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Autore: Margarinas    13/03/2016    0 recensioni
Lo squallore di una città, il ghetto del più brutto dei ghetti. Qui vive Yania, insieme a sua sorella Arbie. Un luogo destinato a marcire nel tempo, a sprofondare nel dimenticatoio, tra povertà, malvivenza e mafia. Quale ragazza di diciannove anni non sogna una fuga verso un posto migliore? Non Yania. Non c'è posto per lei in un mondo che non le appartiene, allora perché non cercare di rendere, se non felici, vivibili i momenti della sua giovinezza, all'ombra di una vecchia quercia, aspettando la fine?
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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E SE GLI ASTRONAUTI NON SOGNASSERO LE STELLE?

 Ero sdraiata a pancia in giù, sotto al letto. Stringevo convulsamente tra le braccia il mio peluche preferito. Mancava un occhio a quella brutta copia di un Pastore Tedesco, ma era, fin dalla mia nascita, il mio amico più caro. Mia sorella, di due anni più piccola di me, era di fianco a me, rannicchiata in posizione fetale con le mani sulle orecchie, perché così credeva che non avrebbe sentito nulla.
 Un colpo. Due. Tre. E poi urla. Era mia madre quella che urlava, ma avevo assistito a molte di quelle scene sa sapere che lei era completamente incolume, ovvio, se non si contava il dolore psicologico. Dolore che, le veniva provocato all'incirca ogni due settimane, quando mio padre, non riuscendo a pagare in tempo tutti i suoi debiti, veniva selvaggiamente picchiato dagli scagnozzi del suo aguzzino. Perché i veri signori non si abbassano a sporcarsi le mani per eseguire il lavoro personalmente.
 C'era anche da dire che se si vive nel quartiere più squallido, al di sotto del più squallido quartiere che vi viene in mente, non si poteva di certo pretendere di fare la bella vita. Non che non fosse colpa dei miei genitori, era ovvio, dovevano assurmersele, come io mi assumevo le mie. Nonostante ciò, trovavo oltremodo ingiusto che delle persone come noi, dovevano vivere così, e il resto del mondo chiudeva gli occhi e faceva finta di niente.
 Non ne potevo più di stare lì, sotto al letto, come se solo lì fossi al sicuro e nessuno avrebbe mai potuto prendermi, i ragionamente contorti di mia madre. Scivolai fuori, misi il buon caro e vecchio peluche sul letto e aprii la finestra facendo il meno rumore possibile. Non ero così scema da voler uscire fuori dalla mia stanza, entrare in soggiorno e prendere a pugni quei gorilla per proteggere mio padre. Avrei finito con il farmi ammazzare, o far ammazzare lui. Semplicemente a stare lì non avrei giovato a nessuno.
 «Dove vai?» piagnucolò mia sorella da sotto al letto.
 «Shhh» le feci io, saltando sul davanzale e quindi sulla scala antincendio al di fuori. Ero scalza e la grata mi fece male ai piedi. Richiusi la finestra e cominciai a scendere. Non avevo intenzione di scappare, ma volevo solo andarmene via per un po'.
 Camminai a piedi nudi fino alla periferia, non ci misi molto, visto che abitavo praticamente in periferia. La mia meta era un gigantesco prato, che distava pochi chilometri dal porto, la cosa più orrenda che potesse esistere, sempre pieno di gente rozza e odiosa, puzzava di pesce marcio e non potevi camminare nemmeno sulla strada asfaltata senza sprofondare in un liquame alquanto disgustoso. Eppure il Prato era l'unica cosa immacolata in quella città.
 Di giorno l'erba non aveva quel bel verde vivo, ma di un giallino tendente al verde, ma a me piaceva lo stesso, perché la terra era morbida e sapeva di terra, non di spazzatura. E cosa ancora più bella, non ci andava mai nessuno, tutti troppo occupati dalla loro miserabili vite per godersi qualcosa di vagamente bello nella nostra insulsa città.
 E poi al centro c'era una gigantesca quercia, doveva avere almeno 150 anni, era indistruttibile quell'albero. Metteva anche un po' timore, era come un guardiano silenzioso, un vecchio nonno burbero e severo che segue ogni tuo passo. Mi piaceva stare sdraiata sulle sue maestose radici a sonnecchiare, con le foglie che danzavano nel vento.
 Fu lì che andai. Mi arrampicai sull'albero con passo sicuro, nonostante fosse notte fonda, sapevo bene dove mettere mani e piedi, perché lo avevo scalato talmente tante volte che ormai era come se fosse casa mia. Ed era più casa quella che quello squallido appartamento in cui vivevamo. Salii fino in cima, sui rami più alti.
 Alzai la testa e volsi lo sguardo verso il cielo nero punteggiato da mille luci brillanti. Che cosa stupida le stelle. Di per sè le stelle non esitono, in fin dei conti ognuna di loro è un pianeta abitato da chissà cosa o disabitato. Eppure le persone si ostinano a volerle chiamare stelle, quelle così lì, che brillano lontane da noi, come per dire "Eh, guardami! Sono qui e tu se lì. Vieni a prendermi, piccola idiota!". Si prendono gioco di noi, quelle piccole stronze.
 Non ho mai pensato che gli astronauti sognano di poter vedere le stelle, andiamo, quale persona sana di mente vuole andare nello spazio per poter vedere... cosa? Una roba nera che è lo spazio e una piccola roccia che fluttua e poi si sgretole. Le suddette "stelle" non le vedranno mai, avrebbero potuto farlo benissimo da qui e non sarebbe cambiato nulla.
 Scendo dall'albero, contrariata. Probabilmente questi alieni di cui si parla tanto e che hanno queste tecnologie così avanzate si divertono a vederci scannare tra di noi per una misera moneta di rame come se ne valesse della nostra vita. Mi sdraio tra le radici del vecchio nonno brontolone e invece delle stelle mi metto a fissare le luci della città. Un alito di vento, l'erba ondeggia sotto ai miei piedi e mi fa solletico.
 Dovevo essere via già da un paio d'ore, decisi di tornare allo squallore più totale di casa mia. Salutai l'albero come se fosse un vecchio amico e tornai indietro. I miei genitori non si erano accorti di nulla, come al solito, troppo presi da loro stessi per potersi preoccupare di noi. Ammettiamolo, i miei genitori erano egoisti, se avessero veramente voluto il meglio per noi, be', ci avrebbero tirate fuori da questo buco non appena mia sorella avesse compiuto una settimana.
 Se l'essere umano non avesse questa brutta abitudine di voler soffrire e farsi vedere sofferenti per porter far sì che l'altro essere umano provi compassione, credo che il mondo sarebbe un posto migliore. O almeno, la mia famiglia sarebbe migliore.
 Mi infilo nel letto, di fianco a mia sorella, che si sveglia dal suo sonno agitato e si gira verso di me.
 «Dove sei stata?» domanda con la voce impastata dal sonno. Più curiosa che preoccupata.
 «Dormi» mi giro dall'altra parte, stringo al petto il mio peluche e chiudo gli occhi. Non voglio svegliarmi da un brutto sogno, voglio fare brutti sogni, di sicuro saranno meglio di questo.





 Buonasera gente!
 Era da un po' che non pubblicavo qualcosa, e pochi giorni fa mi sono ritrovata a scrivere questa, è una piccola storia che ho inventato anni e anni fa, principalmente perché volevo due protagoniste che fossero gemelle. Non ho idea di quanto andrà avanti, per adesso è solo una specie di esperimento.
 In ogni caso, spero che vi piaccia. :3

 Buona lettura a voi, lasciate recensioni se vi va, brutte o belle che siano. <3
 I biscotti sono sul tavolo lì in fondo --------------->
-Marga.
  
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