Extract the eternal from the ephemeral.
Aveva sempre le mani sporche d'inchiostro.
Spesso erano soltanto piccole macchioline sulle punte delle
dita, più
raramente erano vere e proprie parole, o frasi, o scarabocchi poco
chiari che
cercava di nascondere alla vista abbassandosi le maniche della camicia.
Era buffo come a volte, senza neanche accorgersene, si
passasse una mano sul
viso detergendosi il sudore o strusciandosi gli occhi, e quando
riabbassava il
braccio ecco spuntare uno sbuffo di inchiostro sulla fronte, una
macchia sulla
guancia, l'ombra di una parola appena sopra le palpebre.
Quando glielo facevano notare, lui li fissava perplesso, come
se non sapesse
di cosa diavolo stessero parlando, poi ci rifletteva un po' su e infine
rideva
piano, una risata timorosa e sottile, mentre invano cercava di
ripulirsi il
volto con quelle stesse mani che lo avevano sporcato.
C'erano giornate in cui all'università non si
presentava affatto. Spariva, e
nessuno ne sapeva più nulla.
Non che a qualcuno interessasse, suppongo. Era quel tipo di
uomo che a
parlarci per più di due minuti ti metteva addosso una sorta
di strano,
inspiegabile disagio, un nervosismo crescente e immotivato che ti
costringeva
ad abbassare il capo, ad inventare una scusa su due piedi per
allontanarti in
silenzio, ad evitare i suoi occhi a tutti costi, ad evitare lui e
basta, se si
era troppo sensibili.
Non che fosse aggressivo, o provocatorio, o trattasse
argomenti troppo
pesanti o incomprensibili.
Era semplicemente lui. L'aura attorno a sé, il suo
sguardo, il suo soprabito
beige da cui non si separava mai, la camicia abbottonata fino al collo
e le
mani sempre tremanti, sempre instabili, sempre impacciate, proprio come
il suo
respiro quando doveva chiedere a qualcuno di passargli gli appunti dopo
tre
giorni di assenza di cui nessuno sapeva il vero motivo.
Eppure, era anche quel tipo di uomo che non rimaneva mai solo.
Suppongo che certe cose non si possano spiegare, ma che
debbano essere viste
dal vivo, osservate e capite, se si è abbastanza acuti.
Nessuno gli parlava, ma tutti gli stavano attorno. Nessuno gli
si avvicinava
mai abbastanza da entrare nella sua vita, o almeno mai abbastanza da
ricavarne
una fugace, segreta occhiata su ciò che faceva di lui tutto
quello che era.
Eppure, erano sempre lì. Animali curiosi, famelici, in
agguato, affascinati dal
diverso.
Era come se la gente si sentisse irrimediabilmente attratta
dalla sua
presenza. Era come se non potessero fare a meno di averlo nelle proprie
giornate, di trovarlo lì seduto alla panchina sotto il
ciliegio, accanto alla
finestra della biblioteca, all'ultimo banco dell'ultima gradinata
dell'aula
magna, o in un angolo della mensa a leggere di Hemingway o Whitman
mentre
stuzzicava con la forchetta un piatto di insalata scondita.
Essere sempre circondato da persone a volte lo irritava. A
volte si guardava
attorno, e trovando tutti quegli sguardi indiscreti, invadenti, curiosi
su di
sé, lo vedevi stringere la mandibola, o grattarsi un braccio
fino a farsi male,
o alzarsi improvvisamente e spostarsi in un'altra stanza, in un altro
luogo, in
un altro mondo dove nessuno poteva incollargli gli occhi addosso e
provare a
penetrare all'interno della sua pelle.
Quando credeva che nessuno fosse nei paraggi, mormorava.
Inizialmente, ad un
orecchio distante e magari poco acculturato, poteva sembrare che
fossero parole
senza senso, poteva addirittura sembrare che fosse pazzo, con
quell'aria
allucinata mentre muoveva piano la bocca e si stringeva le ginocchia
con le
mani, come se avesse paura che le sue gambe potessero portarlo via, da
qualche
altra parte, senza chiedergli il permesso.
In realtà, sussurrava poesie.
Sto riproducendo sprazzi di eternità, diceva, e lo
diceva in un modo così
ingenuo, così candido e sincero, che non potevi fare altro
che credergli, qualsiasi
cosa intendesse, e rimanere a guardare mentre ti sussurrava un sonetto
di
Shakespeare a memoria, un haiku di Bashō che pareva quasi acquisire un
senso,
recitato da lui, o una scabrosa poesia di Baudelaire che sulle sue
labbra
suonava come il più puro dei componimenti mai scritti.
Era uno spettacolo affascinante e, molto spesso, devastante.
Per me, almeno, lo era fin
troppo.
You
walk on corpses,
beauty, undismayed.
La prima volta che gli parlai, avevo lo sguardo offuscato e la
bocca
impastata, e probabilmente non gli parlai affatto. Nonostante tutto,
riuscii
comunque a capire, sotto il peso dell'alcol e della stanchezza, di aver
di
fronte quello stesso ragazzo che per tredici anni aveva occupato un
angolo
appartato della mia visuale, una nicchia nascosta nei corridoi della
memoria,
quello stesso ragazzo che era stato un'ombra costante da quando avevo
imparato
a leggere e scrivere fino a quella sera prima del mio diploma.
Era quel tipo di bellezza che andava ricercata e apprezzata,
quel tipo di
bellezza che soltanto un occhio raffinato e sensibile poteva
comprendere
appieno, era quel tipo di bellezza che un ragazzo come me, dopo una
sbronza
come quella, non poteva far altro che ignorare, come del resto avevo
fatto per
tutti quegli anni.
Mi passò sotto il naso e nemmeno me ne accorsi. Fu
un solletico sulla nuca,
un brivido lungo la schiena, una folata di vento e lo sfarfallare di un
lampione dall'altro lato della strada.
Fu strano, breve, confuso.
Fu l'esperienza più bella della mia vita e il
giorno dopo l'avevo già
dimenticata.
Mi sfiorò la spalla e a malapena lo percepii, il
suo tocco. Mi chiese
qualcosa e a malapena lo ascoltai.
Mi chinai per vomitare, e soltanto dopo alcuni minuti in cui gli unici
suoni
furono il mio respiro ansante e il rimbombare attutito della musica in
lontananza, mi accorsi che la sua mano era sempre stata lì,
sulla mia spalla,
impercettibile.
Mi chiese se avessi bisogno di essere accompagnato a casa, gli
risposi che
poteva anche andarsene subito ma in realtà non glielo dissi
affatto, perché
quando alzai la testa per rivolgergli quelle parole, il mio cervello si
era già
inceppato e semplicemente non aprii bocca.
Era quel tipo di bellezza che scoppiava prepotentemente,
brutalmente e senza
controllo, quando meno te lo aspettavi. Era quel tipo di bellezza che
prendeva
forma e risaltava nelle notti come quelle, sotto la luce flebile dei
lampioni,
al riparo da una festa di fine anno, dai rumori, dallo strusciarsi di
corpi,
dal calore e dal sudore e dall'esaltazione selvaggia di una calca
indistinta di
individui.
Mi colpì come uno schiaffo in pieno volto e mi
lasciò più stordito e confuso
di quanto non fossi già.
Dovevo dirgli che era bellissimo. Dovevo vomitare di nuovo.
Dovevo andare a casa perché il giorno dopo mi sarei
diplomato, e per un
momento mi chiesi che ore fossero e quanto si sarebbe infuriato mio
padre.
Eppure, restai.
Non mi accorsi che si stava avvicinando fino a quando non
sentii il suo
respiro vicino, vicinissimo, a un palmo dal mio viso e aggrottai la
fronte
perché in quella vicinanza c'era qualcosa che mi spaventava
terribilmente, una
paura strisciante, opprimente, inspiegabile.
In quella vicinanza c'era anche molta tristezza, una tristezza
che partiva
dai suoi occhi e si lasciava trasportare dalla brezza serale,
volteggiando tra
i palazzi e sfiorando il marciapiede, passando tra i bidoni della
spazzatura e
tra le auto parcheggiate, per ritornare fino a me.
C'era tristezza nel suo sguardo ed era una tristezza che ti
metteva addosso
altra tristezza, e ti sembrava non finisse mai, ti sembrava proprio
infinita,
eterna, ti sembrava che gli sarebbe rimasta negli occhi per sempre.
Mi baciò perché ero ubriaco, lo lasciai
fare perché ero ubriaco, ricambiai
il bacio perché ero davvero, assurdamente ubriaco.
Sentivo il suo respiro irregolare e tremante sulla mia pelle,
e per un
attimo mi chiesi se non sarebbe morto ai miei piedi, da
quanto mi
sembrava che stesse male. Stranamente, invece, la sua bocca era morbida
e ferma
sulla mia, calda e stabile e insaporita di quella stessa tristezza che
avevo
percepito nei suoi occhi poco prima. Era un bacio struggente, e quando
finì,
ciò che mi sussurrò lo fu ancora di
più. Eppure, lo dimenticai, e non riuscii a
recuperare più dalla mia memoria quelle poche parole
mormorate che in quel
momento gli erano sembrate così importanti da essere
rivelate, e da essere
rivelate a me.
Se ne andò, un soprabito chiaro che svaniva tra le
ombre, e subito dopo fu
solo un sogno.
Quando mi tornò alla mente erano passati due giorni
e ricordai soltanto
vagamente, confusamente, di come le sue dita avessero indugiato sulla
mia nuca,
delicate, di come il blu intenso del suo sguardo avesse spazzato via la
confusione nel mio e di come per un istante, un breve, brevissimo
istante, mi
fossi sentito pazzamente innamorato di lui.
Do
not allow me to
forget you.
Fu un'ombra anche all'università, come lo era stato
alla scuola elementare,
come lo era stato al liceo e come lo era stato continuamente per tutti
quegli
anni, senza mai avvicinarsi più del dovuto, senza mai
rivolgermi la parola,
senza mai incrociare il mio sguardo.
Il nostro unico contatto era avvenuto quella sera e da allora
ripensavo a
lui come a una figura quasi impossibile, un individuo che era stato
parte di un
mio sogno febbrile dovuto all'eccesso di alcol e che era sparito subito
dopo,
come se non ci fosse mai stato, come se il suo posto fosse sempre stato
lì,
all'ultimo banco, in classe, capo chino e mani tremanti.
Nulla di più, nulla di meno. Non era mai avvenuto e
io non avevo mai baciato
un uomo, né avevo mai provato il desiderio di farlo, in
tutta la mia vita.
Nonostante le mie forzate auto-convinzioni, mi piaceva
osservarlo, proprio
come piaceva al resto della gente. Alla gente piace osservare, notare i
più
piccoli particolari, origliare conversazioni, leggere i messaggi
presenti sul
cellulare del proprio amico o della propria fidanzata, alla gente piace
intromettersi e ficcare il naso dove non dovrebbe.
A me piaceva osservare lui.
Era bello, silenzioso e mi rilassava. Sapevo che alzando gli
occhi dal mio
libro di anatomia avrei sempre trovato quella testa scura tutta presa
da un
romanzo o da una raccolta di poesie, perché lui non studiava
mai e preferiva
rintanarsi in biblioteca a leggere, eppure superava straordinariamente
tutti
gli esami sempre a pieni voti. Lo invidiavo e lo ammiravo, e cercavo
disperatamente un qualsiasi pretesto per parlargli.
Una volta mi complimentai con lui per un trenta e lode ad un
esame.
Un'altra volta osai chiedergli perché fosse stato
assente per ben una
settimana, un'altra volta ancora lo salutai mentre mi passava accanto
nel
cortile dell'università.
Dava risposte vaghe, a me come a tutti gli altri, abbozzava un
sorriso e
scuoteva la mano in un gesto distratto, mormorava una scusa a cui
nemmeno il
più sciocco avrebbe creduto, e ritornava a ciò
che stava facendo.
Mi sentivo ridicolo, imbarazzante e patetico nel mio ricercare
costantemente
una sua parola, un suo sorriso, un suo cenno del capo, e mi sentivo
ancora più
frustrato quando lui me li offriva, ma senza mai rivolgermi la sua
completa
attenzione, no, quella non la concedeva mai a nessuno.
Un pezzo di lui era sempre da un'altra parte. Poteva
rispondere ad una tua
domanda, poteva addirittura guardarti negli occhi, ma non ti avrebbe
mai
dedicato più attenzione di quanta se ne dedichi a una foglia
che cade, al
fischio di un bollitore sul fuoco, al mormorio di sottofondo attorno a
sé.
Cose distanti, lontane, rumori e avvenimenti che fanno da
sfondo alla vita
di un qualsiasi individuo e che non gli ruberebbero più di
un momento di
consapevolezza, ed era così che lui teneva in considerazione
la gente. Non
credo lo facesse di proposito, o con cattiveria. Era la sua natura, e
anche se
poteva offendere molti, lui non aveva alcuna intenzione di cambiarla.
Cominciai davvero a convincermi che ciò che era
successo quella sera fosse
stato soltanto un mero frutto della mia immaginazione, e
poiché non riuscivo a
instaurare un qualsiasi tipo di contatto con lui, verbale o visivo che
fosse,
decisi che me ne sarei fatto una ragione, e che avrei dovuto rivolgere
la mia
concentrazione a persone e impegni più importanti e
imminenti, come la ricerca
di una fidanzata o la mia laurea in medicina.
Forse fu proprio questo mio repentino cambio di atteggiamento,
a scatenare
ciò che successe dopo.
Il libro che lasciò sul tavolo della biblioteca,
allo stesso posto dove
sedevo io da due anni e mezzo, non lo avevo mai visto prima in vita
mia. Avevo
sentito parlare dell'autore, un certo Márquez, ma non avevo
mai letto molto e
di lui non avevo mai letto proprio nulla.
Avrei potuto rimetterlo al proprio posto, sugli scaffali,
avrei potuto
sedermi ad un altro tavolo o semplicemente avrei potuto ignorarlo e
basta, ma
ricordavo quella copertina e ricordavo quel titolo.
Lo stava leggendo lui, fino a quella mattina, ed ecco che
quello stesso
libro era in biblioteca, al mio tavolo, e di lui nessuna traccia.
Sapevo che,
nonostante non fosse lì, in quel momento avevo la sua totale
e completa
attenzione.
Sorrisi, e portai via il libro con me.
Non lo rividi mai più. Semplicemente, non si
presentò più alle lezioni, né
agli esami, né in biblioteca. Soltanto con la sua assenza mi
resi conto di
quanto fosse diventata indispensabile la sua presenza per tutto quel
tempo, e
soltanto con la sua assenza capii che ora recarmi in facoltà
ogni giorno non mi
portava più alcuna soddisfazione.
Mi chiesi se quel libro non fosse stato una sorta di regalo di
addio, un
ultimo cenno di riconoscenza per un mondo con cui non aveva mai legato
abbastanza, e che avesse deciso di donarlo a me perché
semplicemente ero
l'ultima persona a cui aveva detto qualcosa di vero, seppur breve e
sussurrato,
seppur mascherato dal silenzio della notte, seppur quasi dimenticato da
entrambi.
People
should fall in
love with their eyes closed.
Lei era bella. Non era la sua bellezza, ma
era bella in un modo
aggraziato, elegante, eppure quasi comune nei suoi lineamenti fini e la
pelle
scura. Non mi ero innamorato delle sue parole o dei suoi occhi,
né del modo in
cui mi trattava o dei suoi gusti in generale. Mi ero semplicemente
innamorato
del modo in cui curvava le labbra in un sorriso, della linea ondulata
dei suoi
capelli sul cuscino e del profumo sul suo collo quando posava la testa
sulla
mia spalla. Non avevo alcun interesse nella sua persona, per quanto mi
dispiacesse
ammetterlo. Mi piacevano i suoi piccoli particolari, gesti, sguardi,
momenti.
Le dissi che la amavo prima ancora di sapere cosa significasse
davvero,
prima ancora di laurearmi e prima ancora di aver capito cosa quel libro
e il
suo proprietario rappresentassero nella mia vita.
Le dissi che la amavo e fu una scelta un po' affrettata,
ingenua, azzardata.
Pensai che sarei stato bene. Pensai che sarei stato felice.
Pensai che sposandola avrei dimenticato il blu dei suoi
occhi e
l'odore delle pagine del suo libro, che ormai
giaceva in un cassetto,
abbandonato, impolverato e consumato dalle tante letture e riletture.
La sposai davvero e per un po' le mie previsioni si
avverarono, e trovai un
posto come chirurgo in una clinica privata. Tornavo a casa e trovavo un
ambiente
caldo, un piatto caldo e delle braccia calde ad aspettarmi, e tutti mi
chiedevano scherzando cosa avrei voluto di più dalla vita.
Sebbene sapessi
benissimo la risposta, quella era un tipo di domanda a cui nessuno si
aspetta
che si replichi, perciò me ne rimanevo in silenzio,
sorridendo e annuendo
mentre quel tale amico o quel tal parente si complimentava con mia
moglie per
il suo splendido vestito, e accettava una birra mentre intavolava
allegre
conversazioni sul meteo e sulle prossime elezioni.
A volte, mi stancavo. A volte era difficile persino darle il
buongiorno,
andare a lavoro, tornare a casa o cenare e mettermi a letto. A volte mi
spacciavo per malato, prendevo l'auto e me ne andavo via, lontano, in
qualche
hotel sperduto ai margini della città o a pescare sul lago.
Mi assentavo per
una giornata intera o soltanto per poche ore, e mia moglie aveva
imparato ormai
a non fare più domande. Sapeva che non la tradivo
perché non ero mai riuscito a
dire bugie, e perché mi conosceva abbastanza da sapere che
le avrei detto
sempre tutto, non importava quanto fosse grave.
In effetti era vero, perché della mia vita lei
sapeva ogni cosa.
Ogni cosa, eccetto l'esistenza di quel libro. Ogni cosa,
eccetto l'esistenza
di quel volto nei miei pensieri quando il mio sguardo iniziava a vagare
nel
vuoto.
Mi piaceva stare solo. Lui mi aveva insegnato la solitudine,
ed io avevo
imparato ad amarla più di ogni altra cosa al mondo.
C'è qualcosa di
estremamente confortante nell'immobilità di un attimo muto,
silenzioso, completamente
privo di avvenimenti o contenuti se non i tuoi pensieri alla deriva. Li
sentivo
quasi scorrere via, lentamente, inesorabilmente, fino a quando non mi
svuotavano di ogni emozione e sensazione e rimanevo lì,
immobile, con il
gracchiare di un corvo in lontananza e la brezza sottile del vento che
increspava la superficie piatta del lago, con il cielo greve e carico
di
pioggia e l'erba fresca e umida sotto le mie mani.
Fu al lago che lo incontrai.
Non so come mi trovò. Non me lo disse mai, e io non
lo chiesi mai. Certi
ricordi bisogna lasciarli lì dove sono, racchiusi in una
bolla di magia e
tristezza e avvolti da un sottile involucro di nostalgia.
Avevo gli occhi chiusi quando lo sentii prendere un respiro
tremante e
capii, con un'improvviso lampo di lucida certezza, che non lo avrei
lasciato
andar via di nuovo, non lo avrei lasciato a dissolversi e sfaldarsi
nell'aria
senza fare nulla per trattenerlo accanto a me.
Parlò, e questa volta compresi ogni parola.
Quando indugio a contemplare e a guardare la strada
in cui mi hai
condotto, io finirò per abbandonarmi senza arte a te che
saprai prendermi e
finirmi, disse, e lo ricordo, lo ricordo perché
la sua voce si dipanò come
una ragnatela sottile fino alle mie spalle, scivolando delicatamente
sulla mia
pelle e risvegliando i miei sensi a lungo assopiti. Aveva paura
perché lo
sentivo fremere e perché sentivo le sue parole srotolarsi
una dietro l'altra un
po' esitanti, un po' incerte, un po' titubanti, ma io avevo aspettato
quel
momento per anni e adesso non me lo sarei lasciato sfuggire per nulla
al mondo.
E infine alle vostre mani sono venuto, dove so che mi
toccherà morire,
affinché solo in me fosse provato quanto taglia una spada in
un'arresa, gli
risposi, e mi sentii in pace.
Non aprii gli occhi, non mi voltai, non dissi nient'altro.
Quella frase,
quella citazione che, in cinque anni, ero giunto ad imparare a memoria,
così
come tutto il resto del libro di cui faceva parte, fu sufficiente.
Quando mi sfiorò, fu come la prima volta. Fu un
tocco lieve, impercettibile.
Lasciai scorrere una mano sulla sua e la premetti di più sul
mio cuore, perché
volevo sentirlo, e perché volevo che lui sentisse me, ed
entrambi rimanemmo in
silenzio ad ascoltare i miei battiti rincorrersi e inciampare gli uni
sugli
altri come impazziti.
Non ci guardammo negli occhi e non dicemmo una sola parola.
Rimanemmo così,
fermi, le teste chine a fissare le nostre dita intrecciate, per un
tempo che mi
parve infinito e che mi parve non durare affatto, perché
quando lui staccò la
mano dalla mia e dal mio petto fu come se non fosse mai avvenuto.
Quando incrociai i suoi occhi, vi ritrovai la stessa, identica
tristezza di
quella sera di tanto tempo prima, solo che stavolta era più
matura, più
prudente, più riservata. Non voleva lasciarmi entrare e non
voleva che sapessi
della sua esistenza, perché un attimo dopo era sparita
dietro le sue iridi e di
essa non c'era più traccia.
Cercai invano di afferrarla ma lui aveva già
abbassato lo sguardo e seppi,
in quel preciso istante, che avevo già perso metà
della sua attenzione.
Era fatto così, non importava quanto significassi
per lui, perché poco tempo
dopo avrebbe già rivolto il suo sguardo, le sue parole o i
suoi pensieri a
qualcos'altro.
Disse che era bello, lì, perché sembrava
di essere in una grossa nuvola
grigia e ovattata. Il suo tono di voce era calmo, piatto, non c'era
traccia del
timore di poco prima. Il suo volto era sereno.
Mi dissi che avrei seguito
quella voce fino in
capo al mondo, se solo me lo avesse chiesto. Non me lo chiese mai, ma
io lo
seguii comunque.
They
said that love was
an emotion contra natura that condemned two strangers to a base and
unhealthy
dependence, and the more intense it was, the more ephemeral.
Non fu difficile lasciarla. Non fu difficile mollare tutto
così,
all'improvviso, senza neanche prendermi il tempo di riflettere. Ho
sentito di
persone che ci hanno impiegato settimane, mesi, addirittura anni per
prendere
la decisione di andarsene.
Io ci impiegai il tempo di un istante, di un battuto di
ciglia, di un mio
respiro mescolato al suo nell'aria fredda di
novembre.
Un solo, brevissimo istante, e seppi cosa andava fatto. Nel
momento in cui
il suo sguardo tornò a posarsi su di me
e vi lessi un improvviso timore
ad ammettere qualcosa che entrambi già sapevamo da tempo,
seppi che non lo
avrei più lasciato andare via.
Non ci fu bisogno di parole, tra noi non ci fu mai bisogno di
parole, se non
quelle con le quali riproducevamo sprazzi di eternità,
proprio come sosteneva
lui.
Tornai a casa e appena lei mi vede sulla soglia
capì. Capì tutto, perché
potevo anche non amarla come avrei dovuto, ma ammiravo la sua
intelligenza,
ammiravo la sua acutezza e fu davvero acuta nel comprendere almeno in
parte
cosa mi fosse successo.
I suoi occhi erano tristi ma rassegnati mentre cenavamo in
silenzio.
Soltanto successivamente mi accorsi di quanto mi fossi comportato da
codardo,
senza nemmeno trovare il coraggio di dirglielo, senza nemmeno trovare
il
coraggio di andarmene in quel preciso momento, sotto il suo sguardo
accusatore.
No, aspettai. Aspettai le ombre della notte e il silenzio del
suo sonno per
raccogliere pochi vestiti e caricarmi un borsone sulle spalle, per
guardarmi
intorno un'ultima volta e dire addio a quella casa che aveva scelto
lei, a
quella vita che aveva scelto lei, e guardandomi allo specchio
sì, anche a
quell'uomo che aveva scelto lei, che aveva plasmato e modellato e
adattato a
delle giornate che non avrei mai voluto vivere, a contatto con delle
persone
che non avrei mai voluto conoscere. Fortunatamente, aveva fallito.
Il mio perdono fu un bacio leggero sulla sua fronte, e la
speranza che mi
avrebbe dimenticato presto e si sarebbe cercata qualcun altro che non
avrebbe
avuto bisogno di plasmare, qualcun altro con le misure e la forma
adatte a lei.
E me ne andai.
Tornai al lago che già pioveva. Era una pioggia
fitta che mescolata
all'oscurità della notte mi faceva vedere poco, e
più volte lungo la strada
rischiai di sbandare o schiantarmi contro un albero.
Scesi dall'auto e corsi verso la riva. Lui era un'ombra che
rimaneva
immobile contro le sferzate del vento e il peso della pioggia
incessante, con
il soprabito beige che gli sventolava dietro e i capelli bagnati.
Lo raggiunsi con il fiatone, lo costrinsi a voltarsi, gli
dissi che ora
potevamo andarcene, che era tutto sistemato, che avevamo tutto
ciò che ci
serviva per fuggire lontano, ovunque lui volesse.
Sorrise e fu il sorriso più sincero che avessi mai
visto sul suo volto.
Nessuna scusa, nessun gesto vago.
Fu sincero anche quando disse che non mi voleva con sé, che
il mio posto era
lì, in quella nuvola grigia e ovattata, mentre lui non aveva
un posto e non
poteva trascinarmi via senza una meta precisa.
Non mi importava di una meta, non mi era mai importato. Glielo
dissi ma lui
continuava a scuotere la testa, a sorridere amaramente, a lanciare
occhiate
malinconiche e nostalgiche al lago come se gli mancassero quelle acque,
come se
gli mancasse annegare e finire giù, giù, in
fondo, lasciarsi andare e
dimenticare ogni cosa.
Mi avvicinai di più al suo volto e vidi le
goccioline di pioggia che gli
scendevano lungo la fronte, gli imperlavano le ciglia, e poi gli
scivolavano
lungo la guancia fino a svanire sotto l'incavo della gola, e pensai che
in quel
momento avrei voluto svanire anche io nelle curve del suo corpo, pur di
smettere di provare dolore, amarezza, frustrazione. Pensai che forse
era
possibile, svanire dentro di lui.
Glielo dissi.
Mi rispose che sì, era possibile, ma che poi non
avrei più potuto uscirne,
non avrei più potuto ricompormi, tornare ad essere me e
soltanto me, tornare
nel mio corpo e staccarmi da lui.
Scossi la testa. Nemmeno questo era importante.
Il nostro ultimo sguardo prima che lo baciassi fu l'arresa di
cui tanto
parlava Marquéz, la dolciastra consapevolezza di come
sarebbe finita, prima o
poi, la scomoda sensazione di star facendo qualcosa di estremamente
sbagliato e
la definitiva decisione di volerlo fare lo stesso, perché lo
desideravamo,
perché non c'era altro che potessimo fare, perché
la sola idea di un altro
possibile distacco rendeva il tutto insopportabilmente più
urgente e
struggente.
Lo spogliai lentamente e lui fece lo stesso con me, e lasciai
che entrambi
sentissimo il freddo scorrere sulla nostra pelle, raggelarci le ossa,
incrostarsi tra i nostri capelli fradici e incagliarsi nei nostri
sospiri
rochi, caldi, sussurrati. Lo baciai come si bacia qualcosa che
perderai, come
si baciano quegli attimi della tua vita che sai che non ritorneranno
mai più,
come si bacia la cosa più preziosa che possiedi e come si
bacia la cosa che sai
che non possederai mai, e che perciò ami ancora di
più.
Facemmo l'amore e fu breve, intenso, silenzioso.
Durò un istante e non durò
affatto, durò un gemito e un respiro bollente sul mio collo,
dei brevi,
brevissimi movimenti e la contrazione dei nostri cuori, quasi
sconosciuti l'uno
all'altro, che smettevano di battere nello stesso momento.
Chiusi gli occhi e svanii
davvero dentro di
lui.
We'll
laugh 'til our
noses bleed, the windows shatter, and our hearts fall out onto the
floor. You
are mine, my darling, and the world... yes, the world shall be ours.
Non ricordo esattamente dove andammo. Non era importante, per
noi non era
importante quasi nulla.
Ci spostammo di paese in paese, senza fermarci in uno stesso
posto per più
di qualche mese, senza stabilirci definitivamente, a volte senza
neanche
disfare i bagagli.
Una camera d'hotel, vestiti sparsi sul letto, sul pavimento,
sul davanzale.
Pasti fugaci, pasti che non consumavamo affatto, libri sotto
il materasso,
libri sul comodino, libri nei cassetti, libri ovunque.
Fogli scarabocchiati, fogli lasciati in bianco, fogli pieni di
parole,
frasi, inchiostro, fogli accartocciati e gettati nella spazzatura.
Fare l'amore sul letto, per terra, contro l'armadio, in bagno,
nella
scalinata a notte fonda.
Le sue mani intrecciate alle mie. Le sue labbra sulle mie. Il
suo corpo
contro il mio, i suoi occhi nei miei.
La certezza che sarebbe durato ancora a lungo, la speranza che
sarebbe
durato per sempre.
Fu così, per molti mesi. Ci fermavamo per
racimolare abbastanza soldi per
andarcene di nuovo, io accettando qualche lavoretto di tanto in tanto,
lui
vendendo i suoi racconti e le sue poesie.
Vendevamo le nostre capacità a gente che non
avrebbe mai saputo apprezzarle,
ma non importava, semplicemente perché ci bastavamo noi.
Imparai a conoscerlo pian piano. Fu un processo lento e
frustrante, perché
c'era sempre una seppur piccolissima parte di lui che si sottraeva al
mio
sguardo, al mio tocco, alle mie parole.
Mi disse che aveva lasciato l'università e tagliato
i ponti con la sua
famiglia, ma non mi spiegò mai il perché. Mi
disse che gli mancava la scuola e
gli mancava avere qualcosa da studiare ogni giorno, per occupare la
mente,
mentre adesso era costretto a rimanere da solo con i suoi stessi
pensieri, ma
non mi spiegò mai quali fossero.
Scoprivo strati di lui che non avrei mai immaginato
esistessero, scoprivo
particolari e pezzi fondamentali della sua vita e del suo carattere che
mi
elargiva di tanto in tanto quando era troppo distratto per trattenerli,
piccoli
cocci che lui riteneva di poco conto, e che io invece riponevo
gelosamente al
sicuro.
Non ci fu bisogno di innamorarmi, perché lo ero
già da tempo. Cercavo però
spesso di capire cosa lui provasse per me, e una volta glielo chiesi.
Mi rispose con un bacio, e la promessa che un giorno avrebbe
saputo dirmelo.
Giunsi alla conclusione che un uomo come lui potesse amare soltanto
quegli
sprazzi di eternità di cui tappezzava le sue giornate.
Giunsi alla conclusione
che non avrei mai ricevuto una risposta alla mia domanda, e che non
avrei mai
più dovuto chiederlo.
A volte l'unico modo per conservare intatto quel pizzico di
dignità che ci
rimane, é non fare domande. Restare in silenzio, fingere di
non sapere,
indossare i paraocchi e tirare avanti per la propria strada, facendo
finta di
ignorare tutto il resto.
Così feci, e funzionò davvero. Per
alcuni mesi, funzionò davvero.
Passammo il Natale in Norvegia, l'estate alle Hawaii, il resto
dell'anno tra
una città europea e l'altra. Finimmo in Italia per un paio
di mesi, in Spagna
per due settimane, a Londra per una presentazione del suo primo libro.
Non me ne aveva parlato. Spuntò fuori una mattina,
quando mi diede il
buongiorno annunciando che una casa editrice a me del tutto sconosciuta
aveva
accettato la pubblicazione del suo romanzo. Mi chiesi quale fosse, dei
tanti
che aveva iniziato, il fortunato ad aver raggiunto un finale. Mi chiesi
di cosa
parlasse, mi chiesi se al suo interno ci fosse una sua dedica per me, o
se lo
avrebbe reso famoso abbastanza da permettergli di pensare ad una
sistemazione
stabile. Mi chiesi tante cose e tra queste mi chiesi anche cosa
esattamente mi
trattenesse dal raccogliere la mia roba e andarmene, semplicemente per
il fatto
che mi aveva taciuto tutto ciò, ma non espressi ad alta voce
nessuna delle mie
domande.
Lo trascinai a letto, lo tirai sopra di me, gli baciai la
punta del naso e
gli sussurrai un ti amo senza speranze, perché a stare con
lui avevo imparato a
sopprimere la speranza e a vivere alla giornata, senza pensare a un
possibile
futuro, senza pensare nemmeno al domani.
A volte, mi cercava. A volte sembrava davvero che ci tenesse,
ad avermi lì
accanto a lui. A volte pareva quasi che tutta la sua attenzione fosse
finalmente concentrata su di me, soltanto su di me.
Erano momenti strani, momenti da conservare, momenti da
rivedere e ricordare
quando tutte le mie certezze crollavano e la tentazione di andarmene
tornava
vivida e prepotente dentro di me.
Erano momenti in cui la sua mano scivolava silenziosamente sul
materasso,
cercando la mia, e vi si aggrappava come se fosse il solo contatto
umano che
gli importasse davvero; erano momenti in cui mi diceva che avrebbe
voluto
dipingere i miei occhi, se solo avesse saputo dipingere, momenti in cui
si
divertiva a cercare nella natura attorno a sé un verde che
corrispondesse
esattamente a quello delle mie iridi; erano momenti in cui si accorgeva
del mio
sguardo su di sé e sollevava di colpo la testa, aprendosi in
un sorriso così
autentico e genuino e al tempo stesso così devastante da
sembrare una
stilettata di dolore nello stomaco.
Momenti in cui lo sentivo davvero lì, accanto a me,
non come una figura
eterea e un po' sbiadita eppure tutta presa dalla sua colorata
eternità, ma
come un uomo bellissimo e meraviglioso che amavo più di me
stesso, un uomo per
il quale avevo abbandonato tutto quello che ero e tutto quello che
avrei potuto
essere, un uomo che credevo avrebbe fatto lo stesso per me in qualsiasi
momento.
Momenti rari, ma erano i soli di cui mi nutrivo.
Il suo romanzo vendette pochissime copie. Non so esattamente
perché, ma in
fondo ho sempre sentito dire che i grandi geni sono stati ignorati o
disprezzati dalla gente del loro tempo. Lui non era un genio, ma non
era
neanche una persona comune, e il suo romanzo meritava così
tanto che avrei
potuto andare in giro a sbatterlo in faccia a tutta la popolazione
mondiale, se
solo lui me lo avesse chiesto.
Lo lessi in una sola sera, davanti al camino di un piccolo
albergo in
montagna, sdraiato sulle sue gambe mentre mi accarezzava i capelli.
Rimase in
silenzio fino a quando sfogliai l'ultima pagina, e lessi l'ultima
parola.
Mi chiese come fosse. Percepivo l'ansia e il timore nella sua
voce, e
sorrisi per rassicurarlo. Non so cosa gli dissi, ma non fu abbastanza.
Non lo avevo mai visto urlare. Non avevo mai creduto che una
persona così
profondamente calma e pacata come lui, potesse essere capace di
infuriarsi così
tanto, e urlare quelle cose in quel modo.
Mi disse tante cose ma non ne ricordo nemmeno una, perché
del nostro rapporto
ho dimenticato tutte le parole terribili che ci siamo detti. Ricordo
che mi
spinse via quando cercai di abbracciarlo e disse tra le lacrime che ci
avrebbe
ridotto a vivere di stenti sotto i ponti, e che continuando
così sarebbe
successo molto presto. Confessò di avermi rubato dei soldi
per comprare altri
libri, altri quaderni, altro inchiostro, perché lui aveva
sempre odiato i pc e
preferiva scrivere a mano.
Disse che avrei iniziato a considerarlo pazzo proprio come
sostenevano i
suoi genitori, e che alla fine lo avrei abbandonato senza tante
cerimonie in un
manicomio o in un ospedale psichiatrico. Disse che mi sarei stancato di
lui, se
non lo avevo già fatto, proprio come tutti gli altri.
Disse che non voleva più vedermi.
Disse che sarebbe stato bello se lo avessi stretto tra le
braccia, quella
notte.
Gli asciugai una lacrima
che era scivolata
lungo la sua guancia e mi sdraiai accanto a lui sul pavimento,
abbracciandolo e
posando la testa sulla sua schiena tremante.
Now that it's snowing in your brain
Even ten will not placate you
This ain't no killer for the pain
This avalanche
will suffocate you.
La prima volta che se ne andò, sparì
soltanto per tre giorni. Fu comunque un
tempo lunghissimo e un'agonia insopportabile, soprattutto
perché smisi di
cercarlo al secondo giorno e decisi che lo avrei aspettato
pazientemente,
sperando che tornasse da me.
Tornò davvero, durante la notte. Si stese al mio
fianco e mi lasciò un bacio
sulla guancia, sussurrandomi che gli ero mancato. Lo strinsi a me e
decisi di
non fare domande, ancora una volta.
Se ne andò di nuovo due mesi dopo, e
sparì per due settimane.
Due settimane in cui cercai invano di riempire la mia vita con
qualcos'altro
che non fosse il costante pensiero di lui chissà dove,
lontano da me, due
settimane in cui ebbi la tentazione di seguire il suo esempio e
andarmene, così
che al suo ritorno non avrebbe trovato nessuno ad aspettarlo. Mi resi
conto che
non avrei potuto convivere con un gesto del genere, e lasciai perdere.
La terza volta durò un mese.
La quarta volta tornò dopo tre mesi e mezzo, e
quando vidi la porta della
mia camera d'hotel aprirsi lentamente e un paio di occhi azzurri fare
capolino
sulla soglia, ero così ubriaco che per poco non lo riconobbi.
Lanciai una bottiglia di birra contro lo stipite della porta,
mancando il
suo volto per poco, e urlai che non ce lo volevo lì, che
poteva andarsene per
sempre e smetterla di tornare per pura pietà, che non avevo
bisogno di lui e
che mi stava rovinando la vita, anzi, me l'aveva già
rovinata e la cosa
peggiore era che non lo rimpiangevo per niente. La cosa peggiore era
che
gliel'avrei lasciata rovinare altre mille volte, pur di stare con lui.
Soltanto dopo aver smesso di urlare, mi accorsi della ferita
incrostata di
sangue sulla sua fronte e della camicia lacera e bagnata, il trenchcoat
sporco
di fango e i capelli grondanti di pioggia.
Seppi in seguito che lo avevano derubato da cima a fondo e lo
avevano
lasciato per terra a contorcersi in una pozzanghera, non prima di
averlo
riempito di calci e di avergli sbattuto la testa contro un lampione.
Si avviò barcollando verso il bagno, crollando in
ginocchio a metà strada.
Rimasi a fissarlo così, immobile, una birra ancora tra le
mani e la mente
troppo confusa per parlare o fare qualcosa. Mi sentii completamente
svuotato e
pensai che avrei dovuto davvero smetterla di starmene lì
impalato, perché
dovevo aiutarlo a rialzarsi, medicargli la ferita, spogliarlo dei
vestiti
sporchi, ma l'unica cosa che feci fu scivolare lungo la parete e
rannicchiarmi
nell'angolo tra il divano e la tv, dondolando in silenzio.
Riuscì a trascinarsi faticosamente fino al
lavandino e si chiuse la porta
alle spalle. Rimase lì dentro per tutta la notte, ed io
rimasi rannicchiato per
tutta la notte, ad ascoltare i suoi gemiti e a trattenere i miei, una
scena
troppo pietosa per essere vissuta e ancor più raccontata.
Il mattino dopo lo trovai addormentato in posizione fetale
sulle piastrelle
del bagno, con la ferita sulla fronte che aveva ripreso a sanguinargli
e i
vestiti bagnati ancora addosso. Vederlo in quello stato fu troppo,
così lo
spogliai lentamente, stringendolo tra le braccia, e lo condussi sotto
la doccia
con me.
Non mi lasciò nemmeno per un istante. Rimanemmo
sotto il getto d'acqua calda
per quelle che mi parvero ore, l'uno aggrappato all'altro,
così forte che ci
scavammo a vicenda dei solchi nella schiena con le unghie.
Credo che da quell'episodio le cose non fecero che peggiorare,
nel suo
cervello. Sentivo il cambiamento crescere e ingigantirsi sotto i miei
occhi, ed
ero troppo spaventato per fare qualcosa e troppo rassegnato per poter
sperare
che sarebbe andata meglio.
Non so quando esattamente mi accorsi che qualcosa sul serio
non andava. Fu
un processo lento ed estenuante, e quando finalmente me ne resi conto,
suppongo
che ormai fosse troppo tardi. Era sempre stato troppo tardi.
La sua attenzione diminuiva sempre di più, e molto
spesso lo sorprendevo a
fissare il vuoto con gli occhi vitrei e la bocca semiaperta. A volte la
notte
non dormiva affatto, e se lo faceva, lo sentivo voltarsi e rivoltarsi
in preda
all'insonnia e, spesso, ad incubi.
La cosa più preoccupante era vederlo tremare. Non
ci avevo mai fatto caso,
non gli avevo mai dato più importanza del dovuto, avevo
sempre pensato che
fosse la sua insicurezza la causa di quei tremori, ma quando iniziarono
a
peggiorare, mi resi conto che la situazione non era così
semplice.
Cercava di nasconderlo persino a sé stesso. Si guardava allo
specchio e si
stringeva le mani in grembo per non vederle tremare, cercava di
occupare il suo
tempo con la scrittura o la lettura o trascinandomi in giro a fare
qualsiasi
cosa, qualsiasi cosa che lo distraesse abbastanza da non pensare, da
non
lasciarsi cogliere da quegli attimi di vuoto che gli si gonfiavano
attorno e lo
inglobavano completamente.
Spesso mi parlava di morte. A volte semplicemente le parole
cominciavano a
sgorgare fuori, incontrollabili, ed io rimanevo ad ascoltarlo,
terrorizzato.
Parlava per ore ed era così bello perché ne stava
parlando con me, ma era così
spaventoso che avrei voluto soltanto che tacesse, che la smettesse di
chiedersi
come dovesse essere morire, e se qualcuno sarebbe andato al suo
funerale, e
come avrebbe voluto andare al cimitero, dovresti portarmi al cimitero
qualche
volta, perché non ci andiamo oggi?
D'un tratto era terribilmente affascinato dalle cose morte, e
scrisse molti
racconti, con la penna che scivolava tremando sul foglio e la sua
concentrazione altalenante, ma li scrisse davvero. Gli fruttarono ben
poco
perché la gente ne ha abbastanza di parlare di morte, la
gente la affronta ogni
giorno la morte, la gente vuole leggere di cose belle e storie d'amore
e non
dei deliri sconnessi di un povero pazzo.
Un giorno gli chiesi di portarmi un bicchiere d'acqua e lo
lasciò cadere sul
pavimento senza neanche accorgersene. Rimanemmo attoniti a fissare i
cocci di
vetro sparsi ai nostri piedi e l'acqua che aveva impregnato il tappeto,
e
quando alzai la testa e incrociai i suoi occhi, li trovai
così vuoti che per un
attimo barcollai all'indietro, terrorizzato.
Lui mi fissò battendo le palpebre e disse che
avrebbe ripulito tutto, ma non
si mosse.
Mi avvicinai piano, prudentemente, temendo che sarebbe fuggito
via, e giunsi
a sfiorargli la guancia con una mano. Chiuse gli occhi sotto il mio
tocco e lo
baciai, il bacio più triste di questo mondo, il bacio
più devastante che gli
avessi mai dato, e non so bene come finimmo a fare l'amore ma decisi
che era la
cosa più giusta da fare, prima di accettare il fatto che la
persona più
importante della mia vita stesse morendo.
Tremava, sotto il mio tocco, il respiro ansante mentre
lasciava scorrere le
mani sul mio petto e mi baciava ancora, lentamente e con trasporto, e
sapevo
che in quel bacio ci stava mettendo tutto sé stesso, o
almeno ciò che rimaneva
di lui. Gli tenni la mano mentre ci muovevamo, gliela tenni stretta
così che né
io né lui la sentissimo fremere, gliela tenni ferma contro
il mio cuore proprio
come quella volta, sul lago, quando avevo capito che tutta la mia vita
sarebbe
iniziata e finita con lui, quando avevo capito di aver regalato il mio
cuore a
delle mani che non avrebbero mai saputo custodirlo, e che lo avrebbero
schiacciato delicatamente fino ad annientarlo.
Non mi era mai importato e non mi importò nemmeno
allora, perché chiusi gli
occhi e svanii ancora una volta dentro di lui.
Quella stessa notte se ne
andò, e seppi con
certezza che non sarebbe più tornato.
You never said forever, could ever hurt like this?
Spin my way out of hell, there's nothing left this
soul to sell.
Fu difficile rassegnarmi al fatto che non l'avrei
più rivisto. Mi costò un
anno fatto di attese e dolore, rabbia e odio, un anno in cui lo
aspettai, lo
aspettai ogni giorno, andando contro ogni mio pensiero razionale che mi
dicesse
di smetterla.
Pensai che passare la vita ad aspettarlo sarebbe stato sempre
meglio che
convincermi del fatto che non sarebbe più tornato. Mi
sbagliavo, sapevo
perfettamente di star sbagliando, ma non importava. La sua assenza mi
graffiava
la pelle ogni giorno, mi si aggrappava al collo e stringeva per
soffocarmi,
ricopriva ogni cosa di strati di dolore, ira, tristezza, ma sopportavo
in
silenzio perché era meglio sentire la sua assenza, che
dimenticare come fosse
la sua presenza.
Credetti che fosse morto, che si fosse lasciato morire
nell'angolo di una
strada, proprio come un barbone qualunque, proprio come aveva sempre
predetto.
Entrambi avevamo studiato medicina, entrambi sapevamo cosa
significassero i
suoi sintomi, ma non volevo darmi risposte certe e il dubbio mi
consumava ogni
giorno, perciò dopo un anno mi convinsi finalmente della sua
morte e cercai di
liberarmi di ogni sentimento che mi tenesse ancora incatenato al suo
pensiero.
Raccogliendo quel poco di coraggio e dignità che mi
erano rimasti, decisi di
tornare a casa, e scoprii di avere un figlio.
Lei fu gentile con me, nonostante il rancore nei suoi occhi
fosse così
palese da non riuscire a incontrare il suo sguardo. Come avevo sperato,
si era
risposata, ma suo marito adesso non c'era e se mi andava avrei potuto
salire di
sopra e salutare mio figlio. Nostro figlio.
Era un bambino meraviglioso, ma fu così timido che
non riuscii nemmeno ad
avvicinarmi abbastanza per cercare somiglianze col mio volto o con
quello di
sua madre. Gli sorrisi e lui si nascose dietro un camioncino
giocattolo,
ridacchiando timidamente.
Lei mi confessò di non avergli mai detto di avere
un altro padre, e che quel
padre se n'era andato ancor prima che nascesse, e concordai che era
meglio
così. Le chiesi se avessi potuto venire a fargli visita,
qualche volta.
Mi rispose che dovevo uscire immediatamente da quella casa se
non volevo
incontrare suo marito sulla porta, e così feci.
Cosa rimane, poi? Cosa rimane dopo aver perso quella persona,
l'unica
persona della tua vita che sia riuscita a conoscere così
profondamente e
intimamente la tua anima?
Cosa rimane, oltre a cenere e cicatrici?
Non smisi mai di recarmi al lago. Ci andavo ogni giorno, al
tramonto, e
aspettavo. L'unica cosa che mi era rimasta da fare. Aspettare.
I miei sogni erano popolati da versioni sempre diverse del suo
ritorno, ma
ognuno di esse terminava comunque con la sua morte. In alcune mi diceva
che mi
amava. In altre che gli ero mancato, in altre non mi diceva proprio
nulla
perché ormai era ridotto ad un vegetale.
Non avevo mai saputo piangere, ma per lui piansi molto, e
piansi tutto
quello che avevo.
Non credo si meritasse le mie lacrime, ma ancora una volta non
importava. Le
lacrime non se le merita mai nessuno, ma non per questo smettiamo di
piangere.
Quando mi mandarono a chiamare dall'ospedale, mi
crollò il mondo addosso.
Sentivo il cuore che cercava di uscirmi dal petto mentre la
voce dall'altro
capo del telefono mi chiedeva se fossi io Dean Winchester,
perché un certo
Castiel Novak, un loro paziente da mesi, chiedeva di me con urgenza.
Mi disse che avrei proprio dovuto fare in fretta,
perché non sapeva quando
la fase di lucidità sarebbe finita ed era meglio cogliere
quell'occasione,
forse l'ultima, per dirgli ciò che avrei voluto dirgli. Per
dirgli addio,
aggiunsi io in silenzio.
Chiesi all'infermiera cosa avesse, e lei mi parlò
di una specie di malattia
neurodegenerativa, o qualcosa del genere, una sindrome con un nome
preciso che
non ascoltai nemmeno, perché ero troppo preso a cercare di
placare il rombo del
mio sangue nelle vene.
Non gli dissi mai addio. Non gli riparlai mai più.
Mi recai in ospedale e
rimasi fermo sulla soglia della sua camera, immobile, senza respirare.
Fui codardo ancora una volta, e non mi mossi di un millimetro.
Ero
atterrito, terrorizzato, straziato da quella vista così
patetica, così misera, così
profondamente morta.
C'era silenzio nella stanza, nel reparto, nell'ospedale
intero. C'era
silenzio dentro di lui, un silenzio assordante e vuoto, un silenzio che
mi
strappò altro silenzio e mi fece tremare le gambe.
Non era lui. Non era Cas, non era il mio Cas, quella creatura
emaciata e
cadaverica che sedeva in un letto e fissava il mondo fuori dalla
finestra,
quella creatura immobile e svuotata che, di tanto in tanto, veniva
scossa da un
tremito convulso. Le mani scheletriche, invecchiate, il volto scarno e
grigio.
Una giovane infermiera che cercava di imboccarlo a cucchiaini di brodo
vegetale, ma lui aveva sempre odiato il brodo e per poco non scoppiai a
ridere,
perché lì nessuno sapeva nulla di Castiel e
pretendevano anche di lasciarlo
morire in quel letto.
Piansi amaramente perché anche i suoi occhi, i suoi
bellissimi, meravigliosi
occhi, avevano perso la loro eternità.
Me ne andai e basta.
Without you I'm nothing.
Trovai il suo trenchcoat e un libro sulla mia veranda due anni
e mezzo dopo.
Il libro era Dell'amore e di altri demoni di
Márquez, ed era quella
stessa copia che lui mi aveva lasciato in biblioteca tanti anni prima,
e che
avevo custodito a lungo con me. In effetti non l'avevo più
ritrovato, e mi ero
sempre chiesto dove fosse finito.
Il suo soprabito aveva i lembi rovinati e il colletto
spiegazzato, ma era in
buono stato e portava ancora il suo odore.
Rimasi immobile sulla veranda con il libro e il suo trench tra
le mani per
quelle che mi parvero ore. Avrei voluto piangere ma non mi erano
rimaste più
lacrime, e non sapevo nemmeno cosa piangere perché di lui mi
erano rimaste
soltanto delle pagine ingiallite e una traccia sbiadita di profumo.
Scoprii in seguito che una frase, una sola, semplice frase,
era stata
sottolineata a penna con un tratto debole e tremante.
Per te nacqui, per te ho la vita,
per te morirò, per te muoio.
Una nota a pié pagina, quasi illeggibile, diceva
ciò che lui mi aveva già
sussurrato quella sera del nostro primo bacio, sotto i lampioni di una
stradina
deserta. Quelle parole che non ero riuscito a capire, quella frase
così
importante che si era persa nel silenzio dell'istante.
Sei il mio pezzo di eternità.
La frase era sbavata e tutt'attorno c'erano macchie scure.
Sorrisi. Aveva
sempre le mani sporche d'inchiostro.