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Autore: Defective Queen    27/03/2009    4 recensioni
Ti odio.
Ti ho sempre odiata.
Sin dall’istante in cui mi hanno parlato di te per la prima volta.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Okay, lo so che potrà sembrarvi mentalmente disturbata e moralmente distorta, ma mi piace esplorare un po’ la “dark side” degli aspetti umani.
Una nascita porta di solito un sacco di novità e buon umore, ma in questo caso è tutto il contrario. E’ strana, lo ammetto, visto che io per prima sono figlia unica, quindi non ne so una mazza di rapporti tra fratelli, ma ci ho aggiunto un po’ di frustrazione accumulata sempre in ambito famigliare ed ecco come ha avuto origine questa piccola one-shot.
Impressioni?




***


Ti odio.
Ti ho sempre odiata.
Sin dall’istante in cui mi hanno parlato di te per la prima volta.
Sin dal momento in cui dei gridolini eccitati mi hanno informato che avrei presto avuto una “sorellina”.
Ricordo allora di aver guardato mia madre con severità, senza sorridere e senza deviare la mia espressione di un millimetro.
Era alla soglia dei quarantacinque anni, la sua salute non era delle migliori, e si arrischiava ad avere un bambino così all’improvviso?
Ma soprattutto era vecchia. Almeno per me.
“Non sei contenta?”
“Oh certo”. Ero la contentezza in persona.
Pianti fuori orario, strilli per casa, pannolini vaganti, omogeneizzati gettati sul pavimento.
Con questi presupposti, ero certa che la mia vita sarebbe diventata un inferno.
Sette mesi dopo sei arrivata tu.
Ricoperta di sangue, piangevi sgolandoti, quasi volessi annunciare il tuo arrivo a qualunque essere umano presente sulla terra.
Io ho storto il naso, infastidita, anticipando la distruzione della mia pacata tranquillità.
Appena due settimane dopo, una culla rosa ha fatto capolino nella mia stanza, inquinando il mio spazio privato.
“Mi raccomando, sta’ attenta alla sorellina.”
La vecchia ha poi lasciato la stanza, trascinandosi stanca e in sovrappeso oltre la porta.
Mi sono avvicinata a te, guardandoti dall’alto mentre riposavi nel tuo giaciglio fatto di peluche, carillon e cuscini morbidissimi.
Succhiavi avidamente il ciuccio con gli occhi chiusi e le tue lunghissime ciglia brune ti sfioravano le gote.
“Ti odio”, ho sussurrato. Tu, naturalmente, non mi ha sentito.
Dal giorno in cui eri nata non avevo avuto pace. Una marea di persone si era riversata a casa nostra, riempiendo i miei genitori di regali per la nuova arrivata.
Catturata dalla morsa assassina delle zie, ho dovuto sopportare di buon grado i loro sproloqui.
“E’ tale e quale ha te!”, hanno squittito, prendendomi sottobraccio e osservandoti, “Gli stessi occhi, lo stesso naso, lo stesso modo di sorridere!”
Le ho guardate sinceramente stupita: ma mi avevano mai vista sorridere?
E poi i tuoi occhi non erano altro che un grigio lattiginoso, immenso e confuso allo stesso tempo, niente a che vedere con i miei occhi marroni.
Persino il tuo naso era semplicemente un ammasso tozzo di cartilagine dalla forma di una patata, contrariamente al mio setto nasale sottile e incurvato all’insù.
Dove la vedevano allora tutta questa somiglianza?
Quando hai iniziato a parlare, poi, i paragoni tra te e me sono proseguiti a tamburo battente.
“Anche Elisa era uguale alla sua età: ha iniziato subito a parlare e camminare! Non riuscivamo nemmeno a starle dietro!”
E chissà come mai anche se quelle conversazioni erano incentrate su di me, non mi riguardavano per niente.
Tu non eri altro che una stupida fotocopia di un’originale. Allora perché ti riservavano così tanta importanza?
“Sono davvero identiche. Se non fosse per l’età sarebbero due gemelle.”
Sinceramente io non l’ho mai vista tutta questa somiglianza tra noi. Ho sempre voluto mantenere la mia indipendenza.
Chi eri tu, allora, piccolo insetto, per privarmi di questa?
Elisa. Elisa. Elisa. Continuavano a pronunciare il mio nome, ma non chiamavano mai me. Era sempre solo per paragonare te a me. Sempre e solo te.
Quel giorno faceva caldo e mi avevano costretto a portarti in braccio lungo una salita piuttosto ripida. Il sudore colava dalla mia fronte, fino ad insinuarsi nella mia maglietta.
Tu eri stretta a me, riparata dal sole da un cappellino e da un paio di lenti scure dalla montatura colorata.
Il tuo respiro caldo si infrangeva contro il mio collo, aumentando la mia percezione dell'afa.
“Ti odio”, ti ho detto per la seconda volta.
Questa volta tu mi hai guardato con quegli occhi grandi come un buco nero, come se avessi capito realmente cosa intendessi.
Come un pappagallo hai ripetuto le mie parole: “Ti o-odio, odio”
Ho sorriso laconicamente. Bene, adesso avevi imparato anche tu a reciprocare quello che provavo per te.
Quando ti ho posato a terra, ti sei lagnata per il caldo e hai puntato i piedi dicendo di non voler camminare.
La vecchia ti ha accontentata, prendendoti in braccio, nonostante la schiena continuasse a farle male.
Hai sempre causato problemi: perché gli altri non dovrebbero odiarti?
Ma per tutti i componenti della famiglia, a quanto pare, tu non sei altro che uguale a me. Sembrava non trovassero un aggettivo migliore per descriverti.
Quando hai iniziato l’asilo, mamma ha riciclato per te il mio stesso grembiule. Era vecchio, un po’ scolorito, ma ti stava a pennello.
Anche gli altri vestiti che indossavi, un tempo erano stati miei.
Probabilmente mi ero fatta la pipì addosso, indossando quegli stessi pantaloncini, oppure avevo sporcato quel cappottino con della cioccolata.
Adesso tutto era stato pulito, lavato, igenizzato.
Le fotografie di quando ero piccola, sono state rimpiazzate sul comodino dalle tue, nuove e dai colori freschi e vitali.
Un altro modo per appiccicare sulla tua pelle il mio nome. Un altro modo per far sì che io ti odiassi ancora di più.
Un giorno poi sei tornata a casa piangendo. Avevi il ginocchio sbucciato e le mani graffiate.
Hai detto a papà che un bambino dispettoso ti aveva spinta, facendoti cadere.
Digrignando i denti per il dolore, mentre ti curavano la ferita, hai urlato sgambettando: “Lo odio, lo odio!”
Sono rimasta scioccata dal sentirti dire quelle parole.
Te le avevo insegnate io.
Dovevano essere solo per me, solo tra te e me, come ci eravamo promesse in un patto silenzioso quel pomeriggio d’estate.
Il giorno dopo mi sono offerta di accompagnarti a scuola. Ti ho trascinata per la mano, mentre frignavi di non volerci tornare più in quella classe.
“Chi è stato?”, ho domandato. Fredda, inespressiva.
Hai puntato l’indice contro un marmocchio probabilmente più grande di te di un paio d’anni.
Ti ho lasciata e mi sono diretta verso di lui.
L’ho afferrato per i capelli, come se fosse la cosa più casuale del mondo.
“Chiedile scusa!”
Quello si è messo semplicemente a gridare, finché la maestra non è sopraggiunta urlandomi contro.
Tu sei scoppiata a piangere in un coro di strepiti e ti sei nascosta dietro la mia gamba.
“Basta! Basta!”, gridavi.
“Lo odi ancora?”, ho domandato, noncurante degli spintoni e delle urla della maestra.
Hai scosso la testa, singhiozzando, in segno di no.
Bene.
Mi sono liberata della donna impazzita e sono corsa via. Questo mi bastava.
Io odio te con tutto il cuore e tu non devi fare altro che odiare me.
Sarò contenta, finché ci sarà questo equilibrio tra noi. Mi basta questo, davvero.
Qualche mese dopo, in occasione di un pranzo in famiglia, la mamma ti ha convinta a recitare una poesia che avevi imparato all’asilo.
L’hai proclamata davanti al tuo piccolo pubblico famigliare, riscuotendo applausi e un po’ di spiccioli per regalo.
Anche in quel momento sono tornati a galla i ricordi di quando solevo esibirmi in piedi su una sedia, in occasione delle feste comandate, facendo sorridere gli adulti presenti.
“Come faceva Elisa…”
Per quanto io sia sempre menzionata nei loro discorsi, non ne sono mai la protagonista.
E’ questa l’ironia della sorte.
Dopo un po’, quando gli altri hanno iniziato ad andarsene, tu ti sei avvicinata a me e mi hai lasciato un bigliettino scarabocchiato in mano.
Sulla parte anteriore del foglio i colori erano accostati in maniera orrenda e senza alcuna considerazione, come pesantissime linee messe a caso.
Sei corsa via prima che potessi leggere ciò che c’era scritto. Timida, timorosa, tremante.
Sul retro del foglietto, a chiare lettere, in una calligrafia meccanica e infantile, c’era calcato questo, assieme ad altri ghirigori incomprensibili: “BUON COMPLEANNO ELISA! TI VOGLIO BENE”
Ah. Un impercettibile gemito mi è rimasto in gola. Ho chiuso il pugno, accartocciando il foglietto nel palmo della mano.
“Risposta sbagliata”, ho mormorato, deglutendo a fatica.
Mi sono alzata e ho appoggiato la mano sulla spalla della zia, che continuava a confabulare di quanto noi sorelle fossimo simili.
Mi sono avvicinata lentamente al suo orecchio e le ho sussurrato: “Ti sbagli, zia, lei non è uguale a me. E’ molto meglio.”
Sbattendo confusamente le palpebre, lei mi ha guardata smarrita. Inutile.
Ho sorriso, sventolando la mano, come per scacciare delle mosche.
Non mi avrebbero mai capita.
Non avrebbero mai capito perché io continuassi ad odiarti.
Odio quella che loro considerano un mio clone.
Odio l’immagine artefatta e perfetta che ti hanno incollato addosso.
Odio quella persona che in realtà non hanno mai guardato in faccia, e nonostante tutto continuano ad elogiare.
Odio questo biglietto accartocciato che tengo ancora in mano, eppure non riesco a buttare.
Odio la tua vocina, odio le tue gambine, odio le tue manine e tutti i termini vezzeggiativi che ti si possano attribuire.
E’ tutta colpa loro.
Se ti odio è solo per colpa loro.
Ma soprattutto, quello che odio sono queste lacrime che solcano il mio viso e non la vogliono smettere di fermarsi.
Era scontato. Tutti si erano riuniti a casa nostra senza nemmeno saperne il perché. Avevano mangiato e bevuto a sazietà e poi se n’erano andati, così, senza nemmeno rivolgermi uno sguardo.
Non avevano occhi che per te e per i ricordi legati alla mia infanzia.
Raggiunta un’età considerevolmente matura, avevo perso qualsiasi aspetto interessante per loro, affetti quasi da una sindrome di Peter Pan inversa.
Nessuno se n'era ricordato.

Nessuno tranne te, mia anima sorella profondamente odiata.

Da quand’è che qualcuno non mi augurava più “Buon compleanno?”


   
 
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