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Autore: DreamingIsLiving    05/03/2016    0 recensioni
"Ci hanno insegnato a combattere, resistere, sputare sangue pur di sopravvivere, eppure ci hanno fatto dimenticare ciò che vivere significhi".
Genere: Avventura, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ciao ragazzi, spero di non deludervi continuando a scrivere e per come le cose si stanno mettendo. Scrivete per qualsiasi commento, positivo o negativo.
 
"Così non funziona" nonostante la delusione della voce, era distinguibile un certo divertimento "questo bastardo sopporta il dolore troppo bene. Sto cominciando ad annoiarmi".


Il ragazzo riusciva a mala pena a distinguere le parole del secondo interlocutore, avvolto com'era in uno stato di semi coscienza, di luci soffuse e ombre. 

"Cosa pensa di fare?"
Dovevano pensare che fosse svenuto perché avevano lasciato passare molto tempo dall'ultima scossa. Sentiva il battito in procinto di tornare regolare.


"Passeremo ad un altro livello" la risata riempì la stanza "se il dolore Fisico non è un problema, cominceremo con quello psicologico".
Le prime volte era stato terribile. Aveva visto morire tutti i suoi amici, tutte le persone a cui teneva. Le immagini sembravano sempre così reali, eppure in ogni occasione si risvegliava sudato ed agonizzante, la testa sul punto di esplodere.
Vedeva i volti tristi dei defunti, le loro labbra che si muovevamo, senza riuscire a formulare alcuno suono.

Sarebbe impazzito.
L'unica cosa che gli rimanevano erano i ricordi. Non quelli maestosi ma quelli più intimi, personali e, per questo, perfetti. Pensare ad essi lo ancorava alla
 Vita.


Tra tutti lei, lei che gli aveva insegnato che non tutto si può risolvere da soli.

 Che non c'è mai abbastanza distanza per le persone che si possono considerare amici. 


Sorrise.
Loro due erano come il sole e la luna durante un'eclissi, così diversi, l'uno ostacolava l'altra. Eppure era come se prima avesse conosciuto solo parzialmente il mondo.
"Bene" sorrise Mattew "così avete avuto modo di capire come funziona questa sala addestramento. Non che mi aspettassi che voi non riusciste ad arrivarci da soli".
Quel ragazzo non mi piaceva. I doppi sensi, i giochi di parole, i sorrisetti maliziosi.
Allo stesso tempo mi faceva pena il fatto che sembrava
non accorgersi di giocare con il fuoco. Il vero problema era Gabriel. Sul fatto che fosse un buon combattente non c'era nulla da obbiettare, ma era iroso, istintivo. Si potevano contare sulle dita di una mano le volte in cui l'avevo visto fermarsi a riflettere.
Continuavo ad osservarlo stringere i pugni, mentre le sue nocche diventavano sempre più pallide per la rabbia.
Se fosse scattato ancora, avrei dovuto fermarlo prima che combinasse qualche disastro. 

"Fantastico" urlò Alyssa, distogliendomi dai miei pensieri. 

Quando i suoi occhi mi puntarono per trovare una conferma, scrollai appena le spalle e mi appoggiai alla parete, mentre un membro della resistenza ci illustrava il funzionamento di qualche macchinario. Il suo perpetuo entusiasmo mi metteva a disagio. 

"è strano però" continuò lei.


"Di cosa parli?" Le chiese Gabriel.
Tipico, guardava all'apparenza senza chiedersi cosa ci fosse più a fondo. Possibile che non si fosse chiesto come fosse possibile che la Resistenza controllasse un intero palazzo della zona residenziale e nessuno vi avesse mai fatto un controllo? 

Ma, dopotutto, che importanza aveva? Prima questa missione avrebbe avuto fine, prima saremmo potuti andarcene.


"Non è mai venuto nessuno a fare qualche controllo?" Chiese la ragazza.

"Qualcuno in entrata, ma raramente" rispose evasivo "perché lo chiedi?"

"Un palazzo come questo non scompare nel nulla"


"Abbiamo i nostri metodi" si vantò, spostando l'attenzione su un altro attrezzo e iniziando una nuova spiegazione.


-nostri metodi- mi ripetei.
Se fossero stati veramente così efficaci, non avrebbero potuto ideare un piano che, a differenza del loro, non avesse buchi da tutte le parti?


La mia attenzione si spostò su Ginevra.
Doveva aver percepito la nostra presenza perchè i suoi movimenti si stavano facendo sempre più rigidi e controllati.
La studiai mentre con un asciugamano si puliva dal sudore che le imperlava la pelle. Piccole gocce le ricadevano lungo la spina dorsale, incatenando i miei occhi e obbligandoli a seguirne il percorso.
Cosa diavolo ti sta succedendo? Mi rimproverai. Mai perdere la concentrazione.

"Il centro è aperto tutta la notte?" Chiesi.


"Certamente"


Bene, avrei lasciato che la mia mente fosse impegnata, così
da permettere all'istinto di avere il predominio.
Non mi sarei mai aspettato un tale livello tecnologico in una cittadina come quella. Soprattutto nelle mani dei ribelli. 

Alyssa aveva ragione, era pressoché impossibile che tutto questo fosse rimasto non visto. Ciononostante non si trattava di affari che mi riguardavano. Il mio compito consisteva esclusivamente nell'eseguire gli ordini. 

Dopo l'ennesima sessione di allenamento mi ritrovai a girovagare per i corridoi del palazzo.
Per quanto quelle macchine dessero l'impressione di riflettere la realtà, diventavano ben presto noiose, monotone. Osservai con attenzione ogni porta che mi si presentò innanzi, finché, finalmente, non trovai le scale che portavano al terrazzo panoramico. 

Osservare la città dall'alto mi rilassò.
Tutto sembrava incredibilmente piccolo ed innocuo, non si distinguevano persone e cose, solo numerose luci, alcune immobili, altre in un frenetico movimento.
Mi immersi a tal punto in quella visione che quando sentii un rumore alle mie spalle scattai. Senza rendermene conto ero già lì, pronto a uccidere l'individuo che mi si trovava innanzi, con un pugnale puntato alla gola. Non appena incrociai i suoi occhi ebbi un brivido. Ancora lei, anche in quella circostanza la sua visione mi tormentava, mi impediva di essere lucido e freddo. 

"Non volevo disturbarti" riuscì a dire e solo a causa della sua voce roca riuscii a rendermi conto che non avevo ancora allentato la presa.
Allontanai l'arma e le voltai le spalle.


"Da quanto tempo mi stavi osservando" chiesi, velando l'imbarazzo. Era il mio compito essere sempre pronto al peggio, non c'era nulla di sorprendente, nulla di cui doversi scusare, nella mia reazione.
 "Veramente ero qui da prima che tu arrivassi" rispose "mi rilassa Stare qui sola, solo le stelle a farmi compagnia.  È l'unico momento in cui mi sento pienamente padrona di me stessa".

Strinsi le braccia al petto, osservando l'orizzonte. Padroni di se stessi, mi ripetei. Come se fosse veramente possibile esserlo.

"Ti conosco da così poco" sospirò avvicinandosi e appoggiandosi alla ringhiera al mio fianco, facendo leva sulle braccia per protendersi verso il vuoto "ma pagherei per sapere cosa ti passa per la testa ogni volta che ti chiudi in quell'ostinato silenzio". 

La brezza notturna le accarezzava il viso, i capelli sembravano vibrare di vita propria, riflettendo le mille sfumature delle stelle. 

"Stai attenta, potresti cadere".

Sbuffò e, ritraendosi agilmente con un balzo, "come fanno i tuoi amici a sopportarti?" Chiese, scostandosi un ciuffo ribelle. 


Amici? Erano solo compagni di missione. Come me anche loro non vedevano l'ora di finirla, tornare alle loro rispettive vite. 

"Non vorrei che, cadendo, facessi fallire la missione prima del tempo" dissi invece. 


I suoi occhi mi studiarono a lungo, cercando qualcosa che neppure io riuscii ad identificare. Quindi tornò ad osservare il cielo. 

"Sarebbe meraviglioso vivere tra le nuvole" bisbigliò con aria sognate. 

Vivere tra le nuvole? Ma cos'ha? Cinque anni?
"Anzi no.. È una fortuna che non lo si possa fare" si trattava
di una constatazione, velata da un'amara malinconia "altrimenti gli uomini riuscirebbero a contaminare anche quello con la sete di potere, con le loro stupide manie di onnipotenza".

Mai sentito parlare di scontri aerei?
Eppure, per quanto tentassi di contrastare i suoi pensieri, la capivo ed, in parte, condividevo le sue parole. 

"È ora di andare" il fatto che si comportasse con me come
con una persona che conosci da anni cominciava ad infastidirmi seriamente. 


Si issò nuovamente sulle braccia, allungandosi il più possibile, lasciando che la brezza fredda le accarezzasse le gote.
 Irritato la tirai indietro, cercando di essere il più delicato possibile, ma non nascondendo l’irruenza che l’avrebbe spinta a non ritentare. 


"Si" mi assecondò dopo uno sguardo di stizza “volevo solo al- lungare il più possibile questo momento, volevo costruirmi un ricordo”. 


I ricordi non si costruiscono, la vita si vive e basta. I ricordi sono semplicemente dei demoni sempre pronti a tormentarti. 

Proseguimmo verso le nostre rispettive stanze in silenzio.
Non ricambiai il suo saluto quando ad un incrocio prendemmo strade opposte.
Mi sentivo strano ma non aveva importanza.
Amici? Chi ne ha bisogno? Chi ha bisogno di queste conversazioni strappalacrime?
Avrei affrontato tutto da solo.
Come già in passato avevo fatto. 

Come avrei continuato a fare. 

Io contro il mondo o, meglio, io che cercavo con tutto me stesso che il mondo non si accorgesse di me, che mi lasciasse fuori dalla partita a scacchi che gioca contro il fato, incurante di sacrificare una qualsiasi pedina per uno scopo noto solo a lui.
Il prigioniero aprì gli occhi quel tanto che gli fu necessario per accecarsi con le flebili luci soffuse della stanza dove lo stavano torturando.
pochi secondi sufficienti per fargli comprendere la fine di un altro ricordo rivissuto in un sogno che temeva non fosse stato visibile solo a lui stesso.
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“avevate un piano”
“si..” sospirò Ginevra, mordendosi impercettibilmente un labbro.
“un buon piano” aggiunse.
“così pensavamo” sospirò la più giovane.
“e..?”
“e ci sbagliavamo..”
 
“non posso crederci” mi ringhiò a pochi centimetri dal volto.
“io..”
“tu cosa?” soffocò un urlo “vuoi chiedermi scusa? Oh certo cara bambina, ti perdono per avermi fatto cadere il gelato.. ah no, aspetta! Non si tratta di questo. Non è, semplicemente un maledettissimo gioco!”
“Azrael, basta” intervenne Alyssa.
“si, amico” Gabriel gli posò una mano sulla spalla “datti una calmata”
Udite quelle parole temetti che gli venisse staccato il braccio, tanto il ragazzo era furente. Eppure non fece nulla. Sembrò non accorgersi della presa, era totalmente concentrato su di me. Probabilmente stava escogitando un modo per uccidermi mantenendo comunque fede al patto.
“lo so che non è un gioco” ed era vero, avevo dato anima e corpo per quella missione, erano notti che non dormivo, che  ripetevo, secondo dopo secondo, il piano a me stessa. Come non avevo potuto pensare a..
“le uniformi sbagliate” sibilò “Dio.. come avete potuto essere così..”
“..stupidi?” lo bloccai “dai offendi pure, così si che risolvi la situazione”.
“cosa dovrei fare?” chiese, preso in contropiede “noi siamo..”
“.. il braccio che muove la spada? Il dito che preme il grilletto? voi eseguite gli ordini che altri hanno già predisposto per voi. Facile, no?” chiesi non riuscendo a trattenermi.
“cosa vorresti dire?” la sua voce era così roca che temetti stesse per allungare le mani e stringerle intorno alla mia gola. Eppure ormai dovevo continuare, non riuscivo a capirne appieno il motivo, ma ero arrabbiata quanto lui, arrabbiata con lui.
“è questo che vi raccontate la notte prima di dormire?” presi fiato “quando i volti di tutti quelli che avete ammazzato vi compaiono innanzi? Che tanto non è colpa vostra, per voi sono tutti carne da macello che vi è stato ordinato di sventrare!”.
“tu ci hai voluto” sembrava essersi calmato, non mi guardava più negli occhi, fissava un punto lontano alle mie spalle.
“ora calmatevi tutti e due” sentii il palmo caldo di Alyssa posarsi sulla mia spalla “non è colpa di nessuno, il tempo si sta riducendo velocemente, dobbiamo agire subito”.
“Ally ha ragione” l’appoggiò fermamente Gabriel “inoltre, tra tutte le possibili scelte, neppure io avrei mai immaginato che avesse come scorta i membri della Legion. È un corpo che pensavo fosse caduto in disuso da tempo.. senza parlare che non fu istituito per interventi militari ma, soprattutto, per tutelare l’ambito finanziario”.
Azrael si rilassò, i suoi muscoli si distesero e la mascella si distese “cosa proponete?” chiese ai suoi compagni, ignorandomi, con l’unico scopo di umiliarmi, di sottolineare la mia inferiorità.
“come ho detto, dobbiamo agire” sottolineò L’altra ragazza, sfoderando uno sguardo fintamente innocente.
Gli abissi grigi del giovane si illuminarono di una luce maliziosamente diabolica. Sentii il cuore perdere un battito, mentre una strana sensazione mi inondava il petto, lasciando un vuoto nel ventre.
“non abbiamo le uniformi giuste? Bene, rimedieremo subito” sentenziò.
 
“avete steso dei membri della Legion?” chiese sorpresa Isabelle.
“al tempo non sapevamo che fossero stati addestrati per diventare la guardia personale del Dictator” sottolineai.
“questo non toglie nulla al fatto che l’abbiate fatto”
La ragazza ripensò a quello che era realmente accaduto, a quanto velocemente i fatti si erano susseguiti non lasciandole neppure il tempo di riflettere.
“posso farti una domanda?” le venne chiesto.
“non capisco perché tu me lo chieda ogni volta” scrollò le spalle “come se la mia risposta ti facesse desistere”.
Lei scoppiò a ridere con tanta forza che mi sorprese.
“mi trovi tanto buffa?” chiese sospirando.
“non era una battuta?”
“quale?”
“non vorrai dirmi che avete veramente preparato le uniformi sbagliate”
La giovane sospirò di nuovo “non ti ci metterai pure tu!” si rese conto che anche lei stava faticando a trattenere le risate.
“ma dai..” insistette l’infermiera.
“senti sono già stata rimproverata abbastanza per questo. Se vuoi continuare fallo in un’altra stanza”.
“questa poi” rise più fragorosamente “vuoi mandarmi via da una camera di casa mia”.
La banalità di quell’affermazione non impedì a Ginevra di cogliere ciò che si nascondesse oltre la superficie.
“non mi avevi mai detto che si trattasse di casa tua”, si sforzò il più possibile di apparire calma e disinteressata.
Il silenzio invase la stanza. Isabelle guardò in basso e, in un sussurro “infatti non lo è” disse.
Detto ciò cominciò a guardarla, col lo sguardo fisso nei suoi occhi, come se stesse decidendo se aggiungere altro o rimanere lì, immobile. Le iridi lasciavano trapelare una mal velata tristezza, un crescente disagio e qualcosa che riusciva ad identificare solo come senso di colpa
“devo andare” scattò in piedi e si diresse verso la porta.
“aspetta, quando torni?”
“non lo so” non si fermò neppure e, mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, aggiunse “ma presto, tranquilla, devo solo sistemare alcune faccende”.

 
Un leone, seppur incatenato e imprigionato, non si arrende mai, la sua esigenza di libertà non si placa, così come mai muore il suo istinto di cacciatore.
Così come la nobile fiera anche William aveva atteso, vigile, soffocando quanto possibile il dolore.
Sapeva che Elizabeth sarebbe stata pronta ad intervenire, il suo compito consisteva solo nel permetterglielo.
Il Consiglio in quel momento stava sottovalutando i due prigionieri.
 La gioia nata da quell’apparente vittoria aveva offuscato le loro menti, alleggerito i loro sensi. Urli di esultanza avevano riempito l’aria accompagnati, come fossero un coro d’archi, da risate sprezzanti.
Nessuno si era accorto che William aveva messo mano a Levorith e un nuovo ardore aveva colmato il suo cuore tale era la forza che quell’arma gli dava.
“Ferith!” aveva urlato e un unico, enorme tuono aveva sovrastato il cielo, lasciandolo ancora più scuro. Ogni suono era cessato, la puzza di morte aveva riempito l’aria.
L’uomo combatteva rendendo merito alla fama che l’aveva sempre preceduto. Non era il più forte ma l’astuzia e la destrezza riempivano questa sua mancanza. Corse verso l’Anziana. Inutili furono i tentativi delle guardie che si opposero, una a una vennero decapitate, mutilate, uccise. In una situazione normale quella l’avrebbe distrutto solo con la forza del pensiero, ma lui l’aveva sorpresa, l’aveva colta alla sprovvista e, come la severa educazione militare gli aveva insegnato, era stato in grado di sfruttare la sua incertezza per catturarla.
“ridatemelo” urlò ai presenti “ridatemelo e nulla le sarà fatto”. Pronunciò queste parole lentamente, affinché i presenti capissero che la sete di sangue della sua arma non era stata ancora placata e che lui era ancora pronto a soddisfarla.
 
Si svegliò con il cuore che minacciava di uscirgli dal petto, chiedendosi dove fosse e ancor più chi fosse.
Solo le fitte ai polsi, corrosi dalle catene che li devastavano e l’aria avvolta dal tanfo di pelle bruciata e sangue lo riportarono alla realtà.
Ancora quel sogno, ancora quelle persone, si disse. Gli  interrogativi riuscirono a riempire il vuoto di quella cella, a colorare il buio che vi regnava.
Chi erano? Cosa volevano? Perché proprio lui?
Eppure, ciò che quella volta più lo tormentava, ciò che più lo lasciava basito  era perché avesse sentito la rabbia di quell’uomo come se fosse sua, tanto vivamente che ancora adesso gli riempiva il petto di una sete di vendetta al contempo estranea, aliena, famigliare  e, perversamente, appagante.
 
“ci stiamo stancando di ospitarti” la voce sprezzante, a stento trattenuta, lo riportò alla realtà.
“io sono pronto ad andarmene” disse.
“c’è solo un modo per te di uscire da qui e, sinceramente, l’ipotesi che sia sulle tue gambe non è contemplata” rise, mesto.
Il giovane strinse i denti, cercando di resistere all’impulso di urlare, di permettere che tutta la sua rabbia uscisse, inutilmente. Quel sentimento sarebbe diventata un’arma temibile se avesse saputo attendere, una risorsa micidiale.
“come siamo silenziosi questa mattina”
Mattina, si ripeté mentalmente. Lo spazio ed il tempo scivolavano attorno a lui lasciandolo estraneo, alieno. Qualsiasi appiglio con la realtà gli venisse dato, lui lo stringeva, aggrappandosi ad esso con quelle poche forze che gli rimanevano.
“che c’è?” disse la guardia “non ti sarai per caso deciso a fare il bravo”.
Lui lo ignorò, sentiva l’ombra del sonno avvicinarsi a lui, inghiottirlo. Era stanco, bramava solo la pace, il riposo.
 
Sentii i miei stessi denti stridere. Solo in quel momento mi resi conto di aver sottovalutato il nemico. Non li avevo mai visti combattere, eppure non mi sarei mai aspettato così tanto da un semplice corpo di rappresentanza.
Tramortire il primo era stato facile. Preso alle spalle non si era neppure accorto di ciò che stesse accadendo. Con i restanti quattro avevamo faticato, invece.
Si muovevano veloci, danzando, si buttavano sulle nostre armi senza alcuna paura della morte. Nonostante le ferite avevano continuato a combattere fino all’ultimo.
La nuova posizione di capo che la missione mi aveva imposto non mi piaceva affatto. Non mi permetteva di concentrarmi come avrei dovuto, sempre attento com’ero ad accertarmi che i miei compagni stessero bene.
Quando, finalmente, la mia lama recise il collo del mio avversario come se la sua carne e le sue ossa fossero semplice carta, vidi che Alyssa era stata messa alle strette da due soldati.
Bastardi, pensai, ve la prendete con l’anello debole del gruppo.
Mi sbagliavo.
Feci per intervenire ma lo sguardo che lei mi lanciò mi bloccò.
Se loro danzavano lei non era da meno, deviava, parava e schivava come se si trattasse di un semplice gioco, con una grazia che raramente avevo visto. Non sembrava essere preoccupata, anche se scorgevo i suoi muscoli tendersi ad ogni colpo, i suoi occhi divenire sempre più concentrati e pronti a cogliere la loro minima incertezza.
Fu così veloce che faticai a seguirla. Si piegò sulle ginocchia, scansando un affondo. Il soldato guardò terrificato la sua stessa lama trafiggere il petto del suo commilitone che non ebbe neppure il tempo di emettere un respiro prima di accasciarsi al suolo.
La ragazza non gli diede la possibilità di reagire, gli recise i legamenti delle ginocchia, spingendolo a piegarsi al suolo. Lo decapitò, senza la minima esitazione, con una precisione chirurgia a tal punto che ad un solo rivolo di sangue fu permesso di uscire.
“ce ne avete messo” sospirò Gabriel, mentre con un piede controllava che il suo avversario fosse realmente deceduto.
“svestilo” mi limitai ad ordinargli senza accogliere la sua provocazione.
“cosa?” chiese una voce femminile.
Mi ero dimenticato di lei. Aveva assistito alla scena immobile, quasi pietrificata.
“stiamo rimediando ad un tuo errore” le risposi “diremo che un gruppo di insorti ci ha trattenuti, il sangue delle vesti ne sarà la prova”.
Lei non si mosse, lo sguardo sul mio come se non trovasse il coraggio di chiedermi se stessi scherzando o meno.
“pensavo fossi pronta a tutto” dissi aspramente.
Si riscosse, senza aggiungere altro cominciò a svestire una delle guardie al suolo.
Una volta che finimmo mi voltai, intento a raggiungere il corteo. Avevamo le divise ma ciò non era una garanzia, solo un espediente per ritardare l’inevitabile, saremmo stati scoperti, bisognava agire in fretta.
“Aspetta” la mano di Ginevra strinse la mia e mi irrigidii al solo  contatto, sentivo il suo calore che trapelava nonostante i guanti di pelle.
“sei ferito” aggiunse.
“non è niente”
“sanguini” insistette.
Mi osservai il braccio, piccole, fredde gocce rosse colavano lungo il polso.
“non dirmi che un po’ di sangue di spaventa” mi liberai dalla sua presa.
Lei però mi fu subito d’avanti, le mani tese verso il mio petto. La guardai incuriosito, era ostinata a non lasciarmi fare un passo in più. Alyssa e Gabriel ci studiarono divertiti. Sapevo, comunque, che erano pronti a reagire in caso di una mia reazione esagerata.
“se solo fossi meno ottuso ti renderesti conto di quanto così tu non possa andare da nessuna parte” non distolse i suoi occhi dai miei.
“è un graffio” sospirai “sono abituato a ferite peggiori”
“quanto è vero” ghignò Gabriel.
Lo ignorai, avrei voluto lanciargli un sguardo che l’avrebbe zittito per parecchio tempo ma non riuscivo a distogliere le pupille dalle sue.
“no, tu non capisci” disse, muovendosi verso di me, alzando la manica dell’uniforme, mentre si stracciava un pezzo della camicia che, troppo larga, a stento riusciva a ricoprire con la giacca.
Lasciai che avvolgesse quel lembo di stoffa intorno alla mia pelle e, solo in quel momento capii.
Sangue, per quanto gli avessimo feriti non avevano che qualche rivolo di sangue lungo il corpo.
La scansai rudemente appena ebbe fatto l’ultimo nodo e mi inginocchia a lato dell’uomo che avevo trafitto. Un liquido trasparente colava dalle ferite con la stessa intensità di come avrebbe dovuto fare il sangue.
Lei se n’era accorta, sebbene sembrasse così sconvolta, non aveva lasciato che quel dettaglio le sfuggisse.
Non è poi così inutile, pensai con stizza, lasciandola sul posto, mentre tentavo di rendere meno assurda quell’impresa folle.
 
Mi guardai attorno, studiando la situazione che mi si presentava.
I soldati avevano abbandonato la rigidità e conformità dei movimenti, a cui erano stati obbligati nel corso della parata. Molti di loro erano già sdraiati a terra, incapaci di muoversi, la mente annebbiata dall’alcool. Altri guardavano famelici qualsiasi essere che potesse vantare una qualche curva. Cantavano a squarciagola, bestemmiavano e imprecavano. L’ambiente malsano e caotico dell’osteria, sembrava divenire sempre più piccolo, obbligando i presenti a stringersi l’uno accanto all’altro, a sfregarsi. L’aria rarefatta consisteva in una miscela di sudore, puzza di vomito e urina. Ciononostante l’euforia cresceva via via che i minuti scorrevano, poiché quello era il paradiso confronto alle atrocità della guerra, atrocità di cui quegli uomini erano stati testimoni, vittime e carnefici.
Un fiume di fischi proruppe quando la porta si spalancò ed entrò un uomo robusto. Le guance erano arrossate, gli occhi limpidi e scintillanti, ricchi di libidine e divertimento.
“tranquilli” intimò, la divisa aperta, sgualcita, di un colore appena più scuro, suggeriva che si trattasse di un ufficiale di grado superiore “nessun ordine per voi stasera, almeno dopo che voi avrete rispettato l’ultima volontà del Dictator”.
Calò un silenzio di tomba, gli sguardi si fecero attenti, in alcuni casi disperati e stanchi, in altri semplicemente sconfortati. Azrael notò che, invece, diversi uomini si stavano leccando le labbra, in attesa, eccitati.
“bisogna dare una lezione a queste povere bestie” continuò il nuovo arrivato solennemente “fino ad ora hanno avuto a che fare solo con piccoli cani da guardia addestrati, è ora che imparino come si comportano i leoni..”
Schioccò le dita e dalla porta proruppe un gruppo di donne. Alcune poco più che bambine, con lo sguardo intimorito e gli occhi spaventati, altre donne mature, volpi che cercavano la loro preda tra i predatori.
“..e le leonesse. Perché non si dica che il nostro amato comandante sia ingiusto” questa volta fu un battito di mani che portò all’ingresso di giovani uomini. Portavano ancora i resti delle uniformi dell’esercito locale, accuratamente stracciate per lasciar intravedere i muscoli, il corpo scolpito dalla dura vita militare. Erano più preoccupati delle donne, procedevano con una lentezza estenuante, guardando a terra, inciampando sui propri passi. Non erano abituati a tutto questo, almeno non a recitare quella parte del racconto, quel ruolo.
“allora vuoi da bere?” la voce roca dell’uomo, le parole appena scandite, lasciavano intendere molto su come avesse passato le sue ultime ore.
Osservai Ginevra studiarlo, per poi ignorarlo completamente.
Lui tornò alla carica, colpito da quell’atteggiamento superiore, non rendendosi conto di quanto la scena precedente avesse sconvolto la ragazza, occupando tutti i suoi pensieri. Per il soldato si trattava, ormai, di una questione d’onore. Ordinò all’oste da bere e buttò tra le mani della giovane un boccale colmo.
Lei gli lanciò un’occhiata furente. “no, grazie” rispose gelida.
“facciamo la preziosa con quell’uniforme?” chiese malizioso “come se non l’avessi aperta così tanto apposta per mostrare il seno. Che c’è? Non sono abbastanza per te? Lascia almeno che ti offra da bere”
“no, io non..”
“lei non è affar tuo” intervenni duro, sfidandolo, mantenendo il suo sguardo. Non mi ero neppure conto di aver fatto i passi necessari a raggiungerli. Sentivo una strana sensazione avvolgermi il ventre. Rabbia? Non aveva importanza, quel uomo mi dava la nausea.
“e tu saresti?” mi sputò sul volto il suo alito maleodorante, misto di tabacco e rum.
“qualcuno che non ti conviene avere come nemico” sibilai minaccioso.
Lo vidi afferrare la lama che nascondeva sotto la camicia e stringere l’impugnatura. Irrigidii i muscoli, pronto a renderlo inoffensivo.
“ehi” intervenne un terzo soldato, stringendogli una spalla “c’è abbastanza carne per tutti. Lei è una di noi e loro sono giovani” la sua presa sulle spalle del commilitone si fece più salda “non puoi biasimarli se preferiscono unirsi tra loro, sono così giovani, non ancora pronti a esperienze, per così dire, esotiche”.
Ammiccò verso di me e io, istintivamente, strinsi un braccio intorno alla vita di Ginevra, rendendo il messaggio il più chiaro possibile.
L’uomo lasciò andare il pugnale e sputò a terra.
Poi rivoltò verso di me “poppante” disse, scoppiando in una risata fragorosa ed afferrando una ragazza per i fianchi appena ne ebbe la possibilità, ignorando i suoi gridolini di diniego.
“accoglierete il volere del dictator?” urlò l’ufficiale alla porta.
Il silenzio continuò per alcuni istanti. Un soldato, alzando lo sguardo dalle carte da gioco, si accese una sigaretta e, dopo un profondo respiro sentenziò “e chi ci dice che questi non siano gli scarti del nostro amato protettore?”, una nuvola di fumo usci dalla sua bocca semiaperta.
Un nuovo schiocco delle dita risuonò nell’aria, seguito da un sorriso carico di malizia.
“scegline due, uno per sesso”.
Applausi e urla proruppero da ogni angolo della stanza. Fischi anticiparono quello che stava per accadere. Venne scelta una ragazza magra, gli occhi arrossati e gonfi di chi non ha ancora accettato il suo destino. Il ragazzo invece era alto e robusto, portava solo un paio di braghe, il petto nudo lasciava trapelare addominali appena scolpiti e una peluria scura. La giovane si guardava attorno confusa, cercava nello sguardo dello sfortunato compagno prescelto un appiglio, un ultimo conforto. Non trovò nulla di tutto ciò, lui continuava a guardare a terra, troppo codardo per fissare i suoi occhi, sapendo quello che stava per accadere.
Ginevra si lasciò andare di peso sul mio braccio. La guardai, mi riscossi, mi era stato così naturale non mollare la presa intorno alla sua vita che me ne sorpresi io stesso.
Lei fissava il pavimento, ostinata, rigida, fredda come il ghiaccio.
“portami via” sembrava una lieve brezza estiva, un soffio leggero e lontano.
“cosa?” chiesi.
“portami via, è un ordine” si schiarii la  voce.
La trascinai lontana, fuori. La frescura dell’aria serale fu un toccasana, per entrambi.
La giovane si scansò, fece due passi avanti, incerta sui suoi stessi piedi, brancolante. Si fermò, trasse un profondo respiro e si allontano ancora di qualche metro, questa volta più salda. La seguii. Si bloccò di colpo e, girandosi, ebbi il suo volto a pochi centimetri dal mio. Un’ombra impediva alle sue iridi di brillare nel modo a cui mi era abituato, una tempesta incombeva sul quel profondo abisso.
“ti prego..” iniziò ma la voce le morì in gola.
Non dissi niente. L’incertezza, la supplica silente del suo sguardo mi aveva colto completamente impreparato, in bilico tra sentimenti che non avrei mai pensato di poter provare.
“ti prego, dimmi perché l’hanno fatto, perché lo stanno facendo” questa volta la voce era chiara, dignitosa.
“questa è la guerra” mi limitai a dire.
“ma..”
“quali ma?” la rabbia che mi invase la sorprese “eri pronta a tutta o mentivi?”.
Mi guardò ferita, “cosa ti aspetti da me? Che abbia tutte le risposte? Beh, mi spiace deluderti”.
“io..” tentò di replicare.
Non le diedi il tempo di aggiungere nulla, mi allontanai nel buio, sentendo il bisogno di stare da solo, sentii a mala pena la sua ultima frase.
“..perdonami, non sarò più un peso”.


“Devi resistere” la voce era lontana, una leggera brezza estiva sotto il caldo sole di mezzogiorno.
“devi resistere” ripeteva ad intervalli regolari.
Dov’ero? Non ero nel freddo buio della prigione, non ero avvolto dai vivaci colori dei ricordi.
Più cercavo di sforzare gli occhi, più essi rimanevano accecati dalla luce che inondava l’aria.
“devi resistere”
Quel timbro, quella preoccupazione, quella rassicurazione intrinseca, c’era qualcosa di famigliare, ma cosa? Per quanto mi sforzassi quella domanda rimaneva senza risposta.
“devi resistere”
Ancora, ancora e ancora, mentre io, immobile, cominciavo ad acquisire consapevolezza del mio corpo. Sentivo il gelido metallo delle manette bruciare la ferita aperta da loro lasciatami nei polsi, la testa pulsare in sintonia con il cuore. Stavo per svegliarmi, o così avrei potuto dire se quello fosse stato un sogno.
“devi resistere”
“chi sei?” trovai la forza di pensare.
“devi resistere”
“cosa vuoi?”
“devi resistere”
“dove sono?”            
“è nell’anima la virtù, nel cuore la passione, nella mente la coscienza, non cercare la risposta in un solo luogo, altrimenti ciò che accenderai non sarà il fuoco eterno della conoscenza, ma la fiammella effimera dell’ipocrisia” sembrava una canzone, la voce perfetta, cadenzata, dolce.
“chi sei?” questa volta urlai, sentivo la realtà avvicinarsi sempre di più e la necessità di avere risposte diventava sempre più incombente, urgente.
“resisti e io resisterò con te, dividerò con te il tuo dolore, assorbirò ciò che tu non puoi sopportare” continuò “è questo il nostro compito, il nostro ruolo”.
“chi sei?”
“io sarò, noi saremo, sempre parte di te” era malinconia? “resisti!”
La luce divenne accecante, esplose, lasciandomi alla fredda oscurità della cella.
 
“il nostro ospite parla dal solo” lo canzonò la guardia.
Sebbene fosse ancora scosso per ciò che era successo, trovò la forza di controbattere “non ho nessun altro con cui trattenere conversazioni interessanti”
“potresti rispondere alle mie domande”
“pensavo di aver usato l’attributo interessanti” rispose il ragazzo “vuoi un sinonimo o lo capisci?”
“bastardo” digrignò, il giovane udì i suoi passi farsi sempre più vicini. Contrasse i muscoli appena la fredda verga si appoggiò al suo costato, pronto a resistere ai colpi, senza concedergli la possibilità di assaporare il suo dolore, la sua paura.
“pagherai la tua arroganza moccioso”
La frusta schioccò a terra, minacciosa.
“no” si oppose “tu non farai nulla”.
Il soldato fu preso in controtempo, rimase scioccato dalla convinzione del prigioniero e passarono diversi minuti prima che riuscisse a replicare “come?”
“conosco i miei limiti, ho la piena consapevolezza del mio corpo” la freddezza del giovane era inumana “so di essere allo stremo, so che forse morirò qui e non mi importa ma a te?”
“a me non interessa nulla d..”
“.. di far si che il tuo capo al suo ritorno mi ritrovi esanime e, soprattutto, ritrovi te senza alcuna risposta?”
“cos..” la voce del suo aguzzino era spezzata, aveva colto nel segno.
“mi sbaglio? Colpiscimi allora” lo provocò “e falla finita una volta per tutte, mi faresti un favore” il sibilo di una frusta che si riavvolge e viene rinfoderata si contrappose al silenzio.
“avete solo me” sorrise il giovane “e, quando sarà, l’onere di far scorrere il mio sangue per l’ultima volta non spetterà ad un semplice soldato come te”
I passi della guardia risuonarono, incapaci di nascondere la sua rabbia, mentre si dirigeva verso la porta.
La spalancò, ma prima di richiuderla alle sue spalle sussurrò “su una cosa ti sbagli, abbiamo sempre un piano di riserva” poi aggiunse “c’è un nome che continui a ripetere nel sonno, un nome femminile” sorrise nel vedere il prigioniero raddrizzarsi, allertato “sai? È un nome veramente famigliare, deve essere una ragazza speciale”.
La risata di sprezzo coprì le stridore delle catene che si contraevano e, ancor più, il battito di un cuore impazzito per furore, rabbia e preoccupazione.
  
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