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Autore: claws    19/03/2016    1 recensioni
I ricordi sono i tronchi più belli con cui si alimenta il fuoco della memoria: Marzia dovette morire e rinascere perché nella sua mente l’ossigeno stava finendo.
[Genderswap ovunque][Anne & Marzia][≈6100 parole]
Genere: Drammatico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Marco, Portuguese D. Ace, Smoker
Note: What if? | Avvertimenti: Gender Bender
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Note: Segno di seguito i nomi dei pg in genderswap, per evitare confusione.
Sono: Anne (Fem!Ace), Smoker (Fem!Smoker, perché a me pare un nome unisex, LOL), Marzia (Fem!Marco), Bianca (Fem!Barbabianca), Lucy (Rufy/Luffy, anche se non viene mai nominata).

Avverto: è una shot canon divergence, cioè una storia che si discosta dalla storia dell’opera originale. 

Buona lettura!





















I secoli del Sole




 

Marzia non aveva mai avuto un buon rapporto con quella vecchia palla di pelo che stava abusando della sua pazienza da più di tre anni. Non solo quel gattaccio le aveva sempre teso agguati anche a notte fonda, ma pure le miagolava addosso con l’insistenza che possed—no, aveva posseduto soltanto—

Inutile parlar male di quella stupida ragazzina che s’era fatta uccidere assieme all’Imperatrice loro madre: i morti non sentono la voce di chi vivrà per sempre con i piedi per terra.

In compenso, a ricordarle Anne e Bianca c’erano i suoi compagni, rimasti con lei su quell’isola dove avevano costruito le tombe della loro madre e della loro sorella. Tutti loro erano in attesa – perfino quello stupido animaletto peloso aspettava, e forse lui, più di tutti gli altri, sapeva in che cosa consistesse attendere.

 

I ricordi non seguono un senso cronologico. Quando non riescono più a stare in apnea, riemergono dall’oceano del subconscio per respirare e infestare i pensieri di chi si ostina a mettergli la testa sott’acqua.

 

 

«Marzia, spiegami un po’: quali sono gli effetti collaterali del diventare una fenice?» Anne aveva lo sguardo vispo, la bocca rossa e il tono di chi non ammette repliche. Voleva sapere e avrebbe saputo, lì e in quel momento. Per sottolineare meglio il concetto, si avvicinò ancor di più a Marzia e la guardò attentamente negli occhi. «A parte non poterti ubriacare, ovviamente. Quello già lo so.»

«Essere chiamata mamma chioccia, ad esempio» rispose Marzia, sbuffando.

«Ti va bene che non sei maschio. Chissà quali altre storie si sarebbero inventati, altrimenti!»

Anne aveva una risata scherzosa, ma mai cattiva, quando si trovava sulla Moby Dick. Sotto il sole di mezzogiorno faceva venire voglia di ridere assieme a lei, nonostante il sudore, nonostante l’apatia.

«Poi ho un pessimo rapporto con i felini.»

«Più o meno» esclamò Anne, appoggiando il mento sulla spalla di Marzia, «tu Maldestro lo tratti benissimo, anche quando ti fa gli agguati. Dovresti vedere Satch, come lo insegue minacciandolo di farci un salame!»

«Non si chiama Maldestro, e lo sai.»

«Silvestro per me non ha senso. Maldestro sì. L’hai visto, quando cerca di cacciare qualsiasi cosa! Non saprebbe prendere neanche un pesce fuori dall’acqua!»

«Non dovresti tarpargli le ali in questo modo.»

«A te non le hanno mai tarpate, le ali, o sbaglio?»

Marzia stava per scrollarsi di dosso quella ragazzina troppo invadente, ma Anne anticipò le sue mosse e le acchiappò un braccio tra i propri, stringendo forte. «Non scappare. Io mi stavo annoiando e tu hai un sacco di cose interessanti da raccontare.»

«D’accordo, eh» disse Marzia, passandosi una mano sulla fronte, «facciamo un patto: ti racconto un’ultima cosa e poi mi lasci in pace, almeno per oggi.»

«Solo se è una cosa importante.»

 

Non avrebbe mai dovuto dirle nulla di tutta quella storia – la propria storia. Ma Anne, col trascorrere del tempo, era diventata una sorta di migliore amica o di miglior confidente e Marzia sapeva che di lei poteva fidarsi, soprattutto dopo che Anne confessò a Bianca e a tutto l’equipaggio di essere figlia del Re dei Pirati.

 

Smoker, dopo diversi anni di servizio a Loguetown e la nomina a capitano, aveva finalmente trovato un degno avversario al proprio sguardo minaccioso.

Quel gattaccio che gironzolava per la base della Marina era benvoluto da tutti i soldati, vista la quantità di cibo che gli veniva lasciata da parte dopo i pasti principali alla mensa. Una ragazza che lavorava in cucina lo aveva chiamato Ramingo, ma tutti lo conoscevano come il gattaccio: non si sapeva da dove diavolo fosse arrivato e come fosse riuscito a ritagliarsi uno spazietto nel cuore di tutti, ma forse era colpa dei suoi occhi verdissimi, dei suoi baffi arricciati e del suo pelo maculato e ricciolino – sembrava una pecorella quando Tina, la ragazza della mensa, riusciva a convincere Ramingo a farsi accarezzare. Il suo muso aguzzo e il suo corpicino slanciato suggerivano un’ascendenza nobile, da vero gattaccio selvatico, ma quello proprio non sembrava avere nessun talento per la caccia.

Ramingo aspettava, seduto negli angoli della caserma. Aveva il portamento elegante dei felini che sono ben consapevoli di chi sono e lo sguardo di chi, con il naso puntato verso l’orizzonte, aspetta.

Smoker, per la maggior parte del tempo, non si curava di quell’animale: a volte, però, nella palestra il gattaccio andava a riposare. Un pomeriggio, mentre Smoker era impegnata con i propri allenamenti, vide Ramingo con la coda dell’occhio e dopo un momento di quasi perplessità la marine si mise a osservare quel pigrone che amava accoccolarsi sul pavimento caldo. Il gatto, con tutta la nonchalance della specie felina, aprì un occhietto, poi l’altro, quindi fissò con insistenza la donna.

Si dice che i gatti capiscano molto dei loro umani: Smoker ebbe una strana sensazione di appartenenza – al gatto, alla palestra, all’attesa, non le fu ben chiaro, fu una percezione talmente effimera che anche lei non riuscì a definirla –, infine Ramingo si alzò, si stiracchiò e scomparve.

Da quel giorno nessuno vide più Ramingo alla caserma di Loguetown. Smoker ricordava perfettamente quel pomeriggio, visto che una mezz’ora dopo fu dato l’allarme: una nave con un jolly roger e una ciurma di una decina di individui aveva attraccato al porto e chissà che cosa avrebbe combinato sull’isola, se i marine non fossero intervenuti.

 

«E tu chi saresti?»

Il gatto miagolò e si leccò una zampina per pulirsi il muso. Anne, irritata da quella mancanza di educazione, prese il gatto da sotto le ascelle e lo sollevò per aria: quello, in risposta, miagolò più forte, come se fosse un avvertimento, prima di cercare di graffiare quella stupida umana che lo stava mettendo in ridicolo in quel modo.

«Ehi, ma che caspita—! Senti, gattaccio, smetti subito di comportarti così! Ormai sei su questa nave e qui rimarrai, capito? Ma guarda un po’ che razza di animale che mi son ritrovata! Tutto per colpa di quelli della Marina che ci hanno fatto fare tutto di corsa, giù a Loguetown!»

Il felino, messo di nuovo a terra, guardò Anne con l’aria attenta di un predatore.

«Facciamo così, gattaccio. Tu ti rendi utile sulla nave e ti teniamo con noi: se rimani a far nulla tutto il giorno, ti lasciamo sulla prima isola che troviamo, hai capito?»

L’altro, arricciando la coda corta, sembrò capire.

«Bravo gattaccio.» Esclamò Anne, facendogli una linguaccia.

 

Anne, se mai fosse arrivata a cinquant’anni d’età, sarebbe diventata una signora: questo perché le vere signore non sudano mai, e il potere di Anne faceva sì che il sudore evaporasse appena fosse stato secreto dalla pelle. Per questo poteva permettersi di abbarbicarsi a Marzia anche nelle ore più calde della giornata e gesticolare animatamente senza ripercussioni.

«Su, racconta. Prometto che non lo dirò a nessuno.»

Marzia si sistemò semiseduta su una stuoia, in maniera da essere abbastanza comoda anche nel momento in cui quella ragazzina scimmietta (perché era curiosa come una scimmia, dopotutto) avesse deciso che le gambe di Marzia erano il cuscino più morbido sul liscio dei sette mari. Neanche fece in tempo a pensarlo che subito la giovane aveva reclamato il proprio cuscino preferito, ridacchiando come una bambina che è riuscita a spuntarla su un giocattolo o un dolcetto. Sdraiata con la testa sulle cosce di Marzia e con le gambe accavallate, Anne sembrava pronta a una giornata da lucertola sulla spiaggia, eppure dietro la sua spontanea allegria c’era attenzione e un certo grado di riservatezza – era impossibile stabilire quante questioni Anne tenesse per sé, ma sicuramente qualche incertezza e dubbio rimanevano nascosti dietro la sua treccia scura e le sue lentiggini.

«Dopo aver ottenuto i poteri della Fenice, ho cercato più informazioni possibili riguardo le abilità che avrei potuto sviluppare. Leggende, miti, documenti di persone che dicono di aver visto una fenice volare nel cielo, eh. Tutto quello che riuscivo a trovare.»

«Cosa hai scoperto?»

Quando Marzia prese un profondo respiro, sentì Anne dire qualcosa di stupido come «Ooh, mi balla la testa!», forse per eliminare la pressione di quel segreto un po’ inquietante. «Dalle leggende sembra che una fenice viva per cinquecento anni, e che esista una sola fenice alla volta nel mondo.»

Anne si era voltata per guardare Marzia negli occhi. Cominciava a capire quali fossero i veri problemi collaterali che la donna avrebbe dovuto sopportare: allo stesso tempo, però, non poté non chiedersi se dietro a tutti i miti del mondo ci siano dei fondi di verità.

«Al termine della vita, quando sente che sta per “morire”, si dice che la fenice voli presso un’isola e lì, su una palma, stabilisca il proprio nido, fatto con franchincenso, mirra e incensi profumati.»

Dopo una risata sottile, non cattiva, Anne sbatté le palpebre in maniera molto teatrale e disse: «Insomma, sei una mamma chioccia pulita, di che ti lamenti?»

Come poteva non sorridere? Anne se ne inventava sempre una per avere l’ultima parola. Entrambe sapevano che si trattava di un gesto di difesa, ma non era nulla di male. Dopo aver tentato di uccidere Bianca diverse volte, Anne aveva imparato a proteggere i propri fratelli e la propria sorellona preferita.

«Poi, quando è tempo, la fenice si consuma nel proprio fuoco, in mezzo al fumo degli incensi accesi. Dalle ceneri poi rinasce e porta il corpo del “genitore” presso un tempio sulla Rotta Maggiore, sembra nel Nuovo Mondo.»

«Cos’è che ti turba di tutta questa storia, Marzia? Sono leggende. Non è detto che tutto quello che c’è nelle leggende sia poi realtà. D’accordo, magari hai capacità rigenerative da far paura, ma mica tutto quello che dicevano i matti è vero.»

La donna tirò fuori un modesto sorriso. Si ricordava bene il tempo in cui Anne aveva deciso di raccontare la propria storia dall’inizio, ed era stato bello poter far parte delle sue insicurezze per irrobustire le certezze che erano nate sulla Moby Dick. Era un bel sentimento da conservare e da avvertire appena sopra il diaframma, dove il cuore fa le capriole.

«Forse hai ragione.»

«Io ho sempre ragione. È che ancora nessuno l’ha capito, su questa nave.»

Marzia sbuffò, ma non perché era arrabbiata o annoiata: forse piuttosto era una risposta non verbale alle provocazioni innocue di Anne. «Va bene, va bene, non infervorarti.»

Anne la fulminò con lo sguardo.

«È solo un modo di dire.»

«Ah, ecco, mi sembrava.» Disse la giovane, arrampicandosi come un bruco fino a essere faccia a faccia con Marzia. La fissò per un po’, come fanno i gatti nella penombra (con le pupille dilatate e una smorfia di curiosità), poi decise che quella posizione non era per nulla comoda e scivolò di nuovo a sdraiarsi sulle gambe di Marzia. Sì, erano decisamente il suo cuscino preferito: riuscì a pensare questo, prima di addormentarsi di colpo per il pessimo tempismo della propria narcolessia.

Silvestro, che dopo il riposino pomeridiano era salito sul ponte a causa dell’inconfondibile odore di pennuto (si scoprì che era l’odore di Marzia, ma gli animali sono creature incredibili), adocchiò le due donne vicine alla parete del corpo principale della nave. Il suo istinto predatorio lo convinse che Marzia sarebbe stata un’ottima merenda, per cui si acquattò ai piedi delle scale che portavano sottocoperta, con le orecchie tirate indietro e il naso ad annusare il vento. Quando balzò all’attacco di Marzia Anne si era finalmente risvegliata dal breve pisolino narcolettico: inutile dire che Silvestro Maldestro finì con gli artigli sulla faccia di Anne e, come tutte le volte precedenti, la sua preda riuscì a sfuggirgli.

O meglio: la sua preda sbuffò (di nuovo, ma questo Silvestro non poteva saperlo) e, per calmare la battaglia che sarebbe sicuramente scoppiata, decise di fare un po’ di coccole alle due litiganti. In realtà aveva cominciato con dei grattini sulla testolina del nobile selvaggio e con delle parole di conforto alla giovane furibonda; alla fine, qualche minuto dopo, Marzia aveva le mani occupate in grattini sulla testa di entrambi quei maldestri animaletti. Sia il gattaccio sia la scimmietta apprezzarono moltissimo quelle coccole dalla loro mamma chioccia, nonché preda prediletta di scherzi o di agguati finiti male.

 

 

Ragazzina buffa, tu che hai toccato la vita di così tante persone in così tanti mondi—

 

Aspetteranno. Anche quando tu sarai polvere, loro aspetteranno di diventare polvere, come te, e il loro desiderio sarà quello di mescolarsi alle tue ceneri nel vento che soffia tra le palme e che vola radente su tutti i mari e le montagne del mondo.

È un’armonia celeste; la consapevolezza della morte, sempre vicina, sempre col suo fiato scuro sul collo; un istinto animale; una paura che anche per i protetti del Diavolo più potenti rimane atavica.

 

 

C’era uno strano contrarsi e rilassarsi nel suo petto. Erano trascorsi più di due anni da quando Smoker aveva avvertito quella specie di ipertensione delle arterie coronarie – si ricordava benissimo chi fosse stata la causa di quella sensazione.

Quando ad Alabasta si era scontrata con Pugno di Fuoco aveva percepito quella stessa sensazione: per una persona consapevole di se stessa come Smoker era impossibile confondere un’emozione con un’altra, per cui ne era certa – qualcosa stava chiamando il suo potere. Il suo fumo si rimestava nel sangue e dei piccoli viticci grigi si staccavano dal suo corpo senza che lei lo volesse, disperdendosi nell’aria, lasciando una traccia di odore di sigaro. Non era qualcosa dovuto alle ferite che aveva riportato a Punk Hazard: era la stessa sensazione di quando si incontra un potere o un’energia affine alla propria.

Come il fuoco del Diavolo, anni prima, l’aveva profondamente turbata – non che avesse poi reagito in altra maniera oltre a inseguire Cappello di Paglia e Pugno di Fuoco a Nanohana, ma era stato comunque uno sgomento non indifferente –, allo stesso modo qualcos’altro premeva sul suo sangue e sul suo fumo.

«Tashigi!» Gridò allora, ficcandosi un sigaro acceso in bocca.

Avrebbe seguito quel richiamo fino in capo al mondo – fino alla fine della Rotta Maggiore, se necessario. Tanto la marmocchia col cappello di paglia che Smoker stava inseguendo sarebbe comunque arrivata laggiù, e unire l’utile al giusto era stato da sempre la sua missione.

 

 

Marzia non aveva mai avuto un buon rapporto con quella vecchia palla di pelo che stava abusando della sua pazienza da più di tre anni: eppure, da quando una presenza insopportabile si era fatta spazio nella sua vecchia mente, non poteva fare a meno di provare sintonia con Silvestro.

Su quell’isola lontana nel Nuovo Mondo, dove erano state sepolte Anne e Bianca, Marzia aspettava: forse aspettava Rufy, forse Shanks, forse semplicemente che tutti i suoi fratelli e sorelle si riprendessero dalla morte della loro madre e della loro più amata stella, prima di riorganizzarsi per combattere contro Barbanera.

In un momento di profondo smarrimento – di quelli che fanno venire i capogiri e la disperazione più nera e irragionevole – si era alzata dal proprio letto e, mettendo un piede a terra, aveva schiacciato la coda di Silvestro. Vista si svegliò con uno scatto nervoso e Marzia aveva sorriso come aveva potuto, poi era uscita dalla loro stanza ed era andata a visitare le tombe di due dei suoi più grandi amori della vita (e lei aveva vissuto molto a lungo, molto più di quanto un normale essere umano potesse sperare di vivere).

Silvestro, gattaccio rumoroso e incapace, l’aveva seguita trotterellando con la grazia tipica di tutta la specie felina: le sue zampette color crema si sporcarono di fango bagnato ma, dal momento che il sangue di gatto selvatico scorreva profondamente in lui, non se ne preoccupò. I suoi baffi arricciati si drizzarono all’indietro e si mosse tenendo il baricentro del corpo basso, come un grande felino che sta cercando di catturare una gazzella nella savana.

Come Silvestro, anche Marzia aveva un obiettivo: gli alberi poco distanti dalle tombe di Bianca e Anne. Inizialmente non aveva fatto molto caso a che tipo di piante ci potesse mai essere sull’isola, ma un giorno Shanks, con una pessima battuta che avrebbe dovuto servirgli per qualcosa come flirtare con Marzia, le aveva fatto notare che si trattava di palme.

(Era una battuta stupida riguardante il verbo impalmare. Quell’uomo aveva davvero un pessimo gusto in fatto di giochi di parole.)

Le palme. Come nelle leggende. C’era stata una sorta di interferenza, nel suo cervello, come un disturbo su una frequenza di onde radio: ci aveva messo del tempo per capire che si trattava del suo essere una protetta del Diavolo e del fiato sul collo che l’aveva sempre spinta a muoversi.

Erano trascorsi due anni da quando erano arrivati tutti insieme su quell’isola. In due anni non si era spostata, come invece aveva sempre fatto per molto tempo.

Una vita così lunga non poteva esserle stata data perché rimanesse in attesa. Ventiquattro mesi trascorsi ad aspettare l’avevano resa una sottile ombra di quello che era stata quando Bianca e Anne erano vive.

Silvestro, nel frattempo, si era seduto di fronte alle due tombe, più o meno all’altezza dei bicchierini e del ritaglio di giornale che ancora trovavano posto presso il cappello e il coltello di Anne. Aveva miagolato un paio di volte per attirare l’attenzione di Marzia, ma la donna, stupida umana che cova le uova, si era diretta verso il piccolo palmeto.

La brezza marina le stropicciava appena i capelli.

 

«Sai che hai una bella voce, Marzia? Perché non canti più spesso?»

«Quando ero giovane ero stonata come una campana.»

«Come una cornacchia, vorrai dire.»

«Poi ho mangiato il frutto della Fenice e ho imparato a cantare.»

«Cioè, in pratica sei come un usignolo, no?» Domandò Anne che, quella volta, aveva pensato bene di usare la spalla di Marzia come un cuscino cilindrico per la corretta postura della schiena (d’accordo, forse non funzionava per evitarle il mal di schiena, ma era Marzia, e Marzia equivaleva a comoda e buona, per la maggior parte del tempo). La cosa più buffa era Silvestro Maldestro: dopo l’ennesimo agguato finito male si era seduto accanto a Marzia e miagolava, mentre lei canticchiava la prima canzone che le era venuta in mente.

 

Marzia cantava Il liquore di Binks solo quando erano soddisfatte tre condizioni: quando era da sola, quando era sicura che nessuno l’avrebbe sentita e quando era giù di morale. C’erano poi le eccezioni, come lo era stata Anne. Visto che in quel momento tutte le condizioni c’erano e la stavano pregando di far vibrare le pliche vocali, Marzia si mise a cantare.

Silvestro la sentì anche da lontano e l’ascoltò con il musino triangolare e stretto rivolto verso il cielo, forse incuriosito dalla forma di un cumulonembo passeggero.

 

 

«... Tanto presto o tardi saremo ossa e nulla più, senza fine e senza meta, una storiella e tutti giù—» E uno «Yohoho» l’accompagnò nella trasformazione nella sua forma Animale, che le permise di spiccare un agile salto sulla cima di una palma.

 

«Madre, io sono sempre vicina a te, e ti saluterò ogni volta che te ne andrai – e tu sei me, e io sono te. Siamo un’unica storia e tu sarai sempre nel mio cuore.»

 

 

«Non sono qui per combattere.» Aveva detto Smoker, non appena era stata accolta da un folto gruppo di uomini e donne della ciurma della defunta imperatrice Bianca. «C’è del fumo, su quest’isola. Sono qui per quello.»

Vista stava per ribattere, ma Marzia fu più veloce.

«Non c’è nessun fumo né fuoco acceso.»

«Per essere precisa, sto cercando qualcosa che, quando brucia, fa buon odore. Un incenso profumato. Non so se stia bruciando al momento, ma forse ha bruciato in precedenza. È stato quello a condurmi qui.»

«E anche se ci fosse, che cosa ne faresti?»

«Immagino che lo saprei soltanto se l’avessi davanti agli occhi.»

Al fianco del viceammiraglio della Marina, qualche passo dietro a lei, c’era un’altra donna con occhiali e spada nel fodero. Il resto dell’equipaggio doveva essere rimasto sulla nave dei marine. La donna – forse più una ragazza, ancora – sembrava tesa, preoccupata: il suo sguardo ondeggiava tra quelli della celebre ciurma della defunta Imperatrice come se non riuscisse nemmeno a vederli bene (ma non era colpa della paura, bensì della sua pessima vista: infatti Smoker disse subito a Tashigi di inforcare gli occhiali).

«Se non abbiamo ancora colpito voi e la vostra nave è soltanto perché potreste avere ostaggi interessanti e farli colare a picco potrebbe non essere una buona idea. Parlate.»

La ragazza si sentì presa in causa e disse: «Stiamo riportando dei bambini alle loro case. Ci sono stati affidati dalla Gatta Ladra a Punk Hazard.»

«Tashigi, sta’ zitta.»

«Bambini? Siete passati dall’uccidere dei giovani adulti a rapire dei bambini? Con cosa continuerete, con armi di distruzione di massa?»

«Come ha detto la mia seconda, si tratta di un’operazione di salvataggio. Quei bambini erano stati rapiti da uno scienziato per i suoi esperimenti.» Poi Smoker s’accese un sigaro: l’isola era quella giusta, ne era certa, per cui poteva anche riprendere a fumare come suo solito. «Non siamo qui per spiegarvi i nostri obiettivi, né per ostacolarvi in qualunque cosa voi stiate organizzando.»

«Difficile da credere» rispose Marzia «siete soldati della Marina e ufficiali del Governo Mondiale.»

«Non è stato uno stupido del Comando a mandarmi qui in missione. È stato il mio potere ad attirarmi qui.»

«Non ho intenzione di fidarmi dei marine.»

Marine che erano stati presenti all’esecuzione di Anne e di Bianca, per la precisione.

«Tch.» Disse quella, dopo un altro tiro di sigaro. Sollevò un braccio sopra la spalla e strinse il colletto della lunga giacca da viceammiraglio, tirò e se la levò di dosso. La consegnò a Tashigi con l’ordine di tornare sulla nave, di tacere sulla questione e di attendere il suo rientro – ma di quello avevano già discusso: nel caso Smoker non fosse tornata Tashigi sapeva già che cosa scrivere nel rapporto. «Non sono qui in veste di soldato, ma in veste di civile. Di persona che ha i poteri del Frutto del Diavolo.»

Prima che Marzia potesse rispondere, quell’impiastro di Maldestro si fece vedere mentre cercava invano di catturare un uccellino, che era volato via non appena aveva avvertito il pericolo. Silvestro, miagolando la propria frustrazione, attirò l’attenzione di Smoker.

Impossibile confondere quel gatto con qualsiasi altro esemplare della specie felina.

«Ramingo...?»

Come tanti anni prima, Smoker e Silvestro ripresero il loro scontro di sguardi. Pur da lontano, si erano entrambi riconosciuti come i più grandi rivali in occhiate che uccidono.

 

Buffo da credere, ma alla fine Silvestro si era rivelato tutt’altro che inutile, per Smoker. Tashigi era risalita sulla loro nave per prendersi cura dei bambini e aveva portato con sè la jitte e la giacca del viceammiraglio. La sua superiore era rimasta sull’isola a combattere contro le occhiatacce del gattaccio e quelle della Prima Comandante di Bianca, che era perfettamente in grado di sostenere gli sguardi fulminanti di qualsiasi persona sulla faccia della terra e del mare.

Il vento si era sollevato di nuovo. Avevano scelto quell’isola anche perché la brezza che vi soffiava era molto piacevole – e sia Bianca che Anne avevano amato molto il vento fresco che sospinge avanti le navi.

Marzia accompagnò Smoker al palmeto, evitando accuratamente di avvicinarsi alle tombe di Anne e Bianca. Non poteva certo fidarsi di quella donna marine, ma preferì esaudire quel desiderio piuttosto che dover combattere (e far combattere tutti i suoi fratelli e sorelle) contro un’intera nave di soldati, che poi avrebbero chiamato altri soldati, in un modo o nell’altro... Certo, avrebbe potuto uccidere Smoker. Tuttavia quella s’era perfino fatta mettere un paio di manette di agalmatolite pur di farsi condurre nel luogo dove c’era l’incenso profumato: il suo coraggio andava apprezzato, no?

Silvestro le aveva precedute, trotterellando fino ai piedi della palma incriminata. Sulle grandi foglie era sistemato un nido piuttosto imponente, costruito in maniera tale per cui il vento dell’isola non lo facesse né spostare né cadere. Il gatto, forse pensando che ci dovessero essere delle uova, forse annusando l’odore di una preda, spiccò un salto elegante da fermo, con uno scatto magnifico: sfoderando gli artigli cominciò ad arrampicarsi su quella ruvida parete verticale, sotto lo sguardo perplesso di una e preoccupato dell’altra.

«Silvestro—!» Marzia acchiappò il gatto per le ascelle prima che l’animale potesse raggiungere la cima della palma e far razzie nel nido – nel suo nido, per l’amor del cielo. «Non si fa. Pensa a chi deve viverci, in quel nido.»

Certo il gatto non poteva capirla a parole, ma gli fu chiaro l’avvertimento di Marzia.

«Adesso ti chiami Silvestro, eh, gattaccio?» Disse Smoker, sbuffando per il divertimento. Silvestro, a cui Smoker non era mai piaciuta molto, si dimenò tra le braccia di Marzia e, una volta a terra, pensò bene di soffiare contro la marine, rizzando la coda e tutta la pelliccia ricciolina. Sembrava un temibile batuffolone di cotone, per far capire quanto Smoker avesse paura del gattaccio – infatti lo ignorò senza problemi e si occupò invece del nido sulla palma. «Era lì l’incenso che bruciava?»

Marzia annuì. «Franchincenso, mirra e altri cristalli profumati.»

«Perché li avete accesi?»

«Non ho motivo di risponderti, giusto?»

«Giusto.» Poi Smoker scrollò le spalle, sbuffò per l’ennesima volta – per fastidio, però – e dopo un lungo momento di riflessione aggiunse: «Perché ti sei costruita un nido su una palma?»

«Tu dovresti smettere di fare domande, eh. Non ti porteranno molto lontano, se continui così.»

«Ho già ricevuto la mia lezione infinite volte, sul finirla di far domande. Spiacente. Forza dell’abitudine.» Si avvicinò alla palma e ne toccò il tronco: sembrava un normale albero, non c’era nulla, nella corteccia, che sembrasse chiamarla. Il segreto doveva essere nei profumi adagiati sul fondo del nido: quelli sì che stavano cercando il suo fumo, spento dalle manette di algamatolite. Ch. Che razza di seccatura, quegli affari ai polsi! Avendo trascorso la vita a mettere le manette agli altri, su di lei bruciavano ancora di più. «Qual è il motivo per cui lo hai costruito? So quali poteri hai – li ho visti a Marineford. So che i possessori di poteri dei Frutti sono costantemente sfidati dai poteri stessi, perché capita anche a me.»

«Se già sai tutte queste cose, marine, non chiedere altro.»

Silvestro, gattaccio curioso, fece finta di ascoltare la discussione di quelle due stupide umane e nel mentre girò attorno alla palma, sedendosi nell’angolo cieco della visione di Marzia. Guardò Smoker, che non lo degnò di attenzioni, quindi si preparò a una seconda imboscata al nido: si aggrappò al tronco della palma e piano, facendo meno rumore possibile, si arrampicò fino ad arrivare al fogliame dell’albero. Il vento si sollevò e le fronde cominciarono a sciabordare, ma il nido iniziò a muoversi soltanto quando Silvestro si fu intrufolato in quel rifugio di ramoscelli e fili d’erba.

«Silvestro, accidenti!»

Marzia non fece in tempo ad acchiappare di nuovo il gatto: Silvestro Maldestro, confuso da tutti quegli odori che all’inizio sembravano – al suo naso, perlomeno – quelli di un lauto pranzetto, emise un miagolio sofferente prima di lanciarsi giù dalla palma, finendo direttamente in braccio a Smoker. Come già in passato, Silvestro graffiò senza troppi complimenti faccia e braccia della malcapitata prima di correre via a gran velocità.

Il danno, però, era ormai fatto. Parte degli incensi profumati era stata rovesciata per terra, ai piedi della palma. Marzia, sinceramente, pensò che quei due erano in combutta, perlomeno prima di vedere quanti graffi aveva riportato Smoker.

«Il gattaccio era un pericolo pubblico anche a Loguetown.» Disse Smoker, più a se stessa che a Marzia. Poi leccò la punta del proprio indice e la intinse nella polvere, perché qualche residuo di incenso ci rimanesse attaccato. Quando se la portò sotto il naso per annusarla, Smoker capì molte cose che non aveva notato quando era distante, sulla nave, quando solo il richiamo del fumo la spingeva sul mare.

Odorava di morte e di rinascita. Con gran fatica recuperò l’accendino dalla tasca, ma se lo vide requisire da Marzia quando quella smise di volare attorno alla palma e toccò di nuovo terra. Aveva cercato di limitare i danni, ma quel maldestro di un Silvestro l’aveva combinata grossa.

«Non ci provare.»

«Il fuoco» disse Smoker «è come se, bruciando l’incenso, potesse venirne fuori la morte sotto forma di fumo. Ma tu sei viva. Cos’è successo?»

 

«Marzia, da quanto tempo vivi?» Aveva chiesto Anne, a occhi chiusi, contenta che le mani di Marzia le stessero pettinando i capelli per farle la treccia. Erano sedute in ginocchio una davanti all’altra, sul ponte, a farsi scaldare dal sole di un’isola estiva.

«Non si fanno domande così generiche a una persona che ha vissuto più di quanto tu puoi sperare di vivere.»

«Scusa, sai. Non volevo chiederti “Quanti anni hai?”, perché mi hanno insegnato che non si chiede mai l’età a una signora. Non così schiettamente, almeno.»

Marzia non poté non ridere davanti a tutta quella sincerità. I capelli neri di Anne scivolavano in ricciolini morbidi tra le sue mani quando la giovane decise di lasciarsi cadere all’indietro, con le braccia appoggiate a fianco delle gambe piegate di Marzia, fino a che la sua testa non incontrò il petto di Marzia.

«Sei morbida.» Disse Anne, sorridendo. Anche se era a testa in giù, non si poteva scambiare il suo sorriso per un’espressione triste.

«Lo sappiamo entrambe.»

Marzia aveva rinunciato a finire la treccia nei successivi due minuti. Magari dopo un po’ Anne avrebbe deciso che era il caso di smettere di far domande e di subire passivamente il farsi intrecciare i capelli, ma per quel momento doveva lasciare il lavoro a metà.

«Da quanto tempo?» Ripeté Anne.

«Tanto.»

«Tanto tanto?»

«Già.»

«Va bene, non infierirò oltre.» Lo sguardo di Anne si addolcì per qualcosa che doveva aver pensato ma che non aveva espresso ad alta voce.

«Cosa stai macchinando, Anne?»

«Stavo pensando che forse stavolta il maldestro potrebbe farcela.»

Inutile a dirsi, Silvestro Maldestro stava di nuovo attentando alla vita di Marzia (o almeno, ci stava provando), stavolta con un attacco dall’alto, visto che si era lanciato dal parapetto del ponte superiore. Come al solito mancò il proprio bersaglio e cadde sulle cosce di Anne, graffiandogliele come un matto, prima di miagolare ai piedi della propria preda.

«Dicevi?» Chiese Marzia, ridendo.

«Maledetto gattaccio—!»

Silvestro scappò via prima che Anne potesse alzarsi e corrergli dietro. Marzia tenne ferma Anne per la treccia e aggiunse: «Non vorrai sprecare così tutto il mio lavoro sulla tua treccia, spero.»

Anne rimase immobile, in silenzio, contemplando una rivelazione da offrire a Marzia. Poi decise che sì, poteva anche essere profondamente sincera, senza nascondersi più. «Anche se sarò soltanto una piccola parte della tua vita, alla fine, sono comunque felice di essere qui.»

Poi Anne non parlò più per molto tempo e Marzia non la forzò.

 

 

Le sue fiamme blu non bruciavano – non avevano mai bruciato nulla da quando era entrata in possesso dei poteri del Frutto del Diavolo. Quando però uno spasmo nel petto la piegò in due, fino a farla cadere in ginocchio, capì che i propri talenti si erano rovesciati: non sarebbe riuscita a guarire da quel dolore fisico, che rispecchiava la perdita di due piccole parti della tua vita, fino a quando non fosse stata capace di bruciare l’incenso su nel proprio rifugio – nel proprio nido.

 

«Ricordo una canzone,» disse Anne, «faceva tipo: il nostro viaggio è stato sublime, un volo ad alta quota con una guida gentile – hai il cuore di un amico vero, e ci rivedremo di nuovo, sullo stesso o su un altro veliero.»

«È una canzone che i bambini cantavano ai loro papà marinai quando dovevano partire. Come mai la conosci?»

«Non saprei dirti. Mi ricordo solo questo pezzetto, nient’altro.»

Era un augurio e una speranza, in vita e in morte, una promessa che si manteneva fino alla fine e un desiderio in cui non si smetteva mai di credere.

L’amore dei figli ai genitori e dei genitori ai figli non risale necessariamente al sangue. Questo Marzia lo sapeva benissimo: quanta gioia nel vedere i propri compagni diventare sorelle e fratelli, specie con persone come Anne, così chiuse su ciò che più è importante – così riservate nei propri affetti.

Per questo nella testa di Marzia rimbombò quella canzoncina quando Bianca e Anne morirono a Marineford e quando vennero sepolte su quell’isoletta.

 

Le sue dita, diventate penne blu, toccarono lievemente i cristalli d’incenso. Il dolore non diminuì quando il nido prese fuoco e lei bruciò tra le fiamme (che, per quello che riusciva a percepire e ricordare, bruciavano molto più delle mani di Anne): alla sofferenza del corpo si sovrapposero i ricordi di Marineford, di Satch, di Anne, di Bianca, di Bianca quando Marzia salì per la prima volta sulla sua nave—si sovrapposero e si fusero sul fondo delle lingue di fuoco, mescolandosi all’incenso in una nuvola di fumo profumatissima.

Nel nostro universo trasumanar significar per verba non si poria.

 

I ricordi sono i tronchi più belli con cui si alimenta il fuoco della memoria: Marzia dovette morire e rinascere perché nella sua mente l’ossigeno stava finendo.

 

 

Smoker prese la chiave dalle mani di Marzia, aprì le manette di algamatolite e se ne liberò. Cominciò a indagare con più liberta sulla scena del crimine – sul nido e sugli incensi riversi a terra.

«Questo è un incenso particolare,» disse Smoker, «franchincenso. Viene usato per purificare l’aria attorno a un luogo sacro, specie per i funerali e le nascite, nelle isole estive. Per quale rito è stato usato?»

«Cosa ti dice il tuo potere, eh? Risponditi da sola.»

«Per tutti e due. Il fatto è che prima è avvenuta la morte e poi la nascita, e questo non ha molto senso.»

Marzia non le rispose. Silvestro fu di nuovo di aiuto a Smoker: tornato vicino alla palma, tentò l’ennesimo agguato. Fallito l’assalto, trovò rifugio sulla cima dell’albero, dove quel nido vuoto di prede non c’era più.

(Ramingo non era mai stato bravo a catturare uccellini per uno spuntino.)

Smoker non aveva certo dimenticato i poteri della Fenice al comando della Prima Flotta: con il suo intuito non impiegò molto a tirare tutti i fili invisibili di quella storia. Dopotutto, nell’isola in cui Smoker aveva vissuto durante l’infanzia, le storie di animali leggendari venivano raccontate dai vecchi nella piazza, quindi il mito della fenice non le era del tutto sconosciuto.

«Sei morta e sei nata qui.»

«È quello che ti dice il tuo potere?»

«Sì.»

Marzia era dritta in piedi a braccia conserte. «Avevamo un accordo.»

«Sei stata tu a far cadere per terra la chiave delle manette. Non potevo lasciar perdere l’occasione di dare un’occhiata in giro senza avere mal di testa per colpa dell’algamatolite.» Dopo un momento di riflessione, lanciò una maledizione a Silvestro (che la ignorò tranquillamente) e aggiunse, parlando più a se stessa che a Marzia: «È come se l’incenso avesse registrato delle parole.»

Silvestro miagolò e scese giù dall’albero. Nella discesa si buttò tra le braccia di Marzia, forse con l’intento di tenderle una trappola, ma Marzia lo acchiappò al volo e gli accarezzò la testolina triangolare e le lunghe orecchie, tenendolo tra le proprie braccia.

Sotto le fusa, Smoker udì una voce flebile e irregolare, come il vento che soffia: Marzia, al contrario, non la sentiva più ormai da diverso tempo – dal giorno della sepoltura di Bianca e Anne.

«C’è una nave, di mezzo.» Disse Smoker, cercando di decodificare i suoni che non le arrivavano attraverso le orecchie, ma attraverso il contatto con l’incenso ancora cristalizzato tra le sue mani.

«C’è sempre una nave.» Ribatté Marzia.

Una nave e un sogno da realizzare, pensò Smoker. Questo intendeva la Fenice: se era morta e rinata era perché aveva ancora almeno un desiderio da esaudire.

«Ora vattene.»

Quella voce del vento accompagnò Smoker fino al suo vascello, dove Tashigi e tutto l’equipaggio la stavano aspettando.

«Prendetevi cura di quel gattaccio.» Disse Smoker, lanciando a Silvestro un’occhiataccia. Il gatto non si mostrò per nulla preoccupato: con uno sbadiglio liquidò la marine e trotterellò via.

«Come fai a conoscerlo?»

«Diversi anni fa era a Loguetown, dove io ero capitano. Il giorno in cui i Pirati di Picche si fermarono a Loguetown per rifornimenti il gattaccio sparì. Credo che stesse aspettando qualcuno che avesse il coraggio di portare con sé un gatto incapace a cacciare.»

Tipico della nostra famiglia, quello di raccattare tutti i tipi di lupi di mare, pensò Marzia, sorridendo al pensiero di Silvestro in versione canina.

Non si salutarono quando Smoker ripartì dall’isola dove Anne e Bianca trovavano eterno riposo: innanzitutto perché erano di nuovo pirati e marine, dopo la parentesi del loro accordo; in secondo luogo, perché avevano l’impressione che, dopo un’altra lunga attesa, si sarebbero incontrate di nuovo – impressione data da Silvestro Maldestro che, sulla cima della palma, aveva osservato Smoker allontanarsi, con sguardo attento, naso all’ingiù e la sua forma da nobile selvaggio eretta in maniera aggraziata sulle fronde dell’albero.

 

 

O brave New World that has such people in ‘t! 




















Note Autrice:

Prima di qualsiasi altra cosa, voglio dire che questa shot non corrisponde in nessun modo a quello che sembra sia successo stando agli ultimi capitoli (credo 818-820, se non ricordo male). Non faccio spoiler: sappiate che ho cominciato a scriverla prima che Oda pubblicasse suddetti capitoli e onestamente l’ho completata seguendo delle mie idee, dunque il canon va alle ortiche, qua (e con me capita spesso, ormai lo saprete, lol).

Amo scrivere dei poteri dei Frutti del Diavolo, se ancora non si fosse capito (Veeeeegapuuunk! Dove sei?).

Ho genderswappato senza pietà e ne sono felice. Poi trovo che le donne abbiano un po’ più dimestichezza coi gatti, ma forse è solo un’impressione.

 

Noticine varie che potrebbero essere utili:

La fenice come animale mitologico › mi rimetto alla versione occidentale del mito, non alla fenice cinese (di cui so poco e nulla). Marzia dice già abbastanza nella storia, ma comunque: si dice che sia un animale unico, di genere maschile, che “rinasce” dalle proprie ceneri. Ovidio racconta che questa creatura vive cinquecento anni e poi si ritira su una palma, dove costruisce il proprio nido con foglie e rametti profumati: lì muore e lì nasce un piccolo di fenice che, una volta in grado di volare, porterà presso Eliopoli il nido in cui il padre è morto. La cosa bella è che si nutre di incenso e resine profumate! Ovviamente ci sono un sacco di storie riguardo la fenice, ma queste piccole note riportano ciò che ho sfruttato nella shot.

La ciurma di Barbabianca in One Piece è composta solo da uomini (infermiere di Edward Newgate escluse) › visto che qui parliamo di una Mamma, non di un Babbo, ho deciso di distribuire in maniera più o meno eguale quote rosa e quote azzurre: un po’ sono uomini, un po’ sono donne. Ehi, a me l’idea piace, poi magari il fatto che la flotta del Babbo sia costituita solo da uomini ha un senso, nel manga.

Perché questi segni grafici: ⁂? Per due motivi: uno è che mi piacciono e li preferisco alle barrette o ad altri espedienti per dividere il testo in maniera più marcata rispetto a un semplice spazio bianco, quando serve; il secondo è proprio questo, perché avevo bisogno di dividere più nettamente alcune parti della storia dalle altre. Visto che sono una persona contorta con un gusto artistico eccentrico (??), ho optato per questo cosiddetto “asterism”. Si veda qui per altre amenità di punteggiatura.

Trasumanar significar per verba non si poria › citazione da Dante, Divina Commedia, Paradiso, I, vv. 70-71.

I ricordi sono i tronchi più belli con cui si alimenta il fuoco della memoria › è un proverbio africano. Forse non l’ho scritto benissimo, e non saprei dirvi di quale etnia esso sia, non me lo ricordo proprio: ma mi piace moltissimo e credo si adatti bene alla storia.

il nostro viaggio è stato sublime, un volo ad alta quota con una guida gentile – hai il cuore di un amico vero, e ci rivedremo di nuovo, sullo stesso o su un altro veliero › parafrasi estremamente libera (e anche un po’ inventata, a dirla tutta) di un pezzo della canzone Our Decades In The Sun, dei Nightwish. I versi della canzone sono: our walk has been sublime / a soaring high and gentle lead / you have the heart of a true friend / one day we’ll meet on that shore again. Ho deciso che la base mi piaceva molto, ma poi ho fatto di testa mia, come spesso succede.

Madre, sono sempre vicina a te, e ti saluterò ogni volta che te ne andrai – e tu sei me, e io sono te. Siamo un’unica storia e tu sarai sempre nel mio cuore. › traduzione un po’ più fedele di due versi della stessa canzone: mother, I am always close to you / I will be waving every time you leave / oh, I am you, the care, the love, the memories / we are the story of one. (M’immagino che Marzia, come fenice, abbia una voce bellissima.)

O brave New World that has such people in it! › citazione da Shakespeare, La Tempesta. Perché l’ho inserita nella storia? Per due motivi, principalmente: uno riguarda il nome della seconda parte della Rotta Maggiore, che è proprio Nuovo Mondo. Per una che gioca con le parole come me era servita su un piatto d’argento, diciamo. Il secondo motivo è ironico, più o meno: è un coraggioso nuovo mondo perché ci sono creature come Silvestro, non umani, ma di altre specie. Certo, il nome Silvestro magari si può dare anche a un umano (e questo, secondo me, incasina ancora di più la riflessione che può partire da questa citazione), ma è una creatura consapevole di ciò che lo circonda più di molte altre – più di Anne, di Marzia, di Smoker.

C’è un piccolissimo accenno Marco/Shanks (o Marzia/Shanks in questo caso) perché nel mondo non esistono abbastanza storie su di loro e io li shippo da matti, ma è una cosa talmente stupida che secondo me risulta come una caratteristica tipica di Shanks, a dire il vero XD

Il titolo della storia? È stato scelto come ultima cosa. I secoli perché la fenice vive cinquecento anni, secondo la tradizione occidentale; il Sole perché la fenice è un uccello simbolo del disco solare; perché nella Commedia i morti rimpiangono la luce del sole; perché la luce del sole è bellissima. Non bastano come argomenti? ;)

L’idea sviluppata nella shot mi girava in testa già da mesi: il contest mi ha spinto a metterla nero su bianco. Poi non ho partecipato con questa storia ma con un’altra, perché con questa ho superato di brutto il conto massimo di parole (ehm). Ho voluto condividerla lo stesso su questo sito, nella speranza che possa piacere a qualcuno. Inizialmente volevo pubblicarla il 21 Marzo, ma non ricordo neanche perché: alla fine ho optato per la festa del Papà, perché Barbabianca. Capite? Qui è una mamma, ma non mi interessa. Non avevo voglia di aspettare Maggio per pubblicarla. (Spero di non aver scritto idiozie o di aver reso OOC i vari personaggi come faccio di solito nel caso fatemi un fischio! :D)

Dedico questa storia a tutte le gattofile e a tutti i gattofili che l’hanno letta e sì, dai, anche ai papà che leggono queste storie (ma esistono? lol). Chi mi segue sa che io infilerei i gatti ovunque e ogni tanto compaiono anche nelle mie storie. C:

Grazie per aver letto.

Alla prossima!

claws_Jo

 





Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Eiichiro Oda; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

  
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