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Autore: _unintended    13/03/2016    4 recensioni
"For you was I born, for you do I have life, for you will I die, for you am I now dying."
Aveva sempre le mani sporche d'inchiostro.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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Extract the eternal from the ephemeral.

 

Aveva sempre le mani sporche d'inchiostro.

Spesso erano soltanto piccole macchioline sulle punte delle dita, più raramente erano vere e proprie parole, o frasi, o scarabocchi poco chiari che cercava di nascondere alla vista abbassandosi le maniche della camicia.

Era buffo come a volte, senza neanche accorgersene, si passasse una mano sul viso detergendosi il sudore o strusciandosi gli occhi, e quando riabbassava il braccio ecco spuntare uno sbuffo di inchiostro sulla fronte, una macchia sulla guancia, l'ombra di una parola appena sopra le palpebre.

Quando glielo facevano notare, lui li fissava perplesso, come se non sapesse di cosa diavolo stessero parlando, poi ci rifletteva un po' su e infine rideva piano, una risata timorosa e sottile, mentre invano cercava di ripulirsi il volto con quelle stesse mani che lo avevano sporcato.

C'erano giornate in cui all'università non si presentava affatto. Spariva, e nessuno ne sapeva più nulla.

Non che a qualcuno interessasse, suppongo. Era quel tipo di uomo che a parlarci per più di due minuti ti metteva addosso una sorta di strano, inspiegabile disagio, un nervosismo crescente e immotivato che ti costringeva ad abbassare il capo, ad inventare una scusa su due piedi per allontanarti in silenzio, ad evitare i suoi occhi a tutti costi, ad evitare lui e basta, se si era troppo sensibili.

Non che fosse aggressivo, o provocatorio, o trattasse argomenti troppo pesanti o incomprensibili.

Era semplicemente lui. L'aura attorno a sé, il suo sguardo, il suo soprabito beige da cui non si separava mai, la camicia abbottonata fino al collo e le mani sempre tremanti, sempre instabili, sempre impacciate, proprio come il suo respiro quando doveva chiedere a qualcuno di passargli gli appunti dopo tre giorni di assenza di cui nessuno sapeva il vero motivo.

Eppure, era anche quel tipo di uomo che non rimaneva mai solo.

Suppongo che certe cose non si possano spiegare, ma che debbano essere viste dal vivo, osservate e capite, se si è abbastanza acuti.

Nessuno gli parlava, ma tutti gli stavano attorno. Nessuno gli si avvicinava mai abbastanza da entrare nella sua vita, o almeno mai abbastanza da ricavarne una fugace, segreta occhiata su ciò che faceva di lui tutto quello che era. Eppure, erano sempre lì. Animali curiosi, famelici, in agguato, affascinati dal diverso.

Era come se la gente si sentisse irrimediabilmente attratta dalla sua presenza. Era come se non potessero fare a meno di averlo nelle proprie giornate, di trovarlo lì seduto alla panchina sotto il ciliegio, accanto alla finestra della biblioteca, all'ultimo banco dell'ultima gradinata dell'aula magna, o in un angolo della mensa a leggere di Hemingway o Whitman mentre stuzzicava con la forchetta un piatto di insalata scondita.

Essere sempre circondato da persone a volte lo irritava. A volte si guardava attorno, e trovando tutti quegli sguardi indiscreti, invadenti, curiosi su di sé, lo vedevi stringere la mandibola, o grattarsi un braccio fino a farsi male, o alzarsi improvvisamente e spostarsi in un'altra stanza, in un altro luogo, in un altro mondo dove nessuno poteva incollargli gli occhi addosso e provare a penetrare all'interno della sua pelle.

Quando credeva che nessuno fosse nei paraggi, mormorava. Inizialmente, ad un orecchio distante e magari poco acculturato, poteva sembrare che fossero parole senza senso, poteva addirittura sembrare che fosse pazzo, con quell'aria allucinata mentre muoveva piano la bocca e si stringeva le ginocchia con le mani, come se avesse paura che le sue gambe potessero portarlo via, da qualche altra parte, senza chiedergli il permesso.

In realtà, sussurrava poesie.

Sto riproducendo sprazzi di eternità, diceva, e lo diceva in un modo così ingenuo, così candido e sincero, che non potevi fare altro che credergli, qualsiasi cosa intendesse, e rimanere a guardare mentre ti sussurrava un sonetto di Shakespeare a memoria, un haiku di Bashō che pareva quasi acquisire un senso, recitato da lui, o una scabrosa poesia di Baudelaire che sulle sue labbra suonava come il più puro dei componimenti mai scritti.

Era uno spettacolo affascinante e, molto spesso, devastante.

Per me, almeno, lo era fin troppo.

 

You walk on corpses, beauty, undismayed.

 

 

La prima volta che gli parlai, avevo lo sguardo offuscato e la bocca impastata, e probabilmente non gli parlai affatto. Nonostante tutto, riuscii comunque a capire, sotto il peso dell'alcol e della stanchezza, di aver di fronte quello stesso ragazzo che per tredici anni aveva occupato un angolo appartato della mia visuale, una nicchia nascosta nei corridoi della memoria, quello stesso ragazzo che era stato un'ombra costante da quando avevo imparato a leggere e scrivere fino a quella sera prima del mio diploma.

Era quel tipo di bellezza che andava ricercata e apprezzata, quel tipo di bellezza che soltanto un occhio raffinato e sensibile poteva comprendere appieno, era quel tipo di bellezza che un ragazzo come me, dopo una sbronza come quella, non poteva far altro che ignorare, come del resto avevo fatto per tutti quegli anni.

Mi passò sotto il naso e nemmeno me ne accorsi. Fu un solletico sulla nuca, un brivido lungo la schiena, una folata di vento e lo sfarfallare di un lampione dall'altro lato della strada.

Fu strano, breve, confuso.

Fu l'esperienza più bella della mia vita e il giorno dopo l'avevo già dimenticata.

Mi sfiorò la spalla e a malapena lo percepii, il suo tocco. Mi chiese qualcosa e a malapena lo ascoltai.
Mi chinai per vomitare, e soltanto dopo alcuni minuti in cui gli unici suoni furono il mio respiro ansante e il rimbombare attutito della musica in lontananza, mi accorsi che la sua mano era sempre stata lì, sulla mia spalla, impercettibile.

Mi chiese se avessi bisogno di essere accompagnato a casa, gli risposi che poteva anche andarsene subito ma in realtà non glielo dissi affatto, perché quando alzai la testa per rivolgergli quelle parole, il mio cervello si era già inceppato e semplicemente non aprii bocca.

Era quel tipo di bellezza che scoppiava prepotentemente, brutalmente e senza controllo, quando meno te lo aspettavi. Era quel tipo di bellezza che prendeva forma e risaltava nelle notti come quelle, sotto la luce flebile dei lampioni, al riparo da una festa di fine anno, dai rumori, dallo strusciarsi di corpi, dal calore e dal sudore e dall'esaltazione selvaggia di una calca indistinta di individui.

Mi colpì come uno schiaffo in pieno volto e mi lasciò più stordito e confuso di quanto non fossi già.

Dovevo dirgli che era bellissimo. Dovevo vomitare di nuovo.

Dovevo andare a casa perché il giorno dopo mi sarei diplomato, e per un momento mi chiesi che ore fossero e quanto si sarebbe infuriato mio padre.

Eppure, restai.

Non mi accorsi che si stava avvicinando fino a quando non sentii il suo respiro vicino, vicinissimo, a un palmo dal mio viso e aggrottai la fronte perché in quella vicinanza c'era qualcosa che mi spaventava terribilmente, una paura strisciante, opprimente, inspiegabile.

In quella vicinanza c'era anche molta tristezza, una tristezza che partiva dai suoi occhi e si lasciava trasportare dalla brezza serale, volteggiando tra i palazzi e sfiorando il marciapiede, passando tra i bidoni della spazzatura e tra le auto parcheggiate, per ritornare fino a me.

C'era tristezza nel suo sguardo ed era una tristezza che ti metteva addosso altra tristezza, e ti sembrava non finisse mai, ti sembrava proprio infinita, eterna, ti sembrava che gli sarebbe rimasta negli occhi per sempre.

Mi baciò perché ero ubriaco, lo lasciai fare perché ero ubriaco, ricambiai il bacio perché ero davvero, assurdamente ubriaco.

Sentivo il suo respiro irregolare e tremante sulla mia pelle, e per un attimo mi chiesi se non  sarebbe morto ai miei piedi, da quanto mi sembrava che stesse male. Stranamente, invece, la sua bocca era morbida e ferma sulla mia, calda e stabile e insaporita di quella stessa tristezza che avevo percepito nei suoi occhi poco prima. Era un bacio struggente, e quando finì, ciò che mi sussurrò lo fu ancora di più. Eppure, lo dimenticai, e non riuscii a recuperare più dalla mia memoria quelle poche parole mormorate che in quel momento gli erano sembrate così importanti da essere rivelate, e da essere rivelate a me.

Se ne andò, un soprabito chiaro che svaniva tra le ombre, e subito dopo fu solo un sogno.

Quando mi tornò alla mente erano passati due giorni e ricordai soltanto vagamente, confusamente, di come le sue dita avessero indugiato sulla mia nuca, delicate, di come il blu intenso del suo sguardo avesse spazzato via la confusione nel mio e di come per un istante, un breve, brevissimo istante, mi fossi sentito pazzamente innamorato di lui.

 

 

Do not allow me to forget you.

 

 

Fu un'ombra anche all'università, come lo era stato alla scuola elementare, come lo era stato al liceo e come lo era stato continuamente per tutti quegli anni, senza mai avvicinarsi più del dovuto, senza mai rivolgermi la parola, senza mai incrociare il mio sguardo.

Il nostro unico contatto era avvenuto quella sera e da allora ripensavo a lui come a una figura quasi impossibile, un individuo che era stato parte di un mio sogno febbrile dovuto all'eccesso di alcol e che era sparito subito dopo, come se non ci fosse mai stato, come se il suo posto fosse sempre stato lì, all'ultimo banco, in classe, capo chino e mani tremanti.

Nulla di più, nulla di meno. Non era mai avvenuto e io non avevo mai baciato un uomo, né avevo mai provato il desiderio di farlo, in tutta la mia vita.

Nonostante le mie forzate auto-convinzioni, mi piaceva osservarlo, proprio come piaceva al resto della gente. Alla gente piace osservare, notare i più piccoli particolari, origliare conversazioni, leggere i messaggi presenti sul cellulare del proprio amico o della propria fidanzata, alla gente piace intromettersi e ficcare il naso dove non dovrebbe.

A me piaceva osservare lui.

Era bello, silenzioso e mi rilassava. Sapevo che alzando gli occhi dal mio libro di anatomia avrei sempre trovato quella testa scura tutta presa da un romanzo o da una raccolta di poesie, perché lui non studiava mai e preferiva rintanarsi in biblioteca a leggere, eppure superava straordinariamente tutti gli esami sempre a pieni voti. Lo invidiavo e lo ammiravo, e cercavo disperatamente un qualsiasi pretesto per parlargli.

Una volta mi complimentai con lui per un trenta e lode ad un esame.

Un'altra volta osai chiedergli perché fosse stato assente per ben una settimana, un'altra volta ancora lo salutai mentre mi passava accanto nel cortile dell'università.

Dava risposte vaghe, a me come a tutti gli altri, abbozzava un sorriso e scuoteva la mano in un gesto distratto, mormorava una scusa a cui nemmeno il più sciocco avrebbe creduto, e ritornava a ciò che stava facendo.

Mi sentivo ridicolo, imbarazzante e patetico nel mio ricercare costantemente una sua parola, un suo sorriso, un suo cenno del capo, e mi sentivo ancora più frustrato quando lui me li offriva, ma senza mai rivolgermi la sua completa attenzione, no, quella non la concedeva mai a nessuno.

Un pezzo di lui era sempre da un'altra parte. Poteva rispondere ad una tua domanda, poteva addirittura guardarti negli occhi, ma non ti avrebbe mai dedicato più attenzione di quanta se ne dedichi a una foglia che cade, al fischio di un bollitore sul fuoco, al mormorio di sottofondo attorno a sé.

Cose distanti, lontane, rumori e avvenimenti che fanno da sfondo alla vita di un qualsiasi individuo e che non gli ruberebbero più di un momento di consapevolezza, ed era così che lui teneva in considerazione la gente. Non credo lo facesse di proposito, o con cattiveria. Era la sua natura, e anche se poteva offendere molti, lui non aveva alcuna intenzione di cambiarla.

Cominciai davvero a convincermi che ciò che era successo quella sera fosse stato soltanto un mero frutto della mia immaginazione, e poiché non riuscivo a instaurare un qualsiasi tipo di contatto con lui, verbale o visivo che fosse, decisi che me ne sarei fatto una ragione, e che avrei dovuto rivolgere la mia concentrazione a persone e impegni più importanti e imminenti, come la ricerca di una fidanzata o la mia laurea in medicina.

Forse fu proprio questo mio repentino cambio di atteggiamento, a scatenare ciò che successe dopo.

Il libro che lasciò sul tavolo della biblioteca, allo stesso posto dove sedevo io da due anni e mezzo, non lo avevo mai visto prima in vita mia. Avevo sentito parlare dell'autore, un certo Márquez, ma non avevo mai letto molto e di lui non avevo mai letto proprio nulla.

Avrei potuto rimetterlo al proprio posto, sugli scaffali, avrei potuto sedermi ad un altro tavolo o semplicemente avrei potuto ignorarlo e basta, ma ricordavo quella copertina e ricordavo quel titolo.

Lo stava leggendo lui, fino a quella mattina, ed ecco che quello stesso libro era in biblioteca, al mio tavolo, e di lui nessuna traccia. Sapevo che, nonostante non fosse lì, in quel momento avevo la sua totale e completa attenzione.

Sorrisi, e portai via il libro con me.

Non lo rividi mai più. Semplicemente, non si presentò più alle lezioni, né agli esami, né in biblioteca. Soltanto con la sua assenza mi resi conto di quanto fosse diventata indispensabile la sua presenza per tutto quel tempo, e soltanto con la sua assenza capii che ora recarmi in facoltà ogni giorno non mi portava più alcuna soddisfazione.

Mi chiesi se quel libro non fosse stato una sorta di regalo di addio, un ultimo cenno di riconoscenza per un mondo con cui non aveva mai legato abbastanza, e che avesse deciso di donarlo a me perché semplicemente ero l'ultima persona a cui aveva detto qualcosa di vero, seppur breve e sussurrato, seppur mascherato dal silenzio della notte, seppur quasi dimenticato da entrambi.

 

 

People should fall in love with their eyes closed.

 

 

Lei era bella. Non era la sua bellezza, ma era bella in un modo aggraziato, elegante, eppure quasi comune nei suoi lineamenti fini e la pelle scura. Non mi ero innamorato delle sue parole o dei suoi occhi, né del modo in cui mi trattava o dei suoi gusti in generale. Mi ero semplicemente innamorato del modo in cui curvava le labbra in un sorriso, della linea ondulata dei suoi capelli sul cuscino e del profumo sul suo collo quando posava la testa sulla mia spalla. Non avevo alcun interesse nella sua persona, per quanto mi dispiacesse ammetterlo. Mi piacevano i suoi piccoli particolari, gesti, sguardi, momenti.

Le dissi che la amavo prima ancora di sapere cosa significasse davvero, prima ancora di laurearmi e prima ancora di aver capito cosa quel libro e il suo proprietario rappresentassero nella mia vita.

Le dissi che la amavo e fu una scelta un po' affrettata, ingenua, azzardata. Pensai che sarei stato bene. Pensai che sarei stato felice.

Pensai che sposandola avrei dimenticato il blu dei suoi occhi e l'odore delle pagine del suo libro, che ormai giaceva in un cassetto, abbandonato, impolverato e consumato dalle tante letture e riletture.

La sposai davvero e per un po' le mie previsioni si avverarono, e trovai un posto come chirurgo in una clinica privata. Tornavo a casa e trovavo un ambiente caldo, un piatto caldo e delle braccia calde ad aspettarmi, e tutti mi chiedevano scherzando cosa avrei voluto di più dalla vita. Sebbene sapessi benissimo la risposta, quella era un tipo di domanda a cui nessuno si aspetta che si replichi, perciò me ne rimanevo in silenzio, sorridendo e annuendo mentre quel tale amico o quel tal parente si complimentava con mia moglie per il suo splendido vestito, e accettava una birra mentre intavolava allegre conversazioni sul meteo e sulle prossime elezioni.

A volte, mi stancavo. A volte era difficile persino darle il buongiorno, andare a lavoro, tornare a casa o cenare e mettermi a letto. A volte mi spacciavo per malato, prendevo l'auto e me ne andavo via, lontano, in qualche hotel sperduto ai margini della città o a pescare sul lago. Mi assentavo per una giornata intera o soltanto per poche ore, e mia moglie aveva imparato ormai a non fare più domande. Sapeva che non la tradivo perché non ero mai riuscito a dire bugie, e perché mi conosceva abbastanza da sapere che le avrei detto sempre tutto, non importava quanto fosse grave.

In effetti era vero, perché della mia vita lei sapeva ogni cosa.

Ogni cosa, eccetto l'esistenza di quel libro. Ogni cosa, eccetto l'esistenza di quel volto nei miei pensieri quando il mio sguardo iniziava a vagare nel vuoto.

Mi piaceva stare solo. Lui mi aveva insegnato la solitudine, ed io avevo imparato ad amarla più di ogni altra cosa al mondo. C'è qualcosa di estremamente confortante nell'immobilità di un attimo muto, silenzioso, completamente privo di avvenimenti o contenuti se non i tuoi pensieri alla deriva. Li sentivo quasi scorrere via, lentamente, inesorabilmente, fino a quando non mi svuotavano di ogni emozione e sensazione e rimanevo lì, immobile, con il gracchiare di un corvo in lontananza e la brezza sottile del vento che increspava la superficie piatta del lago, con il cielo greve e carico di pioggia e l'erba fresca e umida sotto le mie mani.

Fu al lago che lo incontrai.

Non so come mi trovò. Non me lo disse mai, e io non lo chiesi mai. Certi ricordi bisogna lasciarli lì dove sono, racchiusi in una bolla di magia e tristezza e avvolti da un sottile involucro di nostalgia.

Avevo gli occhi chiusi quando lo sentii prendere un respiro tremante e capii, con un'improvviso lampo di lucida certezza, che non lo avrei lasciato andar via di nuovo, non lo avrei lasciato a dissolversi e sfaldarsi nell'aria senza fare nulla per trattenerlo accanto a me.

Parlò, e questa volta compresi ogni parola.

Quando indugio a contemplare e a guardare la strada in cui mi hai condotto, io finirò per abbandonarmi senza arte a te che saprai prendermi e finirmi, disse, e lo ricordo, lo ricordo perché la sua voce si dipanò come una ragnatela sottile fino alle mie spalle, scivolando delicatamente sulla mia pelle e risvegliando i miei sensi a lungo assopiti. Aveva paura perché lo sentivo fremere e perché sentivo le sue parole srotolarsi una dietro l'altra un po' esitanti, un po' incerte, un po' titubanti, ma io avevo aspettato quel momento per anni e adesso non me lo sarei lasciato sfuggire per nulla al mondo.

E infine alle vostre mani sono venuto, dove so che mi toccherà morire, affinché solo in me fosse provato quanto taglia una spada in un'arresa, gli risposi, e mi sentii in pace.

Non aprii gli occhi, non mi voltai, non dissi nient'altro. Quella frase, quella citazione che, in cinque anni, ero giunto ad imparare a memoria, così come tutto il resto del libro di cui faceva parte, fu sufficiente.

Quando mi sfiorò, fu come la prima volta. Fu un tocco lieve, impercettibile. Lasciai scorrere una mano sulla sua e la premetti di più sul mio cuore, perché volevo sentirlo, e perché volevo che lui sentisse me, ed entrambi rimanemmo in silenzio ad ascoltare i miei battiti rincorrersi e inciampare gli uni sugli altri come impazziti.

Non ci guardammo negli occhi e non dicemmo una sola parola. Rimanemmo così, fermi, le teste chine a fissare le nostre dita intrecciate, per un tempo che mi parve infinito e che mi parve non durare affatto, perché quando lui staccò la mano dalla mia e dal mio petto fu come se non fosse mai avvenuto.

Quando incrociai i suoi occhi, vi ritrovai la stessa, identica tristezza di quella sera di tanto tempo prima, solo che stavolta era più matura, più prudente, più riservata. Non voleva lasciarmi entrare e non voleva che sapessi della sua esistenza, perché un attimo dopo era sparita dietro le sue iridi e di essa non c'era più traccia.

Cercai invano di afferrarla ma lui aveva già abbassato lo sguardo e seppi, in quel preciso istante, che avevo già perso metà della sua attenzione.

Era fatto così, non importava quanto significassi per lui, perché poco tempo dopo avrebbe già rivolto il suo sguardo, le sue parole o i suoi pensieri a qualcos'altro.

Disse che era bello, lì, perché sembrava di essere in una grossa nuvola grigia e ovattata. Il suo tono di voce era calmo, piatto, non c'era traccia del timore di poco prima. Il suo volto era sereno.

Mi dissi che avrei seguito quella voce fino in capo al mondo, se solo me lo avesse chiesto. Non me lo chiese mai, ma io lo seguii comunque.

 

They said that love was an emotion contra natura that condemned two strangers to a base and unhealthy dependence, and the more intense it was, the more ephemeral.

 

 

Non fu difficile lasciarla. Non fu difficile mollare tutto così, all'improvviso, senza neanche prendermi il tempo di riflettere. Ho sentito di persone che ci hanno impiegato settimane, mesi, addirittura anni per prendere la decisione di andarsene.

Io ci impiegai il tempo di un istante, di un battuto di ciglia, di un mio respiro mescolato al suo nell'aria fredda di novembre.

Un solo, brevissimo istante, e seppi cosa andava fatto. Nel momento in cui il suo sguardo tornò a posarsi su di me e vi lessi un improvviso timore ad ammettere qualcosa che entrambi già sapevamo da tempo, seppi che non lo avrei più lasciato andare via.

Non ci fu bisogno di parole, tra noi non ci fu mai bisogno di parole, se non quelle con le quali riproducevamo sprazzi di eternità, proprio come sosteneva lui.

Tornai a casa e appena lei mi vede sulla soglia capì. Capì tutto, perché potevo anche non amarla come avrei dovuto, ma ammiravo la sua intelligenza, ammiravo la sua acutezza e fu davvero acuta nel comprendere almeno in parte cosa mi fosse successo.

I suoi occhi erano tristi ma rassegnati mentre cenavamo in silenzio. Soltanto successivamente mi accorsi di quanto mi fossi comportato da codardo, senza nemmeno trovare il coraggio di dirglielo, senza nemmeno trovare il coraggio di andarmene in quel preciso momento, sotto il suo sguardo accusatore.

No, aspettai. Aspettai le ombre della notte e il silenzio del suo sonno per raccogliere pochi vestiti e caricarmi un borsone sulle spalle, per guardarmi intorno un'ultima volta e dire addio a quella casa che aveva scelto lei, a quella vita che aveva scelto lei, e guardandomi allo specchio sì, anche a quell'uomo che aveva scelto lei, che aveva plasmato e modellato e adattato a delle giornate che non avrei mai voluto vivere, a contatto con delle persone che non avrei mai voluto conoscere. Fortunatamente, aveva fallito.

Il mio perdono fu un bacio leggero sulla sua fronte, e la speranza che mi avrebbe dimenticato presto e si sarebbe cercata qualcun altro che non avrebbe avuto bisogno di plasmare, qualcun altro con le misure e la forma adatte a lei.

E me ne andai.

Tornai al lago che già pioveva. Era una pioggia fitta che mescolata all'oscurità della notte mi faceva vedere poco, e più volte lungo la strada rischiai di sbandare o schiantarmi contro un albero.

Scesi dall'auto e corsi verso la riva. Lui era un'ombra che rimaneva immobile contro le sferzate del vento e il peso della pioggia incessante, con il soprabito beige che gli sventolava dietro e i capelli bagnati.

Lo raggiunsi con il fiatone, lo costrinsi a voltarsi, gli dissi che ora potevamo andarcene, che era tutto sistemato, che avevamo tutto ciò che ci serviva per fuggire lontano, ovunque lui volesse.

Sorrise e fu il sorriso più sincero che avessi mai visto sul suo volto. Nessuna scusa, nessun gesto vago.
Fu sincero anche quando disse che non mi voleva con sé, che il mio posto era lì, in quella nuvola grigia e ovattata, mentre lui non aveva un posto e non poteva trascinarmi via senza una meta precisa.

Non mi importava di una meta, non mi era mai importato. Glielo dissi ma lui continuava a scuotere la testa, a sorridere amaramente, a lanciare occhiate malinconiche e nostalgiche al lago come se gli mancassero quelle acque, come se gli mancasse annegare e finire giù, giù, in fondo, lasciarsi andare e dimenticare ogni cosa.

Mi avvicinai di più al suo volto e vidi le goccioline di pioggia che gli scendevano lungo la fronte, gli imperlavano le ciglia, e poi gli scivolavano lungo la guancia fino a svanire sotto l'incavo della gola, e pensai che in quel momento avrei voluto svanire anche io nelle curve del suo corpo, pur di smettere di provare dolore, amarezza, frustrazione. Pensai che forse era possibile, svanire dentro di lui.

Glielo dissi.

Mi rispose che sì, era possibile, ma che poi non avrei più potuto uscirne, non avrei più potuto ricompormi, tornare ad essere me e soltanto me, tornare nel mio corpo e staccarmi da lui.

Scossi la testa. Nemmeno questo era importante.

Il nostro ultimo sguardo prima che lo baciassi fu l'arresa di cui tanto parlava Marquéz, la dolciastra consapevolezza di come sarebbe finita, prima o poi, la scomoda sensazione di star facendo qualcosa di estremamente sbagliato e la definitiva decisione di volerlo fare lo stesso, perché lo desideravamo, perché non c'era altro che potessimo fare, perché la sola idea di un altro possibile distacco rendeva il tutto insopportabilmente più urgente e struggente.

Lo spogliai lentamente e lui fece lo stesso con me, e lasciai che entrambi sentissimo il freddo scorrere sulla nostra pelle, raggelarci le ossa, incrostarsi tra i nostri capelli fradici e incagliarsi nei nostri sospiri rochi, caldi, sussurrati. Lo baciai come si bacia qualcosa che perderai, come si baciano quegli attimi della tua vita che sai che non ritorneranno mai più, come si bacia la cosa più preziosa che possiedi e come si bacia la cosa che sai che non possederai mai, e che perciò ami ancora di più.

Facemmo l'amore e fu breve, intenso, silenzioso. Durò un istante e non durò affatto, durò un gemito e un respiro bollente sul mio collo, dei brevi, brevissimi movimenti e la contrazione dei nostri cuori, quasi sconosciuti l'uno all'altro, che smettevano di battere nello stesso momento.

Chiusi gli occhi e svanii davvero dentro di lui.

 

We'll laugh 'til our noses bleed, the windows shatter, and our hearts fall out onto the floor. You are mine, my darling, and the world... yes, the world shall be ours.

 

 

 

Non ricordo esattamente dove andammo. Non era importante, per noi non era importante quasi nulla.

Ci spostammo di paese in paese, senza fermarci in uno stesso posto per più di qualche mese, senza stabilirci definitivamente, a volte senza neanche disfare i bagagli.

Una camera d'hotel, vestiti sparsi sul letto, sul pavimento, sul davanzale.

Pasti fugaci, pasti che non consumavamo affatto, libri sotto il materasso, libri sul comodino, libri nei cassetti, libri ovunque.

Fogli scarabocchiati, fogli lasciati in bianco, fogli pieni di parole, frasi, inchiostro, fogli accartocciati e gettati nella spazzatura.

Fare l'amore sul letto, per terra, contro l'armadio, in bagno, nella scalinata a notte fonda.

Le sue mani intrecciate alle mie. Le sue labbra sulle mie. Il suo corpo contro il mio, i suoi occhi nei miei.

La certezza che sarebbe durato ancora a lungo, la speranza che sarebbe durato per sempre.

Fu così, per molti mesi. Ci fermavamo per racimolare abbastanza soldi per andarcene di nuovo, io accettando qualche lavoretto di tanto in tanto, lui vendendo i suoi racconti e le sue poesie.

Vendevamo le nostre capacità a gente che non avrebbe mai saputo apprezzarle, ma non importava, semplicemente perché ci bastavamo noi.

Imparai a conoscerlo pian piano. Fu un processo lento e frustrante, perché c'era sempre una seppur piccolissima parte di lui che si sottraeva al mio sguardo, al mio tocco, alle mie parole.

Mi disse che aveva lasciato l'università e tagliato i ponti con la sua famiglia, ma non mi spiegò mai il perché. Mi disse che gli mancava la scuola e gli mancava avere qualcosa da studiare ogni giorno, per occupare la mente, mentre adesso era costretto a rimanere da solo con i suoi stessi pensieri, ma non mi spiegò mai quali fossero.

Scoprivo strati di lui che non avrei mai immaginato esistessero, scoprivo particolari e pezzi fondamentali della sua vita e del suo carattere che mi elargiva di tanto in tanto quando era troppo distratto per trattenerli, piccoli cocci che lui riteneva di poco conto, e che io invece riponevo gelosamente al sicuro.

Non ci fu bisogno di innamorarmi, perché lo ero già da tempo. Cercavo però spesso di capire cosa lui provasse per me, e una volta glielo chiesi.

Mi rispose con un bacio, e la promessa che un giorno avrebbe saputo dirmelo. Giunsi alla conclusione che un uomo come lui potesse amare soltanto quegli sprazzi di eternità di cui tappezzava le sue giornate. Giunsi alla conclusione che non avrei mai ricevuto una risposta alla mia domanda, e che non avrei mai più dovuto chiederlo.

A volte l'unico modo per conservare intatto quel pizzico di dignità che ci rimane, é non fare domande. Restare in silenzio, fingere di non sapere, indossare i paraocchi e tirare avanti per la propria strada, facendo finta di ignorare tutto il resto.

Così feci, e funzionò davvero. Per alcuni mesi, funzionò davvero.

Passammo il Natale in Norvegia, l'estate alle Hawaii, il resto dell'anno tra una città europea e l'altra. Finimmo in Italia per un paio di mesi, in Spagna per due settimane, a Londra per una presentazione del suo primo libro.

Non me ne aveva parlato. Spuntò fuori una mattina, quando mi diede il buongiorno annunciando che una casa editrice a me del tutto sconosciuta aveva accettato la pubblicazione del suo romanzo. Mi chiesi quale fosse, dei tanti che aveva iniziato, il fortunato ad aver raggiunto un finale. Mi chiesi di cosa parlasse, mi chiesi se al suo interno ci fosse una sua dedica per me, o se lo avrebbe reso famoso abbastanza da permettergli di pensare ad una sistemazione stabile. Mi chiesi tante cose e tra queste mi chiesi anche cosa esattamente mi trattenesse dal raccogliere la mia roba e andarmene, semplicemente per il fatto che mi aveva taciuto tutto ciò, ma non espressi ad alta voce nessuna delle mie domande.

Lo trascinai a letto, lo tirai sopra di me, gli baciai la punta del naso e gli sussurrai un ti amo senza speranze, perché a stare con lui avevo imparato a sopprimere la speranza e a vivere alla giornata, senza pensare a un possibile futuro, senza pensare nemmeno al domani.

A volte, mi cercava. A volte sembrava davvero che ci tenesse, ad avermi lì accanto a lui. A volte pareva quasi che tutta la sua attenzione fosse finalmente concentrata su di me, soltanto su di me.

Erano momenti strani, momenti da conservare, momenti da rivedere e ricordare quando tutte le mie certezze crollavano e la tentazione di andarmene tornava vivida e prepotente dentro di me.

Erano momenti in cui la sua mano scivolava silenziosamente sul materasso, cercando la mia, e vi si aggrappava come se fosse il solo contatto umano che gli importasse davvero; erano momenti in cui mi diceva che avrebbe voluto dipingere i miei occhi, se solo avesse saputo dipingere, momenti in cui si divertiva a cercare nella natura attorno a sé un verde che corrispondesse esattamente a quello delle mie iridi; erano momenti in cui si accorgeva del mio sguardo su di sé e sollevava di colpo la testa, aprendosi in un sorriso così autentico e genuino e al tempo stesso così devastante da sembrare una stilettata di dolore nello stomaco.

Momenti in cui lo sentivo davvero lì, accanto a me, non come una figura eterea e un po' sbiadita eppure tutta presa dalla sua colorata eternità, ma come un uomo bellissimo e meraviglioso che amavo più di me stesso, un uomo per il quale avevo abbandonato tutto quello che ero e tutto quello che avrei potuto essere, un uomo che credevo avrebbe fatto lo stesso per me in qualsiasi momento.
Momenti rari, ma erano i soli di cui mi nutrivo.

Il suo romanzo vendette pochissime copie. Non so esattamente perché, ma in fondo ho sempre sentito dire che i grandi geni sono stati ignorati o disprezzati dalla gente del loro tempo. Lui non era un genio, ma non era neanche una persona comune, e il suo romanzo meritava così tanto che avrei potuto andare in giro a sbatterlo in faccia a tutta la popolazione mondiale, se solo lui me lo avesse chiesto.

Lo lessi in una sola sera, davanti al camino di un piccolo albergo in montagna, sdraiato sulle sue gambe mentre mi accarezzava i capelli. Rimase in silenzio fino a quando sfogliai l'ultima pagina, e lessi l'ultima parola.

Mi chiese come fosse. Percepivo l'ansia e il timore nella sua voce, e sorrisi per rassicurarlo. Non so cosa gli dissi, ma non fu abbastanza.

Non lo avevo mai visto urlare. Non avevo mai creduto che una persona così profondamente calma e pacata come lui, potesse essere capace di infuriarsi così tanto, e urlare quelle cose in quel modo.
Mi disse tante cose ma non ne ricordo nemmeno una, perché del nostro rapporto ho dimenticato tutte le parole terribili che ci siamo detti. Ricordo che mi spinse via quando cercai di abbracciarlo e disse tra le lacrime che ci avrebbe ridotto a vivere di stenti sotto i ponti, e che continuando così sarebbe successo molto presto. Confessò di avermi rubato dei soldi per comprare altri libri, altri quaderni, altro inchiostro, perché lui aveva sempre odiato i pc e preferiva scrivere a mano.

Disse che avrei iniziato a considerarlo pazzo proprio come sostenevano i suoi genitori, e che alla fine lo avrei abbandonato senza tante cerimonie in un manicomio o in un ospedale psichiatrico. Disse che mi sarei stancato di lui, se non lo avevo già fatto, proprio come tutti gli altri.

Disse che non voleva più vedermi.

Disse che sarebbe stato bello se lo avessi stretto tra le braccia, quella notte.

Gli asciugai una lacrima che era scivolata lungo la sua guancia e mi sdraiai accanto a lui sul pavimento, abbracciandolo e posando la testa sulla sua schiena tremante.

 

Now that it's snowing in your brain

Even ten will not placate you

This ain't no killer for the pain

This avalanche will suffocate you.

 

La prima volta che se ne andò, sparì soltanto per tre giorni. Fu comunque un tempo lunghissimo e un'agonia insopportabile, soprattutto perché smisi di cercarlo al secondo giorno e decisi che lo avrei aspettato pazientemente, sperando che tornasse da me.

Tornò davvero, durante la notte. Si stese al mio fianco e mi lasciò un bacio sulla guancia, sussurrandomi che gli ero mancato. Lo strinsi a me e decisi di non fare domande, ancora una volta.

Se ne andò di nuovo due mesi dopo, e sparì per due settimane.

Due settimane in cui cercai invano di riempire la mia vita con qualcos'altro che non fosse il costante pensiero di lui chissà dove, lontano da me, due settimane in cui ebbi la tentazione di seguire il suo esempio e andarmene, così che al suo ritorno non avrebbe trovato nessuno ad aspettarlo. Mi resi conto che non avrei potuto convivere con un gesto del genere, e lasciai perdere.

La terza volta durò un mese.

La quarta volta tornò dopo tre mesi e mezzo, e quando vidi la porta della mia camera d'hotel aprirsi lentamente e un paio di occhi azzurri fare capolino sulla soglia, ero così ubriaco che per poco non lo riconobbi.

Lanciai una bottiglia di birra contro lo stipite della porta, mancando il suo volto per poco, e urlai che non ce lo volevo lì, che poteva andarsene per sempre e smetterla di tornare per pura pietà, che non avevo bisogno di lui e che mi stava rovinando la vita, anzi, me l'aveva già rovinata e la cosa peggiore era che non lo rimpiangevo per niente. La cosa peggiore era che gliel'avrei lasciata rovinare altre mille volte, pur di stare con lui.

Soltanto dopo aver smesso di urlare, mi accorsi della ferita incrostata di sangue sulla sua fronte e della camicia lacera e bagnata, il trenchcoat sporco di fango e i capelli grondanti di pioggia.

Seppi in seguito che lo avevano derubato da cima a fondo e lo avevano lasciato per terra a contorcersi in una pozzanghera, non prima di averlo riempito di calci e di avergli sbattuto la testa contro un lampione.

Si avviò barcollando verso il bagno, crollando in ginocchio a metà strada. Rimasi a fissarlo così, immobile, una birra ancora tra le mani e la mente troppo confusa per parlare o fare qualcosa. Mi sentii completamente svuotato e pensai che avrei dovuto davvero smetterla di starmene lì impalato, perché dovevo aiutarlo a rialzarsi, medicargli la ferita, spogliarlo dei vestiti sporchi, ma l'unica cosa che feci fu scivolare lungo la parete e rannicchiarmi nell'angolo tra il divano e la tv, dondolando in silenzio.

Riuscì a trascinarsi faticosamente fino al lavandino e si chiuse la porta alle spalle. Rimase lì dentro per tutta la notte, ed io rimasi rannicchiato per tutta la notte, ad ascoltare i suoi gemiti e a trattenere i miei, una scena troppo pietosa per essere vissuta e ancor più raccontata.

Il mattino dopo lo trovai addormentato in posizione fetale sulle piastrelle del bagno, con la ferita sulla fronte che aveva ripreso a sanguinargli e i vestiti bagnati ancora addosso. Vederlo in quello stato fu troppo, così lo spogliai lentamente, stringendolo tra le braccia, e lo condussi sotto la doccia con me.

Non mi lasciò nemmeno per un istante. Rimanemmo sotto il getto d'acqua calda per quelle che mi parvero ore, l'uno aggrappato all'altro, così forte che ci scavammo a vicenda dei solchi nella schiena con le unghie.

Credo che da quell'episodio le cose non fecero che peggiorare, nel suo cervello. Sentivo il cambiamento crescere e ingigantirsi sotto i miei occhi, ed ero troppo spaventato per fare qualcosa e troppo rassegnato per poter sperare che sarebbe andata meglio.

Non so quando esattamente mi accorsi che qualcosa sul serio non andava. Fu un processo lento ed estenuante, e quando finalmente me ne resi conto, suppongo che ormai fosse troppo tardi. Era sempre stato troppo tardi.

La sua attenzione diminuiva sempre di più, e molto spesso lo sorprendevo a fissare il vuoto con gli occhi vitrei e la bocca semiaperta. A volte la notte non dormiva affatto, e se lo faceva, lo sentivo voltarsi e rivoltarsi in preda all'insonnia e, spesso, ad incubi.

La cosa più preoccupante era vederlo tremare. Non ci avevo mai fatto caso, non gli avevo mai dato più importanza del dovuto, avevo sempre pensato che fosse la sua insicurezza la causa di quei tremori, ma quando iniziarono a peggiorare, mi resi conto che la situazione non era così semplice.
Cercava di nasconderlo persino a sé stesso. Si guardava allo specchio e si stringeva le mani in grembo per non vederle tremare, cercava di occupare il suo tempo con la scrittura o la lettura o trascinandomi in giro a fare qualsiasi cosa, qualsiasi cosa che lo distraesse abbastanza da non pensare, da non lasciarsi cogliere da quegli attimi di vuoto che gli si gonfiavano attorno e lo inglobavano completamente.

Spesso mi parlava di morte. A volte semplicemente le parole cominciavano a sgorgare fuori, incontrollabili, ed io rimanevo ad ascoltarlo, terrorizzato. Parlava per ore ed era così bello perché ne stava parlando con me, ma era così spaventoso che avrei voluto soltanto che tacesse, che la smettesse di chiedersi come dovesse essere morire, e se qualcuno sarebbe andato al suo funerale, e come avrebbe voluto andare al cimitero, dovresti portarmi al cimitero qualche volta, perché non ci andiamo oggi?

D'un tratto era terribilmente affascinato dalle cose morte, e scrisse molti racconti, con la penna che scivolava tremando sul foglio e la sua concentrazione altalenante, ma li scrisse davvero. Gli fruttarono ben poco perché la gente ne ha abbastanza di parlare di morte, la gente la affronta ogni giorno la morte, la gente vuole leggere di cose belle e storie d'amore e non dei deliri sconnessi di un povero pazzo.

Un giorno gli chiesi di portarmi un bicchiere d'acqua e lo lasciò cadere sul pavimento senza neanche accorgersene. Rimanemmo attoniti a fissare i cocci di vetro sparsi ai nostri piedi e l'acqua che aveva impregnato il tappeto, e quando alzai la testa e incrociai i suoi occhi, li trovai così vuoti che per un attimo barcollai all'indietro, terrorizzato.

Lui mi fissò battendo le palpebre e disse che avrebbe ripulito tutto, ma non si mosse.

Mi avvicinai piano, prudentemente, temendo che sarebbe fuggito via, e giunsi a sfiorargli la guancia con una mano. Chiuse gli occhi sotto il mio tocco e lo baciai, il bacio più triste di questo mondo, il bacio più devastante che gli avessi mai dato, e non so bene come finimmo a fare l'amore ma decisi che era la cosa più giusta da fare, prima di accettare il fatto che la persona più importante della mia vita stesse morendo.

Tremava, sotto il mio tocco, il respiro ansante mentre lasciava scorrere le mani sul mio petto e mi baciava ancora, lentamente e con trasporto, e sapevo che in quel bacio ci stava mettendo tutto sé stesso, o almeno ciò che rimaneva di lui. Gli tenni la mano mentre ci muovevamo, gliela tenni stretta così che né io né lui la sentissimo fremere, gliela tenni ferma contro il mio cuore proprio come quella volta, sul lago, quando avevo capito che tutta la mia vita sarebbe iniziata e finita con lui, quando avevo capito di aver regalato il mio cuore a delle mani che non avrebbero mai saputo custodirlo, e che lo avrebbero schiacciato delicatamente fino ad annientarlo.

Non mi era mai importato e non mi importò nemmeno allora, perché chiusi gli occhi e svanii ancora una volta dentro di lui.

Quella stessa notte se ne andò, e seppi con certezza che non sarebbe più tornato.

 

You never said forever, could ever hurt like this?

Spin my way out of hell, there's nothing left this soul to sell.

 

 

Fu difficile rassegnarmi al fatto che non l'avrei più rivisto. Mi costò un anno fatto di attese e dolore, rabbia e odio, un anno in cui lo aspettai, lo aspettai ogni giorno, andando contro ogni mio pensiero razionale che mi dicesse di smetterla.

Pensai che passare la vita ad aspettarlo sarebbe stato sempre meglio che convincermi del fatto che non sarebbe più tornato. Mi sbagliavo, sapevo perfettamente di star sbagliando, ma non importava. La sua assenza mi graffiava la pelle ogni giorno, mi si aggrappava al collo e stringeva per soffocarmi, ricopriva ogni cosa di strati di dolore, ira, tristezza, ma sopportavo in silenzio perché era meglio sentire la sua assenza, che dimenticare come fosse la sua presenza.

Credetti che fosse morto, che si fosse lasciato morire nell'angolo di una strada, proprio come un barbone qualunque, proprio come aveva sempre predetto. Entrambi avevamo studiato medicina, entrambi sapevamo cosa significassero i suoi sintomi, ma non volevo darmi risposte certe e il dubbio mi consumava ogni giorno, perciò dopo un anno mi convinsi finalmente della sua morte e cercai di liberarmi di ogni sentimento che mi tenesse ancora incatenato al suo pensiero.

Raccogliendo quel poco di coraggio e dignità che mi erano rimasti, decisi di tornare a casa, e scoprii di avere un figlio.

Lei fu gentile con me, nonostante il rancore nei suoi occhi fosse così palese da non riuscire a incontrare il suo sguardo. Come avevo sperato, si era risposata, ma suo marito adesso non c'era e se mi andava avrei potuto salire di sopra e salutare mio figlio. Nostro figlio.

Era un bambino meraviglioso, ma fu così timido che non riuscii nemmeno ad avvicinarmi abbastanza per cercare somiglianze col mio volto o con quello di sua madre. Gli sorrisi e lui si nascose dietro un camioncino giocattolo, ridacchiando timidamente.

Lei mi confessò di non avergli mai detto di avere un altro padre, e che quel padre se n'era andato ancor prima che nascesse, e concordai che era meglio così. Le chiesi se avessi potuto venire a fargli visita, qualche volta.

Mi rispose che dovevo uscire immediatamente da quella casa se non volevo incontrare suo marito sulla porta, e così feci.

Cosa rimane, poi? Cosa rimane dopo aver perso quella persona, l'unica persona della tua vita che sia riuscita a conoscere così profondamente e intimamente la tua anima?

Cosa rimane, oltre a cenere e cicatrici?

Non smisi mai di recarmi al lago. Ci andavo ogni giorno, al tramonto, e aspettavo. L'unica cosa che mi era rimasta da fare. Aspettare.

I miei sogni erano popolati da versioni sempre diverse del suo ritorno, ma ognuno di esse terminava comunque con la sua morte. In alcune mi diceva che mi amava. In altre che gli ero mancato, in altre non mi diceva proprio nulla perché ormai era ridotto ad un vegetale.

Non avevo mai saputo piangere, ma per lui piansi molto, e piansi tutto quello che avevo.
Non credo si meritasse le mie lacrime, ma ancora una volta non importava. Le lacrime non se le merita mai nessuno, ma non per questo smettiamo di piangere.

Quando mi mandarono a chiamare dall'ospedale, mi crollò il mondo addosso.

Sentivo il cuore che cercava di uscirmi dal petto mentre la voce dall'altro capo del telefono mi chiedeva se fossi io Dean Winchester, perché un certo Castiel Novak, un loro paziente da mesi, chiedeva di me con urgenza.

Mi disse che avrei proprio dovuto fare in fretta, perché non sapeva quando la fase di lucidità sarebbe finita ed era meglio cogliere quell'occasione, forse l'ultima, per dirgli ciò che avrei voluto dirgli. Per dirgli addio, aggiunsi io in silenzio.

Chiesi all'infermiera cosa avesse, e lei mi parlò di una specie di malattia neurodegenerativa, o qualcosa del genere, una sindrome con un nome preciso che non ascoltai nemmeno, perché ero troppo preso a cercare di placare il rombo del mio sangue nelle vene.

Non gli dissi mai addio. Non gli riparlai mai più. Mi recai in ospedale e rimasi fermo sulla soglia della sua camera, immobile, senza respirare.

Fui codardo ancora una volta, e non mi mossi di un millimetro. Ero atterrito, terrorizzato, straziato da quella vista così patetica, così misera, così profondamente morta.

C'era silenzio nella stanza, nel reparto, nell'ospedale intero. C'era silenzio dentro di lui, un silenzio assordante e vuoto, un silenzio che mi strappò altro silenzio e mi fece tremare le gambe.

Non era lui. Non era Cas, non era il mio Cas, quella creatura emaciata e cadaverica che sedeva in un letto e fissava il mondo fuori dalla finestra, quella creatura immobile e svuotata che, di tanto in tanto, veniva scossa da un tremito convulso. Le mani scheletriche, invecchiate, il volto scarno e grigio. Una giovane infermiera che cercava di imboccarlo a cucchiaini di brodo vegetale, ma lui aveva sempre odiato il brodo e per poco non scoppiai a ridere, perché lì nessuno sapeva nulla di Castiel e pretendevano anche di lasciarlo morire in quel letto.

Piansi amaramente perché anche i suoi occhi, i suoi bellissimi, meravigliosi occhi, avevano perso la loro eternità.

Me ne andai e basta.

 

Without you I'm nothing.

 

 

Trovai il suo trenchcoat e un libro sulla mia veranda due anni e mezzo dopo.

Il libro era Dell'amore e di altri demoni di Márquez, ed era quella stessa copia che lui mi aveva lasciato in biblioteca tanti anni prima, e che avevo custodito a lungo con me. In effetti non l'avevo più ritrovato, e mi ero sempre chiesto dove fosse finito.

Il suo soprabito aveva i lembi rovinati e il colletto spiegazzato, ma era in buono stato e portava ancora il suo odore.

Rimasi immobile sulla veranda con il libro e il suo trench tra le mani per quelle che mi parvero ore. Avrei voluto piangere ma non mi erano rimaste più lacrime, e non sapevo nemmeno cosa piangere perché di lui mi erano rimaste soltanto delle pagine ingiallite e una traccia sbiadita di profumo.

Scoprii in seguito che una frase, una sola, semplice frase, era stata sottolineata a penna con un tratto debole e tremante.

Per te nacqui, per te ho la vita, per te morirò, per te muoio.

Una nota a pié pagina, quasi illeggibile, diceva ciò che lui mi aveva già sussurrato quella sera del nostro primo bacio, sotto i lampioni di una stradina deserta. Quelle parole che non ero riuscito a capire, quella frase così importante che si era persa nel silenzio dell'istante.

Sei il mio pezzo di eternità.

La frase era sbavata e tutt'attorno c'erano macchie scure. Sorrisi. Aveva sempre le mani sporche d'inchiostro.

 

   
 
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