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Autore: ValorosaViperaGentile    12/03/2016    8 recensioni
{Cesare Borgia/Lucrezia Borgia}
“Sono giochi di sangue, i loro giochi di adulti; comprendono solo ora che il fiore della gioventù, innocuo in apparenza, già celava nel calice quel futuro avvelenato.”
Nepi, 2 ottobre 1500.
Resa vedova dalle macchinazioni del fratello César e ritiratasi nella sua rocca di Nepi per il periodo di lutto, Lucrezia si vede costretta ad ospitare il mandante dell'assassinio del marito sotto il proprio tetto. Il rapporto fra loro, però, va aldilà di quello vittima e carnefice – aldilà di quello tra sorella e fratello.
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[PRIMA CLASSIFICATA AL CONTEST "You are my poison..." indetto da LeoValdez00 sul forum di Efp. Scritta a quattro mani con Theuncommonreader.]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Nickname su EFP: ValorosaViperaGentile & theuncommonreader
Nickname sul Forum: ValorosaViperaGentile & Harlequin_Valentine
Titolo: L'odio è un veleno prezioso
Fandom: Originale
Personaggi principali: Lucrezia Borgia; Cesare Borgia
Veleno: Belladonna
Citazione: 8
Canzone: E
Genere: Storico; Introspettivo; Angst
Rating: Arancione
Tipo di coppia: Het
Note/avvertimenti: Incest
NdA: (facoltative) Il titolo è parte di una citazione da Charles Baudelaire: "L'odio è un veleno prezioso, più caro di quello dei Borgia; perché è fatto con il nostro sangue, la nostra salute, il nostro sonno e due terzi del nostro amore". Per note ulteriori, fare riferimento a quelle dopo il testo.










L'odio è un veleno prezioso

 

 

 

 

Dalle finestre quadrate, refoli pungenti d’aria d’ottobre si insinuano nella stanza maggiore, scompigliando le fiamme che danzano nel grosso camino. C’è un tavolo, ancora apparecchiato per la cena, dove calici e vassoi d’argento giacciono negletti, semivuoti; sono scossi da un lieve tremore, provocato dal battere clandestino dei corpi dei due innamorati in nero contro il legno.
                Lontani dal fuoco, non si curano freddo: i loro volti, allungati e magri, sono vicinissimi e respiri umidi e pesanti si confondono l’uno nell’altro nella luce aranciata. Si stringono, fanno cozzare le membra in un fruscio di tessuti pesanti, si strusciano in una lotta aspra e colpevole: le unghie della donna si conficcano rapaci e vendicative nel collo scoperto dell’uomo, profonde lame, temperate dai loro peccati.
                Sono giochi di sangue, i loro giochi di adulti; comprendono solo ora che il fiore della gioventù, innocuo in apparenza, già celava nel calice quel futuro avvelenato.

                "Qual è lo spasso che preferisci, César?" gli domandò, riflettendo sulla pedina da muovere. "Agli scacchi forse daresti la precedenza alla dama, o a qualche altro gioco? Lo sbaraglino?" Dopo tanto tempo lontani occorreva conoscersi di nuovo: erano persone differenti adesso, i figli di Alessandro VI; lui vescovo di Valencia e lei una donna maritata, contessa di Pesaro. Non erano diventati estranei, tuttavia. Il loro amore non aveva conosciuto il tramonto, come invece succedeva ad altri. Né sarebbe accaduto mai.

                Così aveva sperato, Lucrezia, ma i suoi erano stati solo sogni ingenui di fanciulla: molto presto la vita li ha separati, così come il mare richiama via, ad ogni sospiro, le onde dalle dolci rive sabbiose; il loro sentimento, tuttavia, è un cavallone violento, sbattuto cento e più volte contro scogli acuminati, dove si infrange in mille piccole gocce fredde che schizzano nell'aria per poi precipitare nell’oceano, pronte a una nuova furiosa impennata.
              
I baci che si scambiano nella penombra sono moti di irruenza, bagnati di saliva e sale; in essi è appena trattenuta la pulsione di mordersi a vicenda, di strappare la carne, facendo scorrere sangue da quelle labbra un tempo generose di scherzi e lazzi, maschere di miele per verità troppo amare.

 

                César replicò con un sorriso lento che stirò la bocca sottile, tanto simile a quella della loro madre.

                "A costo di sembrare il noioso figuro in cui il duca nostro fratello[1] va dipingendomi in giro, sarò sincero: la politica, mio tesoro." Il sorriso si contorse in un ghigno. "Le parole di un vero Borgia, non è così?" La bocca tornò a ingentilirsi mentre osservava la sua espressione ben poco compiaciuta. "Ah, non guardarmi a quel modo. Credi sia un'arte così diversa dal gioco degli scacchi[2]?"
                Con l'indice sfiorò carezzevole la regina d'avorio ancora invitta sul campo di battaglia. I raggi di sole marzolino che penetravano dagli occhi di vetro delle finestre zampillavano sulla sua mano tesa, la loro luce che si posava sullo smeraldo al dito leggera come una farfalla.

 

                Nessun mio tesoro, nessuna cortese galanteria verso di lei, ora – “Il tuo amore è eterno solo finché dura” –, mentre le tiene il volto tra le mani, imprigiona i suoi versi con baci forzati – “Non piangevi lacrime ugualmente amare quando il giovane cameriere è inciampato nel Tevere[3]?”
               
Non crede nel Signore dei Cieli, il Valentino[4]: nella sua Chiesa, è lui l’unico dio spietato che non offre assoluzioni – "L'ultimo bastardo di Napoli è stato sufficiente per risollevarti lo spirito... ed eccoti, di nuovo spensierata come una brezza estiva. Sarà forse per questo che dall'Urbe alla Serenissima si fa così parlare di chi ti dorme accanto nel letto.”
               
Ha fermato la sua mano, bloccandole il polso, e l'ha seguita quando lei aveva indietreggiato sino al tavolo con l’intenzione di prendere le distanze –
“Neppure la tua famiglia è risparmiata da certe speculazioni: mi sminuiscono insinuando che abbia agito per mera gelosia; che in nome di essa abbia alzato la mano contro mio fratello, che, per te, l'alzerei contro mio padre se non portasse in testa la tiara e alla cintura la borsa dei denari!"
               
Con la forza, la stessa con cui ha assaltato la Romagna e ucciso i sei tori nella piazza di fronte San Pietro[5], l'ha costretta bocca contro bocca, insensibile alle sue resistenze; le morde le labbra, come a strappargliele via, cedendo al desiderio di farle altro male.

 

                "Rifletti bene,” la esortò César mentre si sistemava meglio contro i cuscini incrostati di gemme sparsi sul materassino del lettuccio da giorno. "A conti fatti, in entrambi i casi è una questione di persuasione." Fece scivolare il dito di lato, sollevando leggermente il Re dalla scacchiera come a sottolineare un punto. "Negli scacchi, i bei discorsi non contano tanto quanto negli affari di Stato, te lo riconosco; tuttavia, c'è maniera di parlare senza parlare, con le azioni. Ogni giocatore tenta di leggere nella mente dell'altro, carpire la strategia oltre gli atti: che sia per mia stoltezza se ti concedo la sicurezza di avvicinarti pericolosamente al mio Re? Oppure, che sia volontà di distruggerti?"

 

                Tutto è piani e battaglia, con lui, tutto è calcolo: farle sapere troppo tardi della sua venuta per evitare che accampasse una scusa per non ricevere lui e il suo seguito; imbandire la tavola di vedova con piatti d’oro e d’argento, far servire cibi a cui il suo ventre trascurato ha perso l’abitudine; costringerla a sedergli accanto, a banchetto, così che non perdesse una sola delle parole di guerra, di morte e di vita. Che anche lei abbia appreso come vedere oltre i suoi magnifici inganni? Oppure, che glieli abbia volutamente svelati?  Anche restar soli, congedati dalla sala Capranica, Moncada e Cardona[6] kairos, al momento giusto, come cani ubbidienti, e congedate pure le sue donne, così liete di avere ospiti, è tattica per mostrare a Nepi e al mondo che, per loro, quello del preziosissimo sangue[7] conta più di qualunque altro legame reciso: con lo stilo o col coltello, sono sempre loro, i congiunti più stretti, ad allontanarla da amori solo vagheggiati oppure veri.
               
Le armi del loro padre sono le sue decisioni incontestabili e il latino del notaio Beninbene, che, per mezzo della parola scritta e della volontà ferra del Cristo in terra, hanno separato persino ciò che il Signore stesso ha unito. I suoi due fidanzati spagnoli era stata ben felice di perderli senza averli mai davvero conoscerli: che destino avrebbe avuto con Don Cherubin de Joan de Centelles, a Valencia, non si era soffermata troppo a domandarselo, e di esser liberata dall'impegno con Gaspare da Procida le era spiaciuto solo quanto fosse costato al padre in fatica e dispiacere e, non di meno, in tremila ducati al Conte di Aversa[8]; poi c'era stato il forzato divorzio da Giovanni, il marito degli Sforza, per renderla vergine una seconda volta, ma a quel marito tiepido e senza sapore aveva detto addio senza eccessivo rimpianto.
                Dove parole e minacce non servivano, era arrivato il coltello di César, ben più affilato: la mano è però sempre quella brutale di Don de Corella[9], che prima di Alfonso ha assaggiato la carne ancora tenera di Perotto, dentro le carceri di Castel Sant'Angelo, il suo povero cameriere gettato nel fiume come un rifiuto da scaricare via, legato polsi e caviglie, mentre lei era in attesa di partorire il loro figlio.
                Allora, Lucrezia aveva perdonato l’imperdonabile in nome dall'amore, e dimenticato per il sangue che il padre le aveva trasmesso, che la rende l’animo così simile al suo nell’esplodere di dolore e di collera e nella quiete improvvisa che segue il gran frastuono di strepiti e guai.
                Di Pere aveva lamentato la morte, l’unico scelto solo dal suo cuore e da lì così brutalmente estirpato, forse meno a lungo di quanto meritasse. Checché César ne dicesse, non era bastato il bel sorriso del suo caro Alfonso per curare certe ferite del cuore: il suo bel volto, tanto simile al San Sebastiano di fronte al quale così spesso indugia nelle sue visite alla cripta di San Biagio[10], non sarebbe stato sufficiente a scacciare il ricordo di Pere se non fosse stato che lo specchio della sua gentilezza, che era tutta quanta potesse appartenere a un uomo.
                Ma ora s'era lasciata mendare, sedurre dalla dolcezza dei suoi baci, tanto distanti dai morsi che adesso César le infligge alle labbra facendole bruciare, marchiandole pelle coi denti. La stringe tanto da soffocarla, e lei allora va col pensiero al giovane santo, al suo corpo quasi completamente nudo attraversato da frecce, all’espressione quieta dei suoi occhi chiari, come in accettazione del suo fato. A lungo si era domandata se, mentre Don de Corella avanzava verso il letto da infermo di Alfonso, suo marito avesse provato quella medesima rassegnazione; si era domandata se César conoscesse la risposta che cercava: lo aveva immaginato mentre si faceva narrare ogni dettaglio dalla sporca bocca del suo più leale e brutale mastino, godendo di ogni immagine cruenta evocata dal racconto di Don Miguel.
                Così, nel colloquio privato che lui le aveva imposto, pur senza che ordine venisse pronunciato dalle sue labbra abituate a emettere sentenze letali, aveva chiesto.
                “Pensi abbia agito per gelosia?” Nel suo tono c’era stato disprezzo, come non avesse potuto offenderlo in modo peggiore che credendo che un cuore umano gli battesse nel petto, al di sotto del velluto scuro. “Davvero sei convinta che mi sia fatto guidare da un sentimento tanto capriccioso? Non ho mai alzato la mano contro qualcuno se non per necessità di sopravvivere.”                 L’aveva fissata con i suoi occhi di stella luciferina, assottigliati come quelli di un felino pronto all’attacco. “Mi guardi con disprezzo. Rivedo le stesse occhiate che il nostro Santo Padre mi indirizza, come a rimproverarmi di non essere altro da quanto inevitabilmente sono.” Aveva poggiato il calice ancora pieno a metà di vino francese sul tavolo, avvicinandosi a lei, costringendola a indietreggiare. “Io non credo di poter essere migliore di ciò che sono, io sono già il migliore... mi spiace che tu non riesca a comprendere la mia etica. Sono fiero delle decisioni che ho la forza di prendere, fiero di ciò che faccio per quelli come noi. Per la nostra sopravvivenza.”
               
Le sue spiegazioni sulla situazione disgraziata degli Aragona, ora che la seconda calata francese alla conquista di Napoli è una realtà e non più un timore nell’aria, erano discorsi tremanti di orgoglio e sdegno, vento sulle fiamme della sua collera: e lei era vampa ed era falena, perché non s’è scansata da suo fratello; non è sfuggita a César, che la intrappola e la seduce, ancora maestro di scacchi.

 

                “Messa in questa maniera, il principio alla base degli scacchi è il medesimo della seduzione che, se non sbaglio, è passatempo caro a voi giovani donne." César sorrise, canzonatorio e galante a un tempo. Un risolino, uno sbuffo di felicità, le sfuggì dalla bocca. Suo fratello parlava sempre in modo tanto cortese, come il più gentile fra i cortigiani, ma riusciva a dire comunque cose a volte piuttosto sbalorditive, che facevano stupire tutti: a lei piaceva, perché ora la divertiva, ora la strabiliava.
                “Non ho fretta,” gli rispose leziosa, memore degli insegnamenti del loro ospite straniero[11], tanto convinto della superiorità degli Ottomani nella seduzione... e nella medicina, nell'arte, nell'astronomia, nella matematica e in molto altro ancora – così si vantava. Con aria saggia, sbocconcellando frutta candita nei suoi appartamenti odorosi di mirra, il principe Cem era solito ricordare loro che la fretta era cattiva consigliera, anche nel diletto; alla maniera araba, spiegava, la partita poteva iniziare alla mattina e spesso era allietata da dibattiti e musica, spezzata dal pranzo, sì, ma solo a patto che dopo si potesse continuare la schermaglia; c'era sempre modo di concedere carezze e baci fatti di sguardi e sorrisi e, così, di dar da mangiare anche al cuore. Erano quelle le partite che valeva la pena giocare, non le instabili e violente che andavano per la maggiore negli ultimi tempi e che potevano finire all'improvviso per colpa pure di un'unica mossa sgraziata.
                Come negargli ragione?
                “Ovidio non ci ha lasciato scritto che non bisogna mai affrettare il piacere, César?” chiese  – Giulia[12] l'aveva ripetuto una volta a suo padre, durante una cena, in un sussurro da amanti ripar
ato a fatica dalle orecchie dei commensali.
                "Ah, ma fai torto alla seduzione se la credi solo amorosa. L’idea di prima vale anche al converso."

César stirò una lunga gamba fasciata di lana rossa mentre ribatteva, la suola della calza che frusciava contro il prezioso tappeto nero e oro ai loro piedi. "Non è certo privilegio unico della nostra cara Fregnese[13], sotto questo tetto. E in quanto non esclusiva degli amanti, è bene imparare presto le sue regole." Sorrise furbescamente, con una punta di sprezzo agli angoli delle labbra.
                "Quando ti siedi sulle ginocchia del nostro Santo Padre, carezzandogli il viso con tutta la dolcezza della Vergine, non lo stai seducendo, persuadendo per ottenere quello che desideri? Si tratti di una pezza di seta o di perle per adornarti i capelli, la tua intenzione è quella di guadagnare qualcosa; al quale scopo, usi il miele, non l'aceto." Posò nuovamente il Re sulla scacchiera, tendendo la mano per sfiorarle una guancia. La pelle era calda e asciutta. "Sono le scaramucce a forgiare il soldato esperto che, prima di raggiungere il grado di generale, non è che umile scudiero. La seduzione, la persuasione, una volta appresa, può essere asservita al bene o al male; un piccolo male, innocuo e senza conseguenza come la puntura di una vespa, che pure ci pare tanto aggraziata col suo corpo sinuoso, colorato dei nostri colori; un grande male, come quello di un fiore d'aspetto innocente che rende bello lo sguardo della donna ma il cui frutto, ingerito, porta alla morte."

 

                Ora Lucrezia vorrebbe essere quella serpe sotto forma di fiore che César crede sia, ingannatrice e traditrice – verso la famiglia, perché vede la sua felicità come qualcosa che li danneggia tutti quanti, e che ferisce la pace del suo animo: un elenco di infantili capricci, frutto di noia e dell'inconsistenza del cuore. Crede lo abbia tradito perché lo ha rifiutato con orrore quando lui le ha confessato il suo amore sovversivo: desideri romantici e pulsioni fisiche resi impossibili dalla comune acqua che un tempo li ha ospitati dentro il grembo della loro madre, resi lontani dal suo latte che avevano bevuto, nutriti dagli stessi seni pesanti. È una follia che appartiene alle tragedie antiche, o alle famiglie senza timore del divino, e le sciagure sono le ovvie, naturali conseguenze di queste estreme, innaturali voglie che non ha mai alimentato, perché, cieca, non le aveva mai nemmeno viste. Erano molte le cose che ignorava, allora.

 

                "Che fiore, César?” chiese, alzandosi dal lettuccio e afferrando i lembi del fodero alla napolitana, caldo per la pelliccia. Il sorriso che suo fratello le rivolse aveva il sapore della canzonatura: "Dovresti saperlo meglio di me, tu che sei donna."
                Lucrezia gli rivolse un'occhiata interrogativa – pure un poco offesa – e per tutta risposta
lui si alzò, stirando le braccia ai lati del torso come Cristo crocifisso.
                "Mi sorprende che la tua Madonna Orsini-Migliorati non ti abbia fatto partecipe di certi trucchetti di bellezza femminile."
                “E tu, che sei uomo, perché conosci questi segreti?” gli domandò, chinandosi a raccogliere il suo cagnolino che, troppo a lungo ignorato, le era corso incontro dall’altro lato della stanza. Gli grattò il collo caldo ricoperto di pelo bianco, appena sotto il piccolo collare d'argento, pensosa: se erano affari di fanciulle, che restassero per gli uomini impenetrabili come tutti quei misteri che a loro non dovevano competere, o altrimenti si sarebbe perso l'effetto desiderato, come accadeva coi filtri d'amore rivelati prima di venir bevuti – ma, forse, suo fratello era stato vittima di un tentativo fallito di malia, e perciò conosceva così bene le arti femminee.
                César abbassò le braccia, sistemandosi il cordone del gonnellino.
                "Essere esperto in più di quanto mi riguardi è uno dei miei numerosi difetti, a sentire certuni," sorrise, con una strizzatina d'occhio veloce, superandola per andare a scaldarsi accanto al caminetto e Lucrezia, lasciato libero il piccolo Bucino, lo seguì con un lieve trottare, quasi fosse lei stessa una bestiola festosa.

 

                Aveva pregato come un cane al tempio delle sue bugie, bevendo ogni sua parola come i boschi attorno a Nepi bevono la pioggia che, oltre le finestre, ha iniziato a cadere lenta, picchiettando contro la pietra della torre.

 

                “Confidati” lo esortò sollecita. “Necessito di saperlo. Potrei doverne fare uso per piacere a Messer Sforza.”
                César fece una smorfia, chinandosi per posarle un bacio gentile sulla fronte corrucciata. "Questo viso non ha bisogno di aiuti. E i tuoi occhi sono già abbastanza ammalianti senza dover ricorrere ai sortilegi della belladonna." Il suo fiato era caldo sulla pelle, sapeva di sidro e di menta. "Nessuna erba di strega potrebbe renderti più bella di quanto non sia già – e di quanto non sarai. Dire che sono invidioso del tuo futuro sposo non è un'esagerazione." Le mani si posarono leggere sulle guance, prendendole a coppa e sollevandole il volto verso il suo, come stesse per baciarla. "Per Giovanni Sforza sarai splendida come quei fiori porpora; ma non dimenticare, Lucrezia: solo la famiglia è per sempre."
                Le sfuggì un'incosciente risata allegra, perché era così sciocco pensare potesse mai voler bene a qualcuno quanto ne voleva a loro che erano sangue del suo sangue e carne della sua carne – ma poiché non desiderava offendere César, perché lo amava ed era stato tanto galante, frenò subito il riso e allungò le labbra per baciargli scorci di palmi e dita.
                “Dimmi di più.”

 

                Se potesse passerebbe il veleno dai denti alla sua bocca, lo inietterebbe con i morsi che ricambia con forza.

 

                "Cosa desideri sapere?" domandò lasciandosi baciare, la voce attraente. "Del fiore dall'aria innocua della pianta di campo? Del frutto simile a una bacca di mirto, ma infinitamente più letale?" Le parlava a quel modo, e intanto le teneva il volto. "Pochi granelli di polvere possono uccidere un uomo, spezzandolo in due; ma prima lo allettano con visioni, fanno palpitare più rapido il petto in una dolorosa stretta; rallentano i sensi, confondono la mente. Come l'amore." Sorrise lentamente, ma l'occhiata che le conficcò nell'animo era grave; poi abbassò le palpebre e strofinò naso contro naso. "Se dovessi uccidere un'amante, è l'arma che sceglierei. Dicono sia un mezzo codardo, il veleno, ma c'è della poesia in questo: fermare il respiro a chi ci ha fermato il cuore con quanto di più simile all'amore: una fine lenta, come finisce l'animo umano."

 

                Senza che l'avesse chiesto, César le aveva offerto quella morte immortale senza neppur dover usare la sua belladonna: togliendole i suoi amati, dannandole l’anima.
                Non si spengono però né la vita né il dolore mentre azzannano ansanti e, già stanca di lottare, gli batte veloce il palmo sul petto, una e due e tre e quattro volte, per chiedere tregua: quando si ferma, Lucrezia allontana le unghie; sposta la mano sulle dita di César, stringendogliele forte, e le nocche le si fanno bianche, mentre gli occhi sono diventati per il pianto rossi, e bruciano dietro le palpebre abbassate; ciglia e guance ancora umide delle lacrime di prima.
                Se fossero pagani dei bei tempi andati, il loro amore sarebbe la luce del sole, ma nella follia e nella sporcizia di questo triste scenario terreno non c'è innocenza più dolce del loro dolce peccato, quando inizia il rituale dei baci, una messa di piccole e lente carezze, più delicate e benevole.
                "Siamo nati malati...” geme.
                Oltre tutte le ferite che si sono inflitti a vicenda, quel sentimento che è una chimera di d’amore fraterno e innamorato permane, invincibile al resto. Non riesce a resistere, quando lui avvicina il volto per strofinare i loro nasi come una volta, in quel tempo in cui la loro sembrava una via lastricata di soli successi, una discesa verso la grandezza. Non si scosta mentre le punte si sfiorano e le labbra si muovano sulle labbra. “Non mi interessa,” le dice, quasi privo di fiato, “l’unico paradiso che mi è concesso è quando sono solo con te. Cosa vuoi in cambio? Ti dirò i miei peccati e lascerò che affili il tuo coltello per punirmi come credi. Sarò di nuovo umano, per te, allora, non una bestia. Mi redimerò. Permetti che ti offra la mia vita.”
                "Non implorare. Le uniche preghiere che ti si addicono sono quelle che puoi rivolgere in camera da letto...”
                Tocca la sua barba, poi le labbra.
                “Allora fai che invochi il tuo nome nel talamo.”
                La voce è bassa, vibrante, colorata da un legger ansito. Dal volto accaldato, le dita scendono sulla pelle nuda del collo arricciandola in un tappeto di brividi; scivolano sulle spalle coperte dalla leggera camicia, giocando lievi col tessuto leggero prima di continuare il percorso sulle maniche di rascia, indugiando sui fiocchi gemelli che le assicurano all’abito. La fissa, gli occhi socchiusi come quelli di un penitente che assaggia i nodi del flagello, un misto di dolore ed estasi nelle iridi lucide.
                Lo sfregare delle mani sulla stoffa produce un fruscio morbido e ipnotico, il suo respiro le accarezza le labbra. Una ciocca ramata gli è ricaduta sul viso e danza a ogni sua parola. Pare il più dolce e innocuo degli amanti, e cela bene dietro la dolcezza il pericolo. I suoi baci fanno girare la testa e accelerare i battiti, evocano irripetibili visioni: abbandonarglisi ora non è meno azzardato di prima, eppure con un passo ha già inevitabilmente attraversato quella soglia.
                César ne è ben consapevole, lo sanno entrambi, perciò la spinge
oltre, premendo di più le labbra sulle sue; quando si schiudono, dandogli modo di insinuare la lingua tra di esse, non lascia fuggire il momento, ma lo coglie con languida calma, la stessa con cui incoraggia le sue giumente più ritrose.
                Le dita arrivano sulla sua vita e stringono da sopra la stoffa – ha sempre amato la sella e la briglia, César, e Lucrezia, che conosce tutte le callosità da soldato delle sue mani, arrendevole gli permette di scivolare sulla gonna.
                Non gli perdona però ciò che ha fatto, nel cuore lo sa: la loro storia di sangue, lacrime e veleno; è insieme vittima e colpevole, affamata di amore perduto e della santità che pare esser destinata a non raggiungere mai, al pari della felicità. Entrambe sono sempre alla sua portata ma che non riesce davvero ad afferrare e farle proprie.
                Nella rocca dove si era riunita ad Alfonso – sposa ancora ferita dalla sua fuga e madre in attesa, ma piena di rinnovate speranze di un sereno futuro napoletano – ora si ricongiunge al fratello da vedova Aragona, l'Infelicissima principessa di Salerno.
                Risponde ai baci, aggrappandosi al suo robone con forza. La bocca di César sa di uva e fichi, di montone e salse allo zenzero e zafferano, del suo vino di Francia, che è meno dolce di quelli romani.
                Immagina essere sua moglie, Charlotte[14], che ha un marito vivo e sano ed è libera dalla colpa quando sono insieme nel letto; ricorda la notizia delle otto volte della loro notte di nozze che quel giorno di fine maggio era arrivata nell'Urbe, mentre lui la alza da terra – le risate gaie del padre, fiero di un figlio tanto più virile dello stesso re di Francia; il piccolo sorriso benevolo che lei aveva rivolto al pensiero di quel fratello lontano, sollevata dai suoi successi e dall'idea di essersi entrambi lasciati alle spalle uno scomodo, pericoloso sentimento.
                César disfa con un gesto impaziente la tavola, scostando piatti e posate, ma la testa di Lucrezia bada solo alle immagini che la sua vicinanza le evoca, ai ricordi di divine leggende classiche, la passione illecita di Venere e Ares, le dita di Pasifae[15] che accarezzano il collo grosso del suo toro bianco, i ratti dei satiri lungo le rive dei fiumi e nel cuore profondo dei boschi; i colori delle sale vaticane e l'oro dei suoi rilievi che si mescolano seducenti ai ricordi infantili dei levrieri di César che si accoppiano per i corridoi, delle cavalle in calore nella corte fra il palazzo e la porta, pronte per la monta degli stalloni.
                Gonna e sottogonne non sono una barriera sufficiente a intralciare le sue mani curiose, né quella sua volontà con cui ha piegato persino la Fortuna affinché i suoi sogni di gloria militare si realizzassero; ormai preso dalla voglia, coi palmi arriva alle cosce, sfregando la carne e scivolando verso l’interno; le accelera il respiro, mentre Lucrezia è troppo in preda a stupori e tremori per pensare di protestare.
                Le allarga le gambe, alla fine, rapido e deciso ma senza dolere, e l’aria fredda le fa passare un brivido di febbre dalla nuca lungo tutta la schiena.
                Fuori, la pioggia è scandita da tuoni che si rincorrono regolari e copre i loro versi asfissiati dai baci. Non fa sentire loro l'iniziale, discreto bussare alla porta, perché quasi cinque anni hanno reso le orecchie sorde ai colpi del buonsenso.
                "Signora..." pigola una voce giovane, di donna – occorre un poco prima che la coscienza riemerga e faccia staccare le loro bocche. Lucrezia cerca subito la mano di César, per allontanarla, e nel farlo apre gli occhi, fissandogli il viso mentre ansima a bocca spalancata.
                Sogni estatici e servilismo della volontà: forse le aveva dato una pozione? Suo fratello conosceva bene maghi e astrologhi. Forse nel vino c'era miscelato un certo succo che produceva allucinazioni e vertigini e calore nel cervello.

 

                "Questo viso non ha bisogno di aiuti. E i tuoi occhi sono già abbastanza ammalianti senza dover ricorrere ai sortilegi della belladonna." 

 

                Era cresciuta da quel pomeriggio di marzo, ancora innocente: ora sapeva che la belladonna poteva produrre le più strane visioni, sbarazzarsi dei legami dell'ordine, trasportare dentro la più grande delle meraviglie; e dopo, risvegliati dall'incantesimo, si aveva la testa tanto leggera da pensare di ballare tutta la notte. Ma poteva dare anche fra i sogni più penosi, persino inumani.
                "Signora", ripete la voce – adesso che riemerge dall’oblio della ragione, le pare sia quella di Caterina[16].
                César si stacca da lei, il respiro ancora pesante che si calma presto; del resto, per lui che è abituato a controllare il destino del mondo, creatore e distruttore, placare gli ansiti deve esser nulla. Quando Caterina chiede di lui – al terzo richiamo è certo che si tratti della sua Caterinella – parlando di un messaggero di Vitelli[17] e di cannoni affogati nella pioggia, suo fratello esita ad allontanarsi.
                La fissa come potesse penetrarla anche solo con lo sguardo.
                “Stanotte.”
                "...tu sei il mio veleno" geme disperata.

 

                Amen, amen, amen.

 

 

 

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Note:

[1] Juan, poi morto misteriosamente quando lei affrontava il divorzio dal primo marito, Giovanni Sforza.

[2] Secondo una tradizione cortese, ancora nel Rinascimento gli scacchi erano visti come metafora d'amore e buon passatempo per una coppia che intratteneva relazioni di tipo sentimentale o velate, comunque, da un lieve erotismo.

[3] La frase fa in realtà il verso alla cronaca – segreta, perché scritta sul suo diario personale – di Giovanni Burcardo, cerimoniere papale che annotava tutti gli eventi più importanti alla corte curiale: la vicenda è quella dell'oscuro omicidio di un giovane cameriere spagnolo – Pedro o Pere Calderon, detto Caldes o Perotto – che pare a causa della quotidiana vicinanza con Lucrezia abbia avuto con lei un figlio, il piccolo Giovanni, mentre si trovava chiusa in convento, in attesa di poter dichiarare il matrimonio con lo Sforza illegittimo mai consumato; Pere verrà ucciso e gettato nel Tevere con mani e piedi legati, per ricomparire a galla poco prima del parto di Lucrezia. La vicenda alimentò le chiacchiere su i suoi rapporti incestuosi con i maschi di famiglia e la fama nera di Cesare, che avrebbe ucciso il ragazzo per gelosia.

[4] Come era anche chiamato Cesare Borgia, grazie alla contea del Valentinois che, mutata in ducato, gli diede per l'appunto questo nome.

[5] Da buon Spagnolo, Cesare si cimentava nelle corride: uccise sei torri nello spalto di fronte San Pietro il ventiquattro giugno di quello stesso anno.

[6] I comandanti che Cesare portò con sé a Nepi, alla cena.

[7] Come è definito anche il sangue di Cristo.

[8] Padre del secondo fidanzato, per l'appunto Gaspare da Procida.

[9] Figura poco conosciuta, ma sempre vicina alla famiglia Borgia e in particolare a Cesare: è noto per esser stato suo fidato capitano, compagno di studi e boia personale.

[10] A Nepi la Chiesa di San Biagio è affrescata con una bellissima immagine morente di santo Sebastiano, biondo e trafitto da frecce: non è difficile credere che Lucrezia abbia pregato lì.

[11] Cem, principe ottomano che era ostaggio di riguardo a Roma.

[12] Giulia la Bella, compagna e lontana parente acquisita di Lucrezia grazie al matrimonio con Orsino Orsini-Migliorati, figlio di Adriana, sua istitutrice e cugina e confidente del padre.

[13] Soprannome, sprezzante, di Giulia e di suo fratello Alessandro che di cognome facevano Farnese: il gioco di parole è piuttosto volgare e allude all'organo genitale di Giulia, che ha saputo portare fortuna alla famiglia grazie alla relazione illecita con Rodrigo Borgia.

[14] Charlotte d'Albret, la sposa francese di Cesare che sposò il 10 maggio a Blois, l'anno dopo delle nozze fra Alfonso e Lucrezia. Da lei ebbe una figlia che non conobbe mai, Luisa, e la coppia si separò poco dopo il matrimonio, per non vedersi mai più: Charlotte rimase in Francia, mentre Cesare tornò in Italia, alla conquista della Romagna.

[15] Personaggio della mitologia greca, figlia di Elio e di Perseide, una ninfa oceanina. Per colpa di Poisedone, si innamora follemente di un bellissimo toro bianco e con lui genera il minotauro. L'animale dei Borgia è per l'appunto il toro, che campeggia nel loro stessa.

[16] La negretta dama personale di Lucrezia.

[17] Omaggio a Cesare - Il creatore che ha distrutto, stupendo manga di Fuyumi Sōryō dedicato per l'appunto a Cesare Borgia.

[18] Altro capitano di ventura al servizio di Cesare, che poi parteciperà a una congiura contro di lui.

   
 
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