali mi sembra una visione comica.
Comunque sia, lui è davanti a me e per fortuna non indossa nessun tipo di
occhiali. Per un attimo, breve, gli guardo gli occhi; me li ricorderò a lungo.
Mangiamo i nostri panini, per un po’ in silenzio. Se non contiamo i vari rumori
provenienti dal resto del bar, come il ronzio dei frigoriferi, gli arrivederci
del ragazzo alla cassa, e i mille discorsi vani delle persone sedute, come me e
Gerard, ai tavoli.
Probabilmente tra circa un minuto uno dei due romperà il tranquillo silenzio
che ci separa, ed unisce. Ciò significa che ho più o meno cinquantasei secondi
per studiare il suo modo di mangiare: ha preso il panino con entrambe le mani,
ma lo tiene usando solo le punte (le sue mani sono… non ha le dita tozze, il
che le rende eleganti, in un certo senso. Tuttavia hanno qualcosa di strano,
non sembrano uniformi. Potrei passare diverse ore ad analizzarle, ad immaginare
di toccargli le vene sporgenti sul dorso) e oltre ad avvicinare il panino alla
bocca, avvicina anche la bocca al panino. I morsi sono normali, al contrario di
quelli con cui molti fanno fuori un terzo del panino.
Nel complesso, direi che non ha un modo particolarmente inusuale di mangiare i
panini.
Non so perché lo faccio – parlo della mia abitudine di studiare le persone –,
se per noia o per qualche disturbo mentale mio. Potrei essere uno psicopatico,
potrei diventarlo. Magari ho già ucciso qualcuno ma
non me lo ricordo. Magari Gerard non esiste ma sono schizofrenico.
O, più verosimilmente, dovrei farmi meno paranoie.
Almeno per evitare di perdere secondi preziosi di studio minuzioso.
I secondi passano. O almeno, questo è quello che la mia percezione del tempo mi
comunica. Non ho idea di cosa sia il tempo, una convenzione?
I secondi – qualsiasi cosa siano – passano e il minuto sta per scadere.
«Mi piace la tua maglietta.» Gli dico, perché ha una bella maglietta, nera, con
forme rosse e bianche che formano il viso di Freddie
Mercury.
Potrebbe essere stato un errore, nel caso gli abbia ricordato un ragazzo
sfacciato senza fantasia che prova a fare colpo su una ragazza facendole i
complimenti per la scelta del vestito, selezionato con attenzione.
Ma io non ci sto provando, Gerard non è una ragazza – penso –, e non è stato
due ore a scartare magliette e pantaloni dal proprio armadio – penso.
«Ehm, grazie,» risponde a bocca quasi vuota «anche la tua è bella.» Conclude in
un semi-stato di imbarazzo, accennando alla mia felpa dei Blues Brothers.
Ora che il silenzio sembra volersi impossessare della nostra conversazione,
sarebbe banale continuare con le citazioni alludendo al famoso discorso sul
silenzio fatto in Pulp Fiction.
Tagliandola corta, comunque, penso che i silenzi con Gerard non saranno mai
imbarazzanti. Chissà perché, non lo trovo difficile da credere: è da quando lo
conosco che non faccio altro che dargli punti amicizia.
I punti amicizia li ho appena inventati, non è difficile capire cosa siano.
Ho capito che i punti amicizia sono una gran cretinata, hanno un brutto nome,
il concetto alla base è debole.
Niente punti amicizia.
Mi limiterò ad apprezzarlo e ad enumerare le caratteristiche che più mi
piacciono del suo carattere, del suo corpo e del suo modo di pensare. Forse,
più avanti, di qualcos’altro. Ora non mi viene altro in mente.
I silenzi con lui non saranno mai imbarazzanti? No. Non lo saranno.
Cosa sarà imbarazzante? Fare questi pensieri mentre nessuno dei due parla.
΅΅΅
Da quando sono stato al matrimonio, ho pensato sempre meno a
Jamia.
Non mi sorprende: a parte qualche occasionale piacevole ricordo, mi ha lasciato
un senso di vuoto.
Il senso di vuoto è positivo, dirà qualcuno, significa che quella persona è
stata talmente tanto importante per me da aver lasciato una voragine, quasi
incolmabile. Che l’amore è stupendo e quando ne veniamo privati ci sentiamo
destinati alla morte, alla fine, al decadimento. Che… boh, altri cliché simili.
No, il vuoto che sento è una sensazione di inutilità.
Proprio come quella che si prova dopo aver letto un libro brutto – per noi.
Si è combattuti tra il presentimento di
aver sprecato del tempo e la voglia di fare – o leggere – qualcosa di migliore.
È così che mi sono sentito quando è uscita dalla mia vita, più o meno.
Inutile. Un po’ sollevato. Confuso.
Anche arrabbiato, ma quello passa molto presto.
Dovrei sentirmi una cattiva persona a pensare queste cose? Non mi interessa,
sinceramente, non per queste cose.
I sentimenti più duraturi, per quanto mi riguarda, sono quelli che consumano
lentamente. Il senso di inutilità è un buco che piano piano ti mangia, da
dentro.
Bisogna combatterlo, basta non rimanere fermi.
Per questo motivo penso che Gerard mi abbia aiutato molto, senza fare nulla di
speciale. Sto bene in sua presenza, tutto qui.
Mi sento sereno, dimentico il senso di inutilità e cazzi vari.
Ogni volta che penso a come ci siamo conosciuti, rimango perplesso per almeno
un minuto intero.
Davanti ad una chiesa.
Gli ho parlato per gioco, quasi.
Abbiamo passato una giornata insieme perché ci andava.
Non abbiamo mai combinato nulla di sensato, gli eventi hanno continuato ad
avvenire senza chiederci il permesso di coinvolgerci.
Abbiamo agito come due masse in un sistema dinamico, che si muovono ma non
sanno il perché. Solo il fisico conosce – e prevede, magicamente – i loro
movimenti, e il principio a cui sono soggetti.
Io e Gerard siamo le masse. O, in alternativa, gli alunni che prendono una
bella E.
In tutto questo, la mia sveglia intelligente non ha ancora capito che non ho
voglia di alzarmi.
È domenica. Il mio giorno di libertà. Come osa trillare ogni cinque minuti da
un quarto d’ora, dico.
΅΅΅
Siamo abbastanza vicini, e vedo una linea azzurra o verde
risalirgli per il collo, tra la pallida cute, che poi scompare. È pieno di
quelle linee, ma io posso vederne solo alcune, e non mi rimane che pensare al
sangue in continuo movimento che le occupa, e scorre sempre nello stesso verso.
Arriva al cuore, viene ossigenato, trasporta i globuli, ci permette di vivere.
In qualche modo, siamo vivi.
Siamo carne, siamo cartilagine, ossa, tendini che ci permettono di rimanere
attaccati, siamo sangue, siamo cellule. E mi chiedo come un essere formato da
due terzi di sola acqua sia in grado di fare tutti questi pensieri.
Dai pensieri nascono le domande, e mi chiedo se questo è perché abbiamo
un’anima. Oppure, il pensiero è un qualcosa che abbiamo sviluppato in migliaia
di anni di evoluzione. La verità è che non credo di possedere le capacità per
capire veramente come le cose funzionino. Mi sento un filosofo complessato ad
arrivare a conclusioni – conclusioni, proprio – simili.
Comunque sia, l’idea di avere un’anima mi ha sempre rassicurato. La vedo come
un fantasmino che mi anima, e che costituisce il mio vero me. Poi, i fantasmi
sono fighi. Ammettiamolo.
E il sangue continua a scorrere, e noi a correre.
E io ho ancora lo sguardo sul suo collo, soffermandomici sopra noto il suo
aspetto liscio. Adesso ho una fortissima voglia di toccarlo, grandioso.
Che poi perché proviamo interesse per ciò che è liscio e morbido? È una specie
di ricerca inconscia della perfezione? Boh. E perché associamo la perfezione
alle cose senza buchi o escrezioni o simili?
Se proprio volessi rovinarmi la giornata, potrei stare qui a pensare a come i
sensi dell’uomo funzionino. Ad esempio la vista, il tatto. È tutta questione di
neuroni, recettori, riflessione della luce, retine… cose che non mi hanno mai
convinto.
Smettila Frank.
A proposito di sensi, non senti che Gerard sta parlando?
«Frank, allora?»
Lo guardo. Negli occhi, intendo. Nei suoi bei bulbi oculari per cui ho una
strana fissazione.
Allora? Faccio un verso per fargli capire che, mi dispiace, non ho sentito
proprio un cazzo di quello che hai detto.
«Ti va di alzarci e prendere un gelato?» Chiede, e i capillari sulle sue gote
si ingrossano un pochino, e lui sembra quasi imbarazzato. Frank, smettila
con la biologia.
Cos’è, Gerard, hai una cotta per me?
«Uhm, certo!» Adoro i gelati.
Siamo davanti ad un chiosco, in questo triste parco.
Non c’è fila, allora gli faccio un veloce sorriso di incoraggiamento, come
quelli che sono sicuro i padri rivolgano ai figli prima del saggio di danza –
sono quei sorrisi che dicono: “Dai, su, ti ho portato a prendere lezioni due
volte a settimana rinunciando a Top Gear, lo so che ballerai benissimo.”
Gerard compra con successo un gelato a caffè, gusto giallo e gusto bianco. Chi
è quello sfigato drogato (di caffè) che assume caffeina anche tramite i gelati?
Io mi prendo un cono ipercalorico.
Decidiamo di tornare sulla panchina, su sua richiesta. Dice di trovare
complicato mangiare un gelato mentre cammina, è un processo che richiede
concentrazione. Gli do ragione.
«Ehi, ma… la tua ex? L’hai più risentita?» Dice, guardandomi di fuggita poco
prima di metà della frase.
Gerard, stai provando a confermare le mie assurde tesi? Mi leggi nel pensiero?
Hai sul serio una cotta per me?
Non voglio ragionarci su. Non c’è niente da ragionare, ovviamente non ha una
cotta per me.
«Jamia? Hm. No.» Mi viene, per un attimo, in mente
lei. Il sorriso, i capelli, la parlantina. «Una volta, mi aveva chiesto se
sarei andato ad una festa – il compleanno di una nostra amica. Non ne avevo
voglia e non sono andato. Cioè, non che non avessi voglia di vedere lei, volevo
solo stare in casa e così ho fatto. Le voglio bene, non ho motivo di evitarla.»
Ed è così. La inviterei a bere una birra da qualche parte, un giorno, se non
trovassi il pensiero un po’ bizzarro.
«E ti manca?»
«Nah.» Guardo davanti a me, il niente. «E tu, Gerard?
Niente ragazze?» Dico girandomi verso di lui.
Alza le spalle.
«Ragazzi?» Alza le spalle di nuovo, sorridendo.
Mi stiracchio, perché negli ultimi mesi la vita è stata un po’ faticosa da
gestire e ogni tanto il mio corpo me lo ricorda.
Mi alzo, chiedendogli in silenzio di passarmi il suo tovagliolino, lo prendo e
lo butto con il mio nel cestino a pochi metri dalla panchina.
Quando mi risiedo, chiedo: «Gee, posso dormirti sulla
spalla? Sto morendo di sonno.»
«Ascoltiamo un po’ di musica?»
Annuisco, già appoggiato a lui. Mi porge una cuffietta, la prendo senza vederla
e il veloce contatto mi informa sulla fredda temperatura delle sue dita.
Con una mano mi accarezza i capelli due volte, e mi sento un bambino.
Partono i The Smiths, appoggia la testa sulla mia e
per prendermi in giro mi dice qualcosa simile a “Buona notte, piccolo Frankie”,
che mi fa sentire ancora più bambino.
Il tempo non si muove, perché non so cosa sia, mentre le canzoni si susseguono.
Mi ritrovo a sorridere alla brezza.
Conosco Gerard da qualche settimana e non ha ancora fatto niente per confermare
l’ipotesi del piromane posseduto da Satana. Farei meglio ad accantonare
quell’ipotesi.
Nel buio delle mie palpebre lo immagino ancora più pallido, con occhi
follemente rossi. Devo ammettere che la cosa mi disturba meno di quello che una
persona standard penserebbe. Prima o poi glielo dirò, di questa mia strana
idea. Potrebbe considerarla divertente anche lui e farmi un bel disegno, visto
che ne è capace.
Ma per quanto possa sembrare carino in versione demoniaca, preferisco il Gerard
che in queste settimane si è dimostrato essere; con gli occhi particolari e
tutto il resto.
Dev’essere davvero figo nascere con le iridi rosse.
Dev’essere davvero figo anche dal punto di vista medico.
Allarmante, persino.
La brezza continua a spostarmi i capelli.
Mi sono stancato di stare qui a poltrire, la musica mi sta infondendo il
bisogno di agire, al contrario di quello che mi ero aspettato.
Tocco un fianco di Gerard, con un dito, come se fosse un panino di cui devo
controllare la temperatura. Sento la mia testa alleggerirsi, poi la alzo.
La sua faccia. Un po’ mi era mancata, in questi minuti. La sua espressione
interrogativa.
«Gee,» la canzone finisce, mi tolgo la cuffietta «ti
va di fare una passeggiata?»
Sbatte le palpebre un paio di volte, guarda l’ambiente alberato e scarsamente
affollato che ci circonda – o il vuoto e basta – e annuisce, arrotola le
cuffie, le mette in tasca, si alza.
΅΅΅
La sua macchina è come lui.
Non molto grande, nera, carina. Infonde fiducia. Così simile a lui che temo
l’alimenti a caffè . Neanche a pensarlo, dentro c’è odore di caffè.
È avvolgente, come la presenza di Gerard – sarà legato alla fiducia che
infonde.
Guida cautamente, ma per fortuna ad una velocità superiore a quella dei
vecchietti. Cioè, non che mi dispiaccia stare in macchina con lui, ma le mamme
con tanto di passeggini che ci superano preferirei evitarle.
Quando guido provo sempre a concentrarmi sulla strada rendendo le mie azioni
automatiche, se divago tra i miei pensieri mi viene il terrore di sbagliare
qualche manovra e causare un incidente.
Proprio come quando gioco a biliardino: appena mi distraggo mi rendo conto di
essermi distratto, e nel momento in cui mi concentro di nuovo sul gioco, perdo.
La differenza è che guidando rischio di perdere la vita.
Ora mi posso permettere tutti questi vagheggiamenti, perché la mia incolumità è
nelle mani di Gerard.
E, ribadisco, mi fido di lui.
Sono leggermente girato verso sinistra, e sto fissando le pieghe con cui la sua
camicia prova a colmare lo spazio non occupato dal suo braccio. La manica è ben
abbottonata e aderisce al polso, mentre il resto della manica sembra più un
sacchettino (senza cadere nel ridicolo, solo nel carino).
Vaneggiare fa passare molto tempo, spero non si sia sentito osservato.
Nel dubbio guardo la strada anch’io.
Socchiudendo gli occhi vedo qualcosa di riconducibile ad un quadro
impressionista. Le luci che perforano, l’asfalto che fende e le macchine
tagliate.
Sospiro sollevato, sperando che nessuno se ne sia accorto.
Suo fratello non è una fotocopia occhialuta di Gerard. Sono molto
diversi, in effetti. Non eccessivamente, c’è qualcosa che rende plausibile
credere che siano fratelli, però per molti aspetti sono diversi.
Prima di tutto, Michael è più alto, e più biondo.
E cosa più importante, vederlo con gli occhiali non mi sembra buffo.
O almeno penso che sia lui suo fratello, tra le poche persone che vedo sembra
l’unica con cui Gerard possa condividere parte del patrimonio genetico.
Seguo Gerard, che si ferma davanti al ragazzo che ho identificato come Michael.
«James, lui è Anthony.» Mi ha chiamato con il mio secondo nome? Lo sa che lo
detesto. Io e l’altro lo guardiamo male in contemporanea, al che Gerard sorride
colpevole e finge di sbuffare «Okay, Mikey, ti
presento Frank. Frank, Mikey.» Ci indica un po’ a
caso e ci ritroviamo a guardarci più o meno imbarazzati in questo parcheggio.
Come dei pesci morti che si fissano vacuamente.
«Ehm, ciao.» Azzardo. Azzardo.
«Gee mi ha parlato abbastanza di te.» Dice, forse per
imbarazzarmi.
Rido, perché di lui io invece non sapevo un cazzo «Di te invece non mi ha detto
niente, quel coglione.»
«Tipico.»
«La smettete di parlare alle mie spalle quando vi ho di fronte?»
Approfitta del momento di smarrimento per dare qualche colpetto alla spalla del
fratello.
«Su, fratellino, tra poco ti sposi.»
«Già. A proposito, andiamo dentro. Mancavi solo tu.»
Seguo i due fratelli sul prato, non sono mai stato in questa zona della città.
Vedo qualche persona sparsa seduta sulle due schiere di sedie.
«Frank, siediti qui.» mi dice Gerard toccando un posto nella prima fila. Mi
avvicino, un po’ a disagio, chiedendomi per la prima volta dopo tanto tempo,
seriamente, cosa stia facendo. Quindi Gerard si era sentito così al matrimonio
di mia cugina? Come mi ero sentito la prima volta che gli ho parlato, più o
meno. «Io devo stare vicino a Mikey perché sono il
suo testimone.»
Mi sento abbandonato.
Mi lasci così, in balia di me stesso? A ben un metro da te? Per un’intera
cerimonia?
Traditore.
«Okay.» Rispondo, freddamente.
«Tranquillo, sarà una cerimonia molto veloce» Sarà, ma rimani un traditore.
Mi siedo, in prima fila, a disagio – conosco solo una persona, e non le potrò
neanche parlare per una cosa come… quindici minuti.
Sono nel posto più esterno, e ho appoggiato i piedi sul prato. È sofficissimo,
devo toccarlo.
Allungo una mano verso i fili con disinvoltura, intanto guardo Gerard parlare
con suo fratello; quest’erba è davvero fantastica, mi ci sdraierei sopra.
Continuo ad accarezzarla, Gerard saluta un ragazzo più alto, dai capelli
ondeggianti. Mi è familiare, stacco un paio di fili e mi siedo compostamente.
Chissà dove l’ho visto…
La gente intanto inizia ad arrivare, e noto che nessuno si siede perché
parlottano tutti vicino all’altare – se posso chiamare così quel... qualcosa – o formano gruppi da altre parti. Sembrano
tutti dei ragazzi usciti da un concerto punk o, almeno, rock, presi e messi in
abiti eleganti. Probabilmente l’età media non supera i trent’anni, l’apparente
formalità che mi circonda sembra quasi il frutto di una festa satirica. Come se
fossero tutti qui a fingere di essere persone a cui frega qualcosa di avere
certi comportamenti appropriati, ma non avrebbero avuto problemi a venire in
pigiama.
Sì, sono l’unico seduto. Sembro un manichino.
Che cazzo ci fa un manichino ad un matrimonio?
«Frank, ehi.»
Alzo la testa spaventato, e mi imbatto nel divertimento di Gerard. Lo guardo
con aria di sufficienza. Rimane un traditore.
«Lei è mia mamma, Donna.» Vedo ora la donna che gli è accanto, mi alzo scattante
e dico: «Ciao.»
Ciao. Molto formale. Ora mi prenderà per un adolescente incivile
qualsiasi. Oh be’.
Gerard è ancora divertito. «Mamma, puoi sederti, vicino a Frank. Mikey dice che tra poco iniziano.»
Grazie, amico. Ora dovrò passare minuti della mia vita a dimostrare
implicitamente alla mamma di Gerard di essere una persona civile, rispettosa, e
degna di rispetto.
Le sorrido, dando inizio al processo di implicita dimostrazione di educazione.
Non posso evitare di non guardare la persona che qui conosco meglio. Sta parlando
con suo fratello, cioè… lo osserva mentre lui gli parla. Ora si è girato e ha
indicato una sedia ad un tizio, poi si è seduta su quella di fianco come a dare
l’esempio.
È il tizio di prima, che mi sembrava di avere già visto, più che altro mi
sembra di aver già visto i suoi capelli: sono tanti, sono ricci, e non sono
corti. Ondeggiano ogni volta che compie il minimo movimento o appena la brezza
ci raggiunge.
Sì, l’ho già visto.
Raddrizzo di poco la schiena con lo sguardo fisso su di lui, praticamente di
fronte a me.
Cazzo, ho capito! L’ho visto ad un paio di concerti. Non abbiamo mai parlato.
«Frank?»
Ma è possibile che ogni volta, ogni singola volta, Gerard debba cogliermi con
la testa tra le nuvole? Dirà mai il mio nome senza quell’aria divertita sfottente?
Lo guardo per concedergli la mia attenzione.
Si avvicina un po’, sporgendosi. Mi avvicino anch’io per inerzia. Sussurra: «Perché
fissi Ray?»
Sono abbastanza sicuro di essere arrossito, ma non tanto. Ray
sarà quel ragazzo riccioluto. «Non volevo fissarlo. Mi era familiare e mi sono
accorto di averlo visto a dei concerti.»
«Ray? Be’ è molto probabile, lui ci vive ai concerti.»
Sono sempre più convinto che adorerò i suoi amici.
Dove sono stati tutto questo tempo? Dov’è stato Gerard tutto questo tempo?
«Mi sta già simpatico, quel Ray.»
Sorride. «Ray è molto simpatico, sì. Ciao.» E si
gira.
Ciao. Va be’.
Traditore.
Spero seriamente che sua madre non mi parli per tutta la cerimonia, sarebbe
decisamente imbarazzante. Come se fosse probabile… vorrà assistere al
matrimonio del figlio.
L’atmosfera qui è migliore di quella al matrimonio di mia
cugina, sarà per il minor numero di ospiti che permette una certa intimità, la
brezza che compare ogni tanto o l’assenza del rigore religioso, del peso di
legarsi a qualcuno sotto gli occhi della Chiesa. Lì potevo parlare con Gerard,
ma ora oltre a non averne bisogno posso comunque percepirne la presenza.
Sugellano le promesse appena fatte in un casto bacio, e mi unisco all’applauso
come fossi un loro vecchio amico.
Gerard si alza per abbracciare il fratello, e sento una gioia innaturale nel
vedere l’affetto reciproco che li lega. A volte vorrei avere anch’io un
fratello o una sorella, la complicità di vivere sotto lo stesso tetto, giocare
e confidarsi, o solo fidarsi di qualcuno.
Poi si separano, Gerard gli dà un buffetto sulla spalla e mi raggiunge, mentre
gli invitati si alzano per complimentarsi. «Vieni, Frankie. Prima di andare a
mangiare voglio farti vedere una cosa.» Mi porge una mano per aiutarmi ad
alzarmi, anche se non ne ho bisogno; la prendo e continuo ad averla nella mia,
quando sono in piedi. È rassicurante, Gerard, è rassicurante la sua mano, la
sua presenza, il suo sorriso. È rassicurante anche quando inizia a camminare e
smetto di tenergli la mano.
In pratica ci troviamo in un prato immenso, con altre cose intorno. «Ti ricordi
di quando ti ho parlato del ponte –»
«Quello è il ponte su cui ti fermavi a disegnare da bambino?» Lo interrompo,
indicando un piccolo ponte di legno, che invece di coprire un torrente o
qualsiasi altro tipo di corso d’acqua, sovrasta dei fiori. È un ponte
fottutamente inutile, ormai è solo una panchina alternativa. Mi ha raccontato
che spesso sua nonna li portava qui, a stare in pace, a disegnare; è morta poco
più di un anno fa e abbiamo parlato di lei solo una volta.
Ho notato che parla di lei con una certa titubanza, come se volesse cambiare
argomento per non riportare alla luce alcuni ricordi – probabilmente un po’
vividi; anche quando la nomina, non lo fa mai a voce troppo alta. E la nomina
il meno possibile.
Mi avvicino a lui e gli avvolgo un braccio intorno alle spalle, appoggiando la
testa su di lui. Spero che abbia capito che mi sono ricordato cosa significhi
per lui questo luogo, e che per questo stia provando a comunicargli che, per
quanto possa contare, sono con lui.
Mi sfiora la mano, quella che gli penzola dalla spalla, forse ha capito.
Ci avviciniamo al ponte-panchina, il calore del sole diventa progressivamente
la fresca ombra di un antro floreale.
«Sai, Frankie, sei la prima persona con cui vengo qui che non sia Mikey, me stesso o-» si interrompe. Sento un senso di
vuoto, il prato scompare.
Sento qualcosa di morbido su tutta la faccia, e umidità sotto al mio corpo.
Cos-
Mi sollevo con il braccio destro, rendendomi conto del nostro stato. Pietoso.
Esatto, siamo caduti. Tutti quei stupidi fiori e l’erba – ancora più stupida –
non ci hanno permesso di notare il dislivello. Anche Gerard si è un po’
sollevato e appena i nostri sguardi si incrociano, inevitabilmente, scoppiamo
in una risata ancora più stupida della flora che ci ha ingannati.
Un’altra risata, diversa sia dalla mia sia da quella di Gerard, ci raggiunge e
girandomi scopro che è Mikey. Piegato su se stesso
molto poco elegantemente. Gerard smette di ridere e si rivolge al fratello:
«Smettila di ridere, tu!» poi si siede.
Mikey ormai ci ha raggiunti, e ancora sobbalzando per
le risate dice: «Scusate, stavo venendo a-» altre risate «poi siete… Oddio ma
come avete fatto?» Dopo qualche secondo riesce a ricomporsi. Guarda Gerard,
seduto tra i fiori con l’innocenza di un bambino; poi me, ancora accasciato sul
prato, in una posizione innaturale a causa delle risate.
Sorride e ci dice che tra poco si inizierà il pranzo.
Mi siedo di fianco a Gerard, e nel giro di tre secondi ci ritroviamo a ridere
come prima. Mikey si gira per un attimo, poi continua
a camminare scuotendo la testa con disappunto. Vedendolo, un nuovo attacco
isterico mi colpisce e mi attacco alla spalla di Gerard per non crollare a
terra.
L’aria è piacevole, mi sento meno infiltrato di quello che
sono. Meno di come mi sentivo al matrimonio di mia cugina, e sembra paradossale
dal momento che non ho idea di chi siano queste persone.
Nell’eleganza simulata di questo posto, io e Gerard non possiamo che essere a
nostro agio. I nostri abiti sono umidi, pieni di piccole macchie verdi o
colorate.
Lo seguo, convinto che mangiare in un tavolo di gente che sicuramente non ci
guarderà male si rivelerà una piacevole avventura.
Siamo tornati vicino al ponte-panchina, io e Gerard. Più o
meno sdraiati, come prima, ’ché tanto ci siamo già sputtanati i vestiti.
Tutta l’erba sotto di me emana una specie di fresco che sembra, tra l’altro,
facilitarmi la respirazione. Abbiamo il ponte-panchina una decina di centimetri
dietro di noi, e in avanti il prato sembra una spiaggia verde scura,
frastagliata, che si affaccia su un mare di un verde quasi luminoso.
Chissà i proprietari di questo posto quanta acqua consumano per innaffiare il
prato.
Mi sento un po’ pieno, abbiamo mangiato davvero tanto – più che altro, abituato
come sono ai tristi pasti che mi preparo pigramente, non ero preparato. Sorrido
ricordando tutte le persone interessanti che ho conosciuto, e che probabilmente
incontrerò al concerto a cui mi ha invitato Ger-
«Ascoltiamo un po’ di musica?» Interrompe i miei vaneggiamenti, come sempre.
Annuisco, e dopo poco ci ritroviamo immersi in una canzone dei The Smiths. Sembra quella che avevamo ascoltato anche al parco,
settimane fa. Quando avevamo parlato di gelati e relazioni. In effetti, quel
giorno quando tornai a casa pensai a quanto fosse strano che una persona
gentile e carina come Gerard non avesse neanche un mezzo fidanzato.
Avranno tutti paura delle sue manie da piromane? Andiamo, ragazzi, non sono
neanche teorie dimostrate, e probabilmente sono l’unico ad averle ipotizzate.
Anche se, a pensarci bene, Mikey ha avuto
l’accortezza – chiamiamola così – di sposarsi non in chiesa.
«Frankie. Sei proprio fantastico, lo sai?» Mi arriva la sua voce, e tutti i
pensieri si accartocciano, svaniscono.
Stava pensando a me? Come io stavo pensando a lui?
Be’ forse non pensava a me come piromane, ma stava pensando a me.
«Certo.» Gli sorrido, tanto per sembrare un po’ più idiota. E forse, forse,
rassicurante. «Anche tu lo sei.» Aggiungo, per rassicurarlo ulteriormente.
Trattiene una risata ridendo, e, davvero, non posso evitare di guardarlo negli
occhi. Sarà per il debole che ho per quelle iridi, pupille, e tutto quello che
le circonda – compresa la persona. Sarà che anche nell’ombra di questo posto
riescono a brillare.
È appena iniziata una canzone di cui al momento non mi viene in mente il titolo, dopo
devo controllare. Non ricordo neanche le parole, ma è orecchiabile.
Nana na nana…
Forse sto ancora fissando Gerard, i capelli che continueranno a coprirgli
la faccia in eterno, non importa quanto tenti di portarli dietro l’orecchio.
Nana…
Sono appoggiato al prato solo su un braccio, però per qualche ragione mi sento
al sicuro, ed in equilibrio.
Nana na…
Ci avviciniamo, ad ogni millimetro in meno mi sento più leggero.
Cosa stiamo facendo?
Avevo detto che la storia era divisa in due
parti? Be’, potrei aver mentito.
Ebbene sì, potrei avere la tentazione di continuarla. In futuro.
Per ora accontentatevi di questa… questo… finale.
Dico che la storia è conclusa, ma se tra qualche mese vedrete di nuovo il
titolo sotto alla sezione My Chemical Romance non
spaventatevi, sono solo io che ho ritrovato stupidaggini da far vivere al
povero Frankie.
Spero di avervi quantomeno divertito – non
tanto, giusto un pochino. Il minimo per non sentirmi inutile.
Se vi va, scrivetemi pure.
Vado a continuare i miei altri mille progetti.
xoxo Coffee_Time