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Autore: Gondolin    29/03/2009    5 recensioni
-Come ti chiami?-
-Non mi chiamo.-
-Come sarebbe a dire “Non mi chiamo”?- chiese Aphrodite accigliato.
-Vuol dire che ho un nome idiota e ne sto cercando uno nuovo!- rispose il bambino con aria battagliera.
[...]
-Mi chiamavano Angelo- borbottò infine il bambino che ormai aveva un nome.
-E che c'è di così terribile?- domandò Aphrodite alzando un sopracciglio.
-E' stupido! Non ha senso! Io non sono un angelo, io sono un cavaliere!-
-E io non sono una dea- rispose Aphrodite flemmatico.


Tutti noi conosciamo il Cavaliere Aphrodite, ma chi era prima di diventare uno dei difensori di Atena? Come sarà stata la sua infanzia?
L'inizio nasce dalla mia personale curiosità, poi spero di proseguire narrando anche della sua vita da Saint, scavando dentro di lui, sbirciando nel suo cuore. E' una fanfic sperimentale, ho in mente di variare abbastanza lo stile e i contenuti a seconda dei capitoli. Il rating potrebbe salire (non credo, ma avverto, non si sa mai...)
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Cancer DeathMask, Pisces Aphrodite
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'La rabbia di amare'
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ATTENZIONE: Fic abbandonata in quanto long! Questo capitolo può comunque essere tranquillamente letto come one-shot.

Note: Questa cosa è un semplice ed umile omaggio a quello che alla fine è davvero diventato il mio cavaliere preferito, incurante della mia volontà che, se vi interessa (coro: no, non ci interessa! Aly: e io ve lo racconto lo stesso!) va verso i buoni eroici e tutti d'un pezzo come Albafica ♥, verso i Bronze della mia infanzia o verso Shaka e Asmita della Vergine.

È scorbutica e schizzata, che ci volete fare? Ma il senso della frase è che adora Aphrodite, ma aveva una voglia matta di nominare anche gli altri che le piacciono e sui quali per ora non è in grado di scrivere... ndCoscienza

Insieme a Dite però mi toccherà parlare di un altro personaggio... riuscite ad intuire quale? Sì, Deathy. Non gli voglio troppo bene (sarà che mi somiglia), ma insieme ad Aphrodite viene illuminato dalla sua luce, e riesco a scrivere (leggi: delirare) anche su di lui. Non so se sono in grado di farlo bene, ma mi impegno^^

Imploro perdono se ho scritto castronerie e assurdità varie, predono! Io e il canon non siamo molto amici... inoltre l'universo Saint Seiya è maledettamente complicato e pieno di incongruenze allucinanti (nel senso che mi danno davvero le allucinazioni *inizia ad inseguire farfalline dopo che il suo cervello si è spappolato su questo sito tentando invano di capire la cronologia di SS*). Le informazioni che non esistono in via ufficiale o che non sono riuscita a trovare le ho inventate di sana pianta. Inoltre per quanto riguarda le età dei personaggi... be', sappiamo tutti quanto siano improbabili, io ho seguito più o meno la linea del tempo originale quindi ciò che racconto è alquanto inverosimile. Ma noi amiamo Saint Seiya anche per questo, no?

Ho fatto del mio meglio, io personalmente posso ritenermi soddisfatta, ma vi prego di essere onesti e dirmi cosa ne pensate.

Naturalmente tutto questo assurdo sbrodolamento (non so se chiamarlo 'storia', perché è un esperimento) è dedicato al mitico Aphrodite (sia il Saint che la persona reale con questo nick con cui ho fatto amicizia nell'Elysium)... ed è nato tutto come un semplice racconto per il suo compleanno, ma poi la cosa è degenerata^^ (ovvero la mia personalità grafomane ha preso il sopravvento). E poi ci ho messo secoli a scrivere l'inizio, perché io ho le mie fisse sui momenti fondamentali da descrivere bene...



Nota fondamentale sul titolo: deriva da un romanzo chiamato The Life and Opinions of Tristram Shandy, non so nemmeno di chi, che non ho ancora letto ma che dovrò leggere, perché -me l'ha raccontato mia madre- mi somiglia: divaga dall'argomento principale per capitoli interi... e prende le cose molto alla larga: vedrete che lo faccio anch'io sin dal primo capitolo.



P.S. Che Atena benedica Google Maps, che supplisce splendidamente alla mia ignoranza in geografia.







Capitolo I “The Child He Never Had the Time to Be” – parte prima



Quando iniziò ad avvicinarsi il momento che le stelle avevano indicato per la rinascita della dea Atena, il Santuario era ancora sguarnito. Solo il Gran Sacerdote, Aiolos del Sagittario, Saga dei Gemelli e Doko della Bilancia lo custodivano. Era giunto il momento di iniziare la ricerca di coloro che sarebbero stati degni di servire la giustizia come cavalieri d'oro. Messi furono spediti in segreto in ogni parte del mondo per trovare i bambini predestinati e portarli al Grande Tempio.

I primi bambini dal cosmo ardente furono trovati in Spagna e Italia, poi in Svezia e a seguire un po' in ogni parte del mondo, dall'Europa all'America, dall'India alla Grecia.

I piccoli furono portati ad Atene ed ognuno, dopo aver ricevuto un primo addestramento, venne spedito nel luogo più adatto a proseguire la propria formazione come Saint di Atena in solitudine. Solo uno rimase al Grande Tempio: Aiolia, futuro cavaliere del Leone e fratello del nobile Aiolos, che fu anche suo maestro.

Ma la nostra storia parla di un altro dei bambini destinati ad un futuro di gloria e morte...



Aphrodite

Stoccolma, 10 marzo 1964



L'inverno quell'anno non accennava ad allontanarsi. C'era stato il dicembre più freddo degli ultimi sei anni e a marzo le temperature erano pressoché invariate. I vecchi mormoravano di maledizioni arcane, i meteorologi si interrogavano, i poveri morivano di freddo, i ricchi si godevano sciate sulla neve prolungata.

Una donna, in uno dei quartieri poveri di Stoccolma, osservava il cielo plumbeo. Per tutto l'inverno l'aveva osservato, una sensazione premonitrice l'accompagnava da tempo. Precisamente dal momento in cui aveva scoperto di essere incinta. Aveva riflettuto a lungo sul figlio che portava in grembo, chiusa nella sua povera casa mentre cercava di tenere buono uno stuolo di figlioli affamati ed attendeva il ritorno del marito dal lavoro. Per quanto di umili condizioni, da giovane la donna aveva avuto occasione di studiare, e per un periodo aveva sognato un futuro diverso da quello di sua madre e di sua nonna, e altre donne prima di lei. Poi la vita l'aveva trascinata con sé senza darle occasione di scegliere e lei si era ritrovata sposata. Ma quell'anno sentiva che qualcosa era cambiato. Sentiva che il figlio che aspettava era diverso dai suoi fratelli e sorelle. Era una cosa che non avrebbe saputo spiegare: era l'elettricità che le era corsa giù per la spina dorsale nel momento in cui era divenuta cosciente della sua esistenza, era il modo in cui il bambino si muoveva piano dentro di lei, erano gli strani sogni che affollavano le sue notti...

Sapeva che suo figlio avrebbe avuto un destino diverso dal suo, ma sapeva anche che lei avrebbe dovuto fare qualcosa perché quel destino lo trovasse. Il fato non si reca spesso a cercare i suoi prescelti nei quartieri poveri, si ripeteva la donna. Così, quando sentì che il momento del parto si approssimava, disse ai suoi figli di stare buoni e li baciò sulla fronte uno per uno, poi uscì nel gelo, coperta solo da un misero cappottino grigio.

C'era, dall'altra parte della città, un orfanotrofio tenuto dalle suore, che aveva anche un piccolo ospedale. La donna sperava che, se fosse riuscita a partorire lì, le suore avrebbero tenuto il bambino. Non pensò per un attimo di tirarsi indietro e tenersi suo figlio, perché in qualche modo sapeva che quel figlio non era solo suo, ma dell'umanità. Negli ultimi giorni spesso le erano tornate in mente delle leggende sugli eroi dell'antica Grecia e sui loro sacrifici. Aveva ricordato della dea marina Teti, che aveva cercato invano di nascondere suo figlio Achille dal fato per proteggerlo...

Mentre camminava faticosamente lungo le strade innevate e vuote nel tardo pomeriggio, un raggio di sole, l'ultimo della giornata, la inseguiva e si infilava fra i suoi capelli scomposti dal vento. Il raggio di sole a tratti la superava e sembrava indicarle il cammino con una freccia sul terreno, a tratti rimaneva indietro. Si arrestò poi sul muro di una casa, all'altezza di una finestra. La donna si fermò un attimo perché le si erano contratti i muscoli in uno spasmo doloroso e alzò gli occhi sulla finestra: all'interno scorse un vaso di vetro nel quale qualcuno aveva messo una rosa recisa. Una sola rosa rossa, che se ne stava lì con la corolla spalancata rivolta verso quell'ultimo raggio di sole e il gambo spoglio che si stagliava nell'acqua limpida del vaso. Sulla guancia gelida della donna rotolò una lacrima, una sola, sfuggita alla rete del suo orgoglio, per una nuova e dolorosa contrazione. Si raddrizzò a fatica e riprese a camminare a testa alta, lasciandosi alle spalle il raggio di sole ed inoltrandosi nella penombra della prima sera, verso l'ospedale ormai non lontano.

Quando bussò al grande portone dell'edificio antico le si erano già rotte le acque. Una suorina giovane e agitata la condusse verso le stanze adibite ad ospedale, poi corse a cercare un medico. La donna si lasciò cadere su un letto. Ora veniva il difficile, ma era anche al sicuro. Sorrise guardando il soffitto macchiato di umidità e si scostò dal viso una ciocca bionda. La sua vita non era stata facile, ma né la povertà né i dispiaceri avevano saputo strapparle una giovanile e dignitosa bellezza e un guizzo luminoso degli occhi. Il suo pensiero corse ancora alle leggende che aveva udito in gioventù sugli dei egoisti e perfetti, sugli eroi belli e coraggiosi.

Il dolore alle viscere si fece pian piano più insistente, quasi insopportabile. Intorno a lei si agitavano le suore, come macchie sfocate bianche e nere. La rassicuravano, le dicevano di spingere, di essere forte e resistere, e lei avrebbe riso, se ne avesse avuto le energie: sapeva bene come si metteva al mondo un figlio. Mise tutte le sue forze nell'atto dello spingere fuori da sé quel bambino che tanto le aveva dato da pensare. Avrebbe voluto tenerlo dentro di sé ancora un po', perché temeva il momento in cui si sarebbero dovuti separare, ma sapeva che era giusto così. Spinse forte, sperando che il dolore finisse presto. Si aggrappò con tutte le sue forze alle lenzuola, stringendole convulsamente con le mani bianche e sottili, troppo magre. Non urlò, ma strinse i denti. Il bambino sembrava aver fretta di uscire, eppure le stava strappando troppe energie, troppe per un parto normale... e allora la donna si rese conto di qualcosa che aveva sempre saputo ma che non aveva mai voluto ricordare: quel bambino avrebbe richiesto il suo sacrificio. Il destino voleva la sua vita in cambio di quella del bambino. La donna non ebbe paura, e strizzò gli occhi spingendo ancora. Era una donna coraggiosa, e conosceva il suo dovere. La sua vita non era stata speciale né importante; la sua morte lo sarebbe stata.

Mentre le forze scemavano da lei le leggende di una terra che non aveva mai visto ma che le pareva di conoscere da sempre presero a girare nella sua mente come in un caleidoscopio. Vide un mare azzurro, e degli occhi ancora più azzurri, e non seppe se erano gli occhi dell'Achille della leggenda o del figlio che la stava uccidendo. Vide una rocca alta e nobile e una dea scolpita che la proteggeva. Vide ombre oscure e stelle luminose stagliarsi su candide colonne. Dal suo letto in un piccolo ospedale di Stoccolma, osservò il cielo di Grecia e guardò incresparsi le onde di un'acqua cristallina per far nascere Afrodite, la dea del sorriso. E sorrise, guardando Zeus che rifulgeva maestoso, e il suo sorriso si increspò quando osservò grandi armi d'oro macchiate di sangue, ma strinse i denti e si morse le labbra pur di non piangere e non urlare.

E con un'ultima spinta straziante lasciò andare suo figlio. Respirò piano, perché non aveva neppure le forze per ansimare. Il medico si prese cura di lei, ma la donna era concentrata sul pianto del bambino, che risuonava alto e gracchiante nell'ampia sala.

-D... datemelo- balbettò.

-Ma lei è debole ora...- obiettò una giovane suora. Ma un'occhiata di una più anziana le disse che ormai per la donna non c'era più nulla da fare, e la giovane religiosa porse il bimbo alla madre. La donna osservò suo figlio, ancora sporco di sangue, che si agitava fra le sue braccia. Era piccolo, ma sembrava sano. Il suo corpicino di neonato era caldo contro il suo petto freddo. La madre si umettò le labbra screpolate e piagate dal freddo e mormorò: -Una dea... una dea...- con la preveggenza tipica di chi si avvicina alla morte. -A... Aphrodite- lo sentì dentro prima ancora di pronunciarlo, quel nome, lo sentì nella carne, lo sentì scorrere nelle proprie vene. Non conosceva i caratteri greci, ma seppe perfettamente quali aggraziate lettere avrebbero tracciato quel nome.

-Ma come?- insorse una delle suore.

-Aphrodite- ripeté la donna decisa. Aveva dato la vita per quel figlio e quelle donne dal ventre freddo avrebbero dovuto ascoltarla, che lo volessero o meno.



Servirà una dea... una dea...

Sarà un guerriero, ma sarà anche un dono... il mio dono all'umanità.

Non spargerà sangue anche se dovrà uccidere. Non insozzerà il mondo, e la fertile terra di Grecia...

La sua bellezza saprà ammaliare chiunque. La sua bellezza non sarà quella di un comune mortale, di un uomo qualunque. Gli do il nome di una dea perché si ricordi di me, in qualche modo, perché nel suo nome resti l'ombra di una donna... perché ricordi sempre che noi donne diamo la vita, e non sia troppo precipitoso nel dare la morte... sento morte nel suo futuro, tanta morte che lo appesta e getta ombra sul suo splendore. Ora la percepisco con più chiarezza l'ombra che incombe... per questo il suo nome deve ricordare la dea del sorriso. Dell'amore. Della bellezza.

Per questo gli regalo una parte di me, e ciò che sono.

Tutto ciò che posso darti è un nome, figlio mio. Fanne buon uso.



Άφροδιτε









Stoccolma, orfanotrofio di Väpnargatan (via Väpnar), dal 1964 al 1967



Alla fine le suore avevano dovuto cedere alla determinazione della coraggiosa donna.

Non riuscirono a farle spiccicare una sola parola, nemmeno il suo nome, finché non ebbero promesso di chiamare Aphrodite suo figlio. Ma allora, una volta ottenuta questa promessa, la donna si lasciò andare ad un sonno leggero, con il volto illuminato da un sorriso che poco aveva di terreno. E infatti pochi minuti dopo il respiro lasciò il suo corpo. Ma lei continuava a sorridere.



Il figlio per il quale la donna aveva lottato per lunghe ore crebbe come una piantina in fiore. Era di costituzione sottile, ma non fragile e già pochi mesi dopo la sua nascita si scorgevano in lui le premesse di una bellezza quasi ultraterrena. Aveva enormi occhi del colore del Mar Baltico in una giornata di sole, delicatamente ombreggiati da lunghe ciglia, e vaporosi capelli azzurri come il cielo che disegnano i bambini felici. Le sue guanciotte tonde erano di un pallore quasi nobiliare, e sulla destra, sotto l'occhio, spiccava un piccolo neo scuro.

Appena fu in grado di reggersi sulle gambette malferme iniziò a correre in giro con un'energia sorprendente che stremava le suore assegnate alla cura dei bambini della sua età. Iniziò presto anche a parlare, a fare domande assurde mangiandosi le parole e balbettando dolci sciocchezze come tutti i piccoli che scoprono il mondo per la prima volta. Ma c'era qualcos'altro nei sui discorsi sconnessi e nella sua curiosità: sembrava sempre che vedesse con chiarezza ciò che gli altri potevano appena intuire o immaginare. Bastava una mezza parola su un quartiere dall'altra parte della città perché lui iniziasse a fare domande su questa o quella strada che andavano in quella direzione, o il minimo gesto di uno dei suoi compagni perché Aphrodite intuisse ciò che provava.

Nessuno lì poteva saperlo, ma si preparava il suo futuro, il fato per cui sua madre si era sacrificata. Aphrodite iniziava già ad usare, seppure in maniera inconscia, il cosmo, con la sua immensa energia e le sue percezioni affinate. Si avviava inoltre ad essere un giovane dall'intelligenza vivace e intuito e malizia a palate.

Quando però il destino andò a bussare alla sua porta egli era ancora un bambino in cui la naturale allegria dell'infanzia già lottava con le ombre della solitudine. Solitudine poiché iniziava a rendersi conto del fatto che a lui mancava quella cosa apparentemente fondamentale chiamata 'famiglia', e solitudine poiché i suoi compagni avevano capito da subito che lui era speciale... ma 'speciale' nel vocabolario semplificato dei bambini significava 'diverso' e 'strambo'. Uno da cui stare alla larga. Uno che sapeva “fare cose strane” e aveva un nome “da femmina” non poteva portare altro che guai. E le suore avevano un bello sforzarsi ad inculcare nei piccoli il rispetto, l'accoglienza e la carità cristiana. Persino loro a volte, dopo aver diviso Aphrodite da qualcuno per una zuffa, si chiedevano perché quel bambino turbasse tanto gli altri piccoli, e perché sua madre avesse aggiunto ai suoi guai un nome tanto particolare.

Quando il destino fece capolino in Väpnargatan, Aphrodite non aspettava altro che di andarsene di lì, odiava il suo nome ed era ancora abbastanza ingenuo da credere che al mondo ci dovesse per forza essere un posto che lui potesse chiamare 'casa', un suo piccolo pezzetto di paradiso come quello descritto dal prete che diceva la messa ogni domenica.



-Come ti chiami?-

-Non mi chiamo.-

-Come sarebbe a dire “Non mi chiamo”?- chiese Aphrodite accigliato.

-Vuol dire che ho un nome idiota e ne sto cercando uno nuovo!- rispose il bambino con aria battagliera.

Il giovanissimo Saint di Pisces rimase per un attimo a bocca aperta, stordito dall'idea che si potesse cambiare il proprio nome come si cambiava un vestito. Il nome gli era sempre sembrato parte integrante di chi lo portava, forse a causa dell'idea sacra del battesimo. Se ci avesse pensato prima... ma scacciò in fretta quel pensiero e si rimproverò silenziosamente: aveva deciso di essere forte ad ogni costo, di sopportare, e avrebbe sopportato anche il proprio nome, al quale in fondo si era anche abituato. Se quel ragazzino dall'aria imbronciata non era abbastanza tosto da sbattere in faccia agli altri il suo nome peggio per lui.

-Io mi chiamo Aphrodite- si presentò, prima ancora che l'altro glielo chiedesse. Lo guardò negli occhi, il mento leggermente in fuori in segno di sfida, tendendogli la destra in un gesto formale. Il bambino senza nome gliela strinse con sguardo stupito. In quel momento aveva un aspetto quasi comune, senza la perenne maschera da duro, che però ricomparve quasi subito, appena passato il primo stupore. Aphrodite però aveva visto abbastanza da capire che quel viso avrebbe anche potuto essere carino se il suo proprietario avesse abbandonato il broncio.

Il bambino senza nome aveva una stretta d'acciaio. Stritolò per un attimo la destra di Aphrodite e poi ritirò la mano come se fosse rimasto scottato. -E' un nome da femmina- constatò, pur avendo capito che non gli sarebbe convenuto stuzzicare quel tipo.

-E' il mio nome, e non ti consiglio di ripetere quello che hai appena detto, per il tuo bene- ribatté Aphrodite riducendo gli occhi a due splendenti e pericolose fessure.

L'altro ragazzino sospirò. Era un attacabrighe, ma quel giorno non aveva voglia di litigare, avrebbe preferito andare a farsi un bagno approfittando dello splendido sole. -Dai, ti dico come mi chiamavano dove sono nato- concesse.

Aphrodite registrò mentalmente il fatto che nemmeno il ragazzino aveva definito 'casa' il luogo da cui proveniva. Camus non avrebbe chiamato 'casa' la natia Francia ma la Siberia che lo aveva cresciuto come una grande madre crudele, mentre Milo avrebbe definito con noncuranza 'casa' qualunque posto in cui si fosse fermato per più di due mesi. Shaka non avrebbe mai usato il termine 'casa' se non per riferirsi a quella che doveva custodire, e Mu avrebbe parlato a volte del suo palazzo in Jamir. Ogni cavaliere aveva una sua geografia personale, ma questo Aphrodite l'avrebbe imparato col tempo. In quel momento seppe solo che il bambino quasi senza nome era sradicato come lui.

-Mi chiamavano Angelo- borbottò il bambino che ormai aveva un nome.

-E che c'è di così terribile?- domandò Aphrodite alzando un sopracciglio.

-E' stupido! Non ha senso! Io non sono un angelo, io sono un cavaliere!- protestò vivacemente il ragazzino.

-E io non sono una dea- rispose Aphrodite flemmatico -Comunque il nome è tuo e puoi farne quello che vuoi. Quando avrai deciso come farti chiamare fammelo sapere.-



Ma il paradiso, per chi ci crede, si raggiunge solo dopo la morte e questo Aphrodite non l'aveva calcolato. Sebbene la sua intelligenza fosse superiore alla media, la speranza era ancora in grado di prenderlo in giro.



Il destino bussò all'orfanotrofio di via Väpnar con l'aspetto di una giovane donna dallo svedese stentato che sosteneva di essere una lontana parente di Aphrodite e di essere vissuta per anni in Grecia, ignara della sorte del bambino e di sua madre.

In quel momento, come accadeva spesso da alcuni mesi a quella parte, il futuro Saint di Pisces si trovava appollaiato su un vecchio muretto con lo sguardo fisso sul mare che si insinuava nella città con mille canali. Lo lasciavano uscire coi bambini più grandi, che andavano a giocare ad un isolato di distanza dall'orfanotrofio sulla sottile striscia di terra fra una grande strada trafficata e il mar Baltico. Aphrodite naturalmente se ne stava per conto suo, ed evitava il più possibile i contatti con gli altri, ma era segretamente grato della possibilità di uscire. Guardare il mare gli piaceva. Gli trasmetteva un piacevole senso di quiete. Non era però una quiete noiosa e immobile, ma bensì un perenne movimento che manteneva il suo instabile equilibrio con un suono alle volte dolce e altre scrosciante, con schizzi profumati di salsedine e riflessi del sole sulla superficie increspata dell'acqua.

Ad Aphrodite piaceva anche sentire la carezza del vento sulla pelle. Quando la forte brezza marina e gli mandava sul volto ciocche di boccoli azzurri, e gli premeva addosso i vestiti dandogli l'impressione di essere sul punto di spiccare il volo, quando il vento spingeva e soffiava furioso sui suoi palmi aperti tanto da dargli l'impressione di poterlo effettivamente toccare e catturare, allora ad Aphrodite veniva voglia di ridere. Non gli importava più di niente, e sorrideva chiudendo gli occhi verso il vento, immaginando di volare. Dimenticava i compagni e le loro prese in giro, dimenticava la nostalgia assurda per l'affetto mai ricevuto, dimenticava se stesso e la perenne lotta fra il senso di superiorità e la voglia di essere diverso. Aphrodite sorrideva nel vento, e socchiudeva gli occhi per godere dello spettacolo delle onde dalla bianca cresta schiumosa che dal misterioso orizzonte correvano verso la terraferma.

Ma Aphrodite amava il mare anche quando era tranquillo, e la brezza anche quando non era che un alito appena percettibile. Il vento e l'acqua erano suoi amici.

Nemmeno l'inverno gli impediva di apprezzare lo spettacolo, e il freddo non lo spaventava. I pizzichi dispettosi dell'aria gelida sulle guance non lo infastidivano, e per il resto era sprofondato in abiti caldi e confortevoli. L'unica cosa che non gli piaceva dell'inverno era il saporaccio del burro di cacao che le suore gli facevano sempre mettere prima di uscire perché le labbra non gli si piagassero per il freddo. Gli restava sulle labbra e lo tormentava fino all'ora di cena. Per quel motivo, appena rientrava correva a sciacquarsi la bocca.

E anche quel giorno, Aphrodite stava correndo verso il bagno. Ma un'anziana suora, una di quelle che l'aveva visto nascere, lo richiamò dal fondo del corridoio -Aphrodite, vieni qui, c'è una persona per te!-

Il bambino si voltò di scatto, sorpreso. Una persona per lui? Ci mise un attimo a digerire l'informazione. Era così stupito che non tentò neppure di immaginare di chi si trattasse. Tornò sui propri passi e raggiunse la religiosa, che lo guidò verso un salottino al quale di solito avevano accesso solo gli adulti. Seduta su un divanetto dai colori spenti stava una giovane donna dall'incarnato dorato. Appena vide entrare Aphrodite si alzò in piedi. Gli abiti comuni e quasi trasandati non riuscivano a nascondere un fisico scolpito ma non per questo meno femminile.

-Questa è la signorina che ti cercava- disse la suora in tono rassicurante -Si chiama Selinsa- la giovane fece un cenno col capo. L'anziana religiosa proseguì: -Ha fatto un lungo viaggio per incontrarti.-

Aphrodite ascoltò distrattamente. Tutto ciò che riusciva a pensare era che aveva ancora il cappotto addosso e stava morendo di caldo e che quella donna aveva qualcosa di strano. Ma cosa? Non era il suo aspetto, per quanto non fosse molto comune, soprattutto da quelle parti.

-E' una parente di tua madre- spiegò la suora. Il bambino si stava togliendo la sciarpa, e rimase fermo per un attimo. Nessuno gli aveva mai parlato di sua madre. Era strano che quella specie di fantasma fosse evocato dalle parole di persone vere, vive. Egli stesso non le aveva pensato spesso, perché non avrebbe saputo a cosa pensare. Selinsa sorrise timidamente, come a scusarsi di essere lì al posto di sua madre. Ad Aphrodite quel sorriso piacque molto, ma non seppe decidere se era sincero. Tutta colpa di quel qualcosa che gli sfuggiva, del mistero emanato dalla donna. Era come se potesse percepire la sua forza solo guardandola. Una sensazione davvero strana.











Note idiote: il piccolo e puccioso Dite vuole un pezzetto di paradiso... la cosa mi è venuta in mente ascoltando Piece of Heaven dei Cascada, che mi ha tormentato durante la stesura di questo capitolo... (lasciamo perdere la musica che ascolto ossessivamente quando scrivo... se sono messa male ascolto persino hardcore!) e nel paradiso cosa c'è? Ci sono gli angeli... e Aphrodite cosa troverà al Grande Tempio? Angel... ehm, Death Mask! *saltella*

E vuole un posto da chiamare 'casa'. La dodicesima, certo... ma diventerà davvero una casa in senso affettivo per lui?



Alle volte scrivo delle cose, e mi rendo conto rileggendole che prima di averle scritte non le sapevo. Di questo fatto ha parlato anche uno scrittore (Aidan Chambers) che è venuto nella mia città per una conferenza, e quando l'ha detto mi stava venendo da ridere perché io l'avevo appena scoperto, e l'avevo battezzato “Effetto Aphrodite”.



Se vi sembra di aver già sentito il nome 'Selinsa' è perché l'ho spudoratamente copiato da quello di una degli allievi di Aldebaran (quello di Lost Canvas).


  
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