Note:
Segno
di seguito i nomi dei pg in genderswap, per evitare confusione.
Sono: Anne (Fem!Ace), Smoker (Fem!Smoker, perché a me pare
un nome unisex, LOL),
Marzia (Fem!Marco), Bianca (Fem!Barbabianca), Lucy (Rufy/Luffy, anche
se non
viene mai nominata).
Avverto:
è una shot canon divergence,
cioè una storia che si discosta dalla storia
dell’opera originale.
I
secoli del Sole
Marzia
non aveva mai avuto un buon rapporto con quella vecchia palla di pelo
che stava
abusando della sua pazienza da più di tre anni. Non solo
quel gattaccio le
aveva sempre teso agguati anche a notte fonda, ma pure le miagolava
addosso con
l’insistenza che possed—no, aveva
posseduto soltanto—
Inutile
parlar male di quella stupida ragazzina che s’era fatta
uccidere assieme
all’Imperatrice loro madre: i morti non sentono la voce di
chi vivrà per sempre con
i piedi per terra.
In
compenso, a ricordarle Anne e Bianca c’erano i suoi compagni,
rimasti con lei
su quell’isola dove avevano costruito le tombe della loro
madre e della loro
sorella. Tutti loro erano in attesa – perfino quello stupido
animaletto peloso
aspettava, e forse lui, più di tutti gli altri, sapeva in
che cosa consistesse
attendere.
I
ricordi non seguono un senso cronologico. Quando non riescono
più a stare in
apnea, riemergono dall’oceano del subconscio per respirare e
infestare i
pensieri di chi si ostina a mettergli la testa sott’acqua.
«Marzia,
spiegami un po’: quali sono gli effetti collaterali del
diventare una fenice?»
Anne aveva lo sguardo vispo, la bocca rossa e il tono di chi non
ammette
repliche. Voleva sapere e avrebbe saputo, lì e in quel
momento. Per
sottolineare meglio il concetto, si avvicinò ancor di
più a Marzia e la guardò
attentamente negli occhi. «A parte non poterti ubriacare,
ovviamente. Quello
già lo so.»
«Essere
chiamata mamma chioccia, ad
esempio»
rispose Marzia, sbuffando.
«Ti
va bene che non sei maschio. Chissà quali altre storie si
sarebbero inventati,
altrimenti!»
Anne
aveva una risata scherzosa, ma mai cattiva, quando si trovava sulla
Moby Dick.
Sotto il sole di mezzogiorno faceva venire voglia di ridere assieme a
lei,
nonostante il sudore, nonostante l’apatia.
«Poi
ho un pessimo rapporto con i felini.»
«Più
o meno» esclamò Anne, appoggiando il mento sulla
spalla di Marzia, «tu
Maldestro lo tratti benissimo, anche quando ti fa gli agguati. Dovresti
vedere
Satch, come lo insegue minacciandolo di farci un salame!»
«Non
si chiama Maldestro, e lo sai.»
«Silvestro
per me non ha senso. Maldestro sì. L’hai visto,
quando cerca di cacciare
qualsiasi cosa! Non saprebbe prendere neanche un pesce fuori
dall’acqua!»
«Non
dovresti tarpargli le ali in questo modo.»
«A
te non le hanno mai tarpate, le ali, o sbaglio?»
Marzia
stava per scrollarsi di dosso quella ragazzina troppo invadente, ma
Anne
anticipò le sue mosse e le acchiappò un braccio
tra i propri, stringendo forte.
«Non scappare. Io mi stavo annoiando e tu hai un sacco di
cose interessanti da
raccontare.»
«D’accordo,
eh» disse Marzia, passandosi una mano sulla fronte,
«facciamo un patto: ti
racconto un’ultima cosa e poi mi lasci in pace, almeno per
oggi.»
«Solo
se è una cosa importante.»
Non
avrebbe mai dovuto dirle nulla di tutta quella storia – la propria storia. Ma Anne, col trascorrere
del tempo, era diventata
una sorta di migliore amica o di miglior confidente e Marzia sapeva che
di lei
poteva fidarsi, soprattutto dopo che Anne confessò a Bianca
e a tutto
l’equipaggio di essere figlia del Re dei Pirati.
Smoker,
dopo diversi anni di servizio a Loguetown e la nomina a capitano,
aveva finalmente trovato un degno avversario al proprio
sguardo minaccioso.
Quel
gattaccio che gironzolava per la base della Marina era benvoluto da
tutti i
soldati, vista la quantità di cibo che gli veniva lasciata
da parte dopo i
pasti principali alla mensa. Una ragazza che lavorava in cucina lo
aveva
chiamato Ramingo, ma tutti lo conoscevano come il gattaccio:
non si sapeva da dove diavolo fosse arrivato e come
fosse riuscito a ritagliarsi uno spazietto nel cuore di tutti, ma forse
era
colpa dei suoi occhi verdissimi, dei suoi baffi arricciati e del suo
pelo
maculato e ricciolino – sembrava una pecorella quando Tina,
la ragazza della mensa,
riusciva a convincere Ramingo a farsi accarezzare. Il suo muso aguzzo e
il suo
corpicino slanciato suggerivano un’ascendenza nobile, da vero
gattaccio
selvatico, ma quello proprio non sembrava avere nessun talento per la
caccia.
Ramingo
aspettava, seduto negli angoli della caserma. Aveva il portamento
elegante dei
felini che sono ben consapevoli di chi sono e lo sguardo di chi, con il
naso
puntato verso l’orizzonte, aspetta.
Smoker,
per la maggior parte del tempo, non si curava di
quell’animale: a volte, però,
nella palestra il gattaccio andava a riposare. Un pomeriggio, mentre
Smoker era
impegnata con i propri allenamenti, vide Ramingo con la coda
dell’occhio e dopo
un momento di quasi perplessità la marine si mise a
osservare quel pigrone che
amava accoccolarsi sul pavimento caldo. Il gatto, con tutta la
nonchalance
della specie felina, aprì un occhietto, poi
l’altro, quindi fissò con
insistenza la donna.
Si
dice che i gatti capiscano molto dei loro umani: Smoker ebbe una strana
sensazione di appartenenza – al gatto, alla palestra,
all’attesa, non le fu ben
chiaro, fu una percezione talmente effimera che anche lei non
riuscì a
definirla –, infine Ramingo si alzò, si
stiracchiò e scomparve.
Da
quel giorno nessuno vide più Ramingo alla caserma di
Loguetown. Smoker
ricordava perfettamente quel pomeriggio, visto che una
mezz’ora dopo fu dato
l’allarme: una nave con un jolly roger e una ciurma di una
decina di individui
aveva attraccato al porto e chissà che cosa avrebbe
combinato sull’isola, se i
marine non fossero intervenuti.
«E
tu chi saresti?»
Il
gatto miagolò e si leccò una zampina per pulirsi
il muso. Anne, irritata da
quella mancanza di educazione, prese il gatto da sotto le ascelle e lo
sollevò
per aria: quello, in risposta, miagolò più forte,
come se fosse un
avvertimento, prima di cercare di graffiare quella stupida umana che lo
stava
mettendo in ridicolo in quel modo.
«Ehi,
ma che caspita—! Senti, gattaccio, smetti subito di
comportarti così! Ormai sei
su questa nave e qui rimarrai, capito? Ma guarda un po’ che
razza di animale
che mi son ritrovata! Tutto per colpa di quelli della Marina che ci
hanno fatto
fare tutto di corsa, giù a Loguetown!»
Il
felino, messo di nuovo a terra, guardò Anne con
l’aria attenta di un predatore.
«Facciamo
così, gattaccio. Tu ti rendi utile sulla nave e ti teniamo
con noi: se rimani a
far nulla tutto il giorno, ti lasciamo sulla prima isola che troviamo,
hai
capito?»
L’altro,
arricciando la coda corta, sembrò capire.
«Bravo
gattaccio.» Esclamò Anne, facendogli una
linguaccia.
Anne,
se mai fosse arrivata a cinquant’anni
d’età, sarebbe diventata una signora:
questo perché le vere signore non sudano mai, e il potere di
Anne faceva sì che
il sudore evaporasse appena fosse stato secreto dalla pelle. Per questo
poteva
permettersi di abbarbicarsi a Marzia anche nelle ore più
calde della giornata e
gesticolare animatamente senza ripercussioni.
«Su,
racconta. Prometto che non lo dirò a nessuno.»
Marzia
si sistemò semiseduta su una stuoia, in maniera da essere
abbastanza comoda
anche nel momento in cui quella ragazzina scimmietta (perché
era curiosa come
una scimmia, dopotutto) avesse deciso che le gambe di Marzia erano il
cuscino
più morbido sul liscio dei sette mari. Neanche fece in tempo
a pensarlo che
subito la giovane aveva reclamato il proprio cuscino preferito,
ridacchiando
come una bambina che è riuscita a spuntarla su un giocattolo
o un dolcetto.
Sdraiata con la testa sulle cosce di Marzia e con le gambe accavallate,
Anne
sembrava pronta a una giornata da lucertola sulla spiaggia, eppure
dietro la
sua spontanea allegria c’era attenzione e un certo grado di
riservatezza – era
impossibile stabilire quante questioni Anne tenesse per sé,
ma sicuramente
qualche incertezza e dubbio rimanevano nascosti dietro la sua treccia
scura e
le sue lentiggini.
«Dopo
aver ottenuto i poteri della Fenice, ho cercato più
informazioni possibili
riguardo le abilità che avrei potuto sviluppare. Leggende,
miti, documenti di
persone che dicono di aver visto una fenice volare nel cielo, eh. Tutto
quello
che riuscivo a trovare.»
«Cosa
hai scoperto?»
Quando
Marzia prese un profondo respiro, sentì Anne dire qualcosa
di stupido come
«Ooh, mi balla la testa!», forse per eliminare la
pressione di quel segreto un
po’ inquietante. «Dalle leggende sembra che una
fenice viva per cinquecento
anni, e che esista una sola fenice alla volta nel mondo.»
Anne
si era voltata per guardare Marzia negli occhi. Cominciava a capire
quali
fossero i veri problemi collaterali che la donna avrebbe dovuto
sopportare:
allo stesso tempo, però, non poté non chiedersi
se dietro a tutti i miti del
mondo ci siano dei fondi di verità.
«Al
termine della vita, quando sente che sta per
“morire”, si dice che la fenice
voli presso un’isola e lì, su una palma,
stabilisca il proprio nido, fatto con
franchincenso, mirra e incensi profumati.»
Dopo
una risata sottile, non cattiva, Anne sbatté le palpebre in
maniera molto
teatrale e disse: «Insomma, sei una mamma chioccia pulita, di
che ti lamenti?»
Come
poteva non sorridere? Anne se ne inventava sempre una per avere
l’ultima
parola. Entrambe sapevano che si trattava di un gesto di difesa, ma non
era
nulla di male. Dopo aver tentato di uccidere Bianca diverse volte, Anne
aveva
imparato a proteggere i propri fratelli e la propria sorellona
preferita.
«Poi,
quando è tempo, la fenice si consuma nel proprio fuoco, in
mezzo al fumo degli
incensi accesi. Dalle ceneri poi rinasce e porta il corpo del
“genitore” presso
un tempio sulla Rotta Maggiore, sembra nel Nuovo Mondo.»
«Cos’è
che ti turba di tutta questa storia, Marzia? Sono leggende. Non
è detto che
tutto quello che c’è nelle leggende sia poi
realtà. D’accordo, magari hai
capacità rigenerative da far paura, ma mica tutto quello che
dicevano i matti è
vero.»
La
donna tirò fuori un modesto sorriso. Si ricordava bene il
tempo in cui Anne
aveva deciso di raccontare la propria storia dall’inizio, ed
era stato bello
poter far parte delle sue insicurezze per irrobustire le certezze che
erano
nate sulla Moby Dick. Era un bel sentimento da conservare e da
avvertire appena
sopra il diaframma, dove il cuore fa le capriole.
«Forse
hai ragione.»
«Io
ho sempre ragione. È che
ancora
nessuno l’ha capito, su questa nave.»
Marzia
sbuffò, ma non perché era arrabbiata o annoiata:
forse piuttosto era una
risposta non verbale alle provocazioni innocue di Anne. «Va
bene, va bene, non
infervorarti.»
Anne
la fulminò con lo sguardo.
«È
solo un modo di dire.»
«Ah,
ecco, mi sembrava.» Disse la giovane, arrampicandosi come un
bruco fino a
essere faccia a faccia con Marzia. La fissò per un
po’, come fanno i gatti
nella penombra (con le pupille dilatate e una smorfia di
curiosità), poi decise
che quella posizione non era per nulla comoda e scivolò di
nuovo a sdraiarsi
sulle gambe di Marzia. Sì, erano decisamente il suo cuscino
preferito: riuscì a
pensare questo, prima di addormentarsi di colpo per il pessimo tempismo
della
propria narcolessia.
Silvestro,
che dopo il riposino pomeridiano era salito sul ponte a causa
dell’inconfondibile odore di pennuto (si scoprì
che era l’odore di Marzia, ma
gli animali sono creature incredibili), adocchiò le due
donne vicine alla
parete del corpo principale della nave. Il suo istinto predatorio lo
convinse
che Marzia sarebbe stata un’ottima merenda, per cui si
acquattò ai piedi delle
scale che portavano sottocoperta, con le orecchie tirate indietro e il
naso ad
annusare il vento. Quando balzò all’attacco di
Marzia Anne si era finalmente
risvegliata dal breve pisolino narcolettico: inutile dire che Silvestro
Maldestro finì con gli artigli sulla faccia di Anne e, come
tutte le volte
precedenti, la sua preda riuscì a sfuggirgli.
O
meglio: la sua preda sbuffò (di nuovo, ma questo Silvestro
non poteva saperlo)
e, per calmare la battaglia che sarebbe sicuramente scoppiata, decise
di fare
un po’ di coccole alle due litiganti. In realtà
aveva cominciato con dei
grattini sulla testolina del nobile selvaggio e con delle parole di
conforto
alla giovane furibonda; alla fine, qualche minuto dopo, Marzia aveva le
mani
occupate in grattini sulla testa di entrambi quei maldestri animaletti.
Sia il
gattaccio sia la scimmietta apprezzarono moltissimo quelle coccole
dalla loro
mamma chioccia, nonché preda prediletta di scherzi o di
agguati finiti male.
⁂
Ragazzina
buffa, tu che hai toccato la vita di così
tante persone in così
tanti mondi—
Aspetteranno.
Anche quando tu sarai polvere, loro aspetteranno di diventare polvere,
come te,
e il loro desiderio sarà quello di mescolarsi alle tue
ceneri nel vento che
soffia tra le palme e che vola radente su tutti i mari e le montagne
del mondo.
È
un’armonia celeste; la consapevolezza della morte, sempre
vicina, sempre col
suo fiato scuro sul collo; un istinto animale; una paura che anche per
i
protetti del Diavolo più potenti rimane atavica.
⁂
C’era
uno strano contrarsi e rilassarsi nel suo petto. Erano trascorsi
più di due
anni da quando Smoker aveva avvertito quella specie di ipertensione
delle
arterie coronarie – si ricordava benissimo chi fosse stata la
causa di quella
sensazione.
Quando
ad Alabasta si era scontrata con Pugno di Fuoco aveva percepito quella
stessa
sensazione: per una persona consapevole di se stessa come Smoker era
impossibile confondere un’emozione con un’altra,
per cui ne era certa –
qualcosa stava chiamando il suo potere. Il suo fumo si rimestava nel
sangue e
dei piccoli viticci grigi si staccavano dal suo corpo senza che lei lo
volesse,
disperdendosi nell’aria, lasciando una traccia di odore di
sigaro. Non era
qualcosa dovuto alle ferite che aveva riportato a Punk Hazard: era la
stessa
sensazione di quando si incontra un potere o un’energia
affine alla propria.
Come
il fuoco del Diavolo, anni prima, l’aveva profondamente
turbata – non che
avesse poi reagito in altra maniera oltre a inseguire Cappello di
Paglia e
Pugno di Fuoco a Nanohana, ma era stato comunque uno sgomento non
indifferente
–, allo stesso modo qualcos’altro premeva sul suo
sangue e sul suo fumo.
«Tashigi!»
Gridò allora, ficcandosi un sigaro acceso in bocca.
Avrebbe
seguito quel richiamo fino in capo al mondo – fino alla fine
della Rotta
Maggiore, se necessario. Tanto la marmocchia col cappello di paglia che
Smoker stava
inseguendo sarebbe comunque arrivata laggiù, e unire
l’utile al giusto era
stato da sempre la sua missione.
⁂
Marzia
non aveva mai avuto un buon rapporto con quella vecchia palla di pelo
che stava
abusando della sua pazienza da più di tre anni: eppure, da
quando una presenza
insopportabile si era fatta spazio nella sua vecchia mente, non poteva
fare a
meno di provare sintonia con Silvestro.
Su
quell’isola lontana nel Nuovo Mondo, dove erano state sepolte
Anne e Bianca,
Marzia aspettava: forse aspettava Rufy, forse Shanks, forse
semplicemente che
tutti i suoi fratelli e sorelle si riprendessero dalla morte della loro
madre e
della loro più amata stella, prima di riorganizzarsi per
combattere contro
Barbanera.
In
un momento di profondo smarrimento – di quelli che fanno
venire i capogiri e la
disperazione più nera e irragionevole – si era
alzata dal proprio letto e,
mettendo un piede a terra, aveva schiacciato la coda di Silvestro.
Vista si
svegliò con uno scatto nervoso e Marzia aveva sorriso come
aveva potuto, poi
era uscita dalla loro stanza ed era andata a visitare le tombe di due
dei suoi
più grandi amori della vita (e lei aveva vissuto molto a
lungo, molto più di
quanto un normale essere umano potesse sperare di vivere).
Silvestro,
gattaccio rumoroso e incapace, l’aveva seguita trotterellando
con la grazia
tipica di tutta la specie felina: le sue zampette color crema si
sporcarono di
fango bagnato ma, dal momento che il sangue di gatto selvatico scorreva
profondamente in lui, non se ne preoccupò. I suoi baffi
arricciati si
drizzarono all’indietro e si mosse tenendo il baricentro del
corpo basso, come
un grande felino che sta cercando di catturare una gazzella nella
savana.
Come
Silvestro, anche Marzia aveva un obiettivo: gli alberi poco distanti
dalle
tombe di Bianca e Anne. Inizialmente non aveva fatto molto caso a che
tipo di
piante ci potesse mai essere sull’isola, ma un giorno Shanks,
con una pessima
battuta che avrebbe dovuto servirgli per qualcosa come flirtare con
Marzia, le
aveva fatto notare che si trattava di palme.
(Era
una battuta stupida riguardante il verbo impalmare.
Quell’uomo aveva davvero un pessimo gusto in fatto di giochi
di parole.)
Le
palme. Come nelle leggende. C’era stata una sorta di
interferenza, nel suo cervello,
come un disturbo su una frequenza di onde radio: ci aveva messo del
tempo per
capire che si trattava del suo essere una protetta del Diavolo e del
fiato sul
collo che l’aveva sempre spinta a muoversi.
Erano
trascorsi due anni da quando erano arrivati tutti insieme su
quell’isola. In
due anni non si era spostata, come invece aveva sempre fatto per molto
tempo.
Una
vita così lunga non poteva esserle stata data
perché rimanesse in attesa.
Ventiquattro mesi trascorsi ad aspettare l’avevano resa una
sottile ombra di
quello che era stata quando Bianca e Anne erano vive.
Silvestro,
nel frattempo, si era seduto di fronte alle due tombe, più o
meno all’altezza
dei bicchierini e del ritaglio di giornale che ancora trovavano posto
presso il
cappello e il coltello di Anne. Aveva miagolato un paio di volte per
attirare
l’attenzione di Marzia, ma la donna, stupida umana che cova
le uova, si era
diretta verso il piccolo palmeto.
La
brezza marina le stropicciava appena i capelli.
«Sai
che hai una bella voce, Marzia? Perché non canti
più spesso?»
«Quando
ero giovane ero stonata come una campana.»
«Come
una cornacchia, vorrai dire.»
«Poi
ho mangiato il frutto della Fenice e ho imparato a cantare.»
«Cioè,
in pratica sei come un usignolo, no?» Domandò Anne
che, quella volta, aveva
pensato bene di usare la spalla di Marzia come un cuscino cilindrico
per la
corretta postura della schiena (d’accordo, forse non
funzionava per evitarle il
mal di schiena, ma era Marzia, e Marzia equivaleva a comoda e buona,
per la
maggior parte del tempo). La cosa più buffa era Silvestro
Maldestro: dopo
l’ennesimo agguato finito male si era seduto accanto a Marzia
e miagolava,
mentre lei canticchiava la prima canzone che le era venuta in mente.
Marzia
cantava Il liquore di Binks solo
quando
erano soddisfatte tre condizioni: quando era da sola, quando era sicura
che
nessuno l’avrebbe sentita e quando era giù di
morale. C’erano poi le eccezioni,
come lo era stata Anne. Visto che in quel momento tutte le condizioni
c’erano e
la stavano pregando di far vibrare le pliche vocali, Marzia si mise a
cantare.
Silvestro
la sentì anche da lontano e l’ascoltò
con il musino triangolare e stretto
rivolto verso il cielo, forse incuriosito dalla forma di un cumulonembo
passeggero.
⁂
«...
Tanto presto o tardi saremo ossa e nulla più, senza fine e
senza meta, una
storiella e tutti giù—» E uno
«Yohoho» l’accompagnò nella
trasformazione nella
sua forma Animale, che le permise di spiccare un agile salto sulla cima
di una
palma.
«Madre,
io sono sempre vicina a te, e ti saluterò ogni volta che te
ne andrai – e tu
sei me, e io sono te. Siamo un’unica storia e tu sarai sempre
nel mio cuore.»
⁂
«Non
sono qui per combattere.» Aveva detto Smoker, non appena era
stata accolta da
un folto gruppo di uomini e donne della ciurma della defunta
imperatrice
Bianca. «C’è del fumo, su
quest’isola. Sono qui per quello.»
Vista
stava per ribattere, ma Marzia fu più veloce.
«Non
c’è nessun fumo né fuoco
acceso.»
«Per
essere precisa, sto cercando qualcosa che, quando brucia, fa buon
odore. Un
incenso profumato. Non so se stia bruciando al momento, ma forse ha
bruciato in
precedenza. È stato quello a condurmi qui.»
«E
anche se ci fosse, che cosa ne faresti?»
«Immagino
che lo saprei soltanto se l’avessi davanti agli
occhi.»
Al
fianco del viceammiraglio della Marina, qualche passo dietro a lei,
c’era
un’altra donna con occhiali e spada nel fodero. Il resto
dell’equipaggio doveva
essere rimasto sulla nave dei marine. La donna – forse
più una ragazza, ancora
– sembrava tesa, preoccupata: il suo sguardo ondeggiava tra
quelli della
celebre ciurma della defunta Imperatrice come se non riuscisse nemmeno
a
vederli bene (ma non era colpa della paura, bensì della sua
pessima vista:
infatti Smoker disse subito a Tashigi di inforcare gli occhiali).
«Se
non abbiamo ancora colpito voi e la vostra nave è soltanto
perché potreste
avere ostaggi interessanti e farli colare a picco potrebbe non essere
una buona
idea. Parlate.»
La
ragazza si sentì presa in causa e disse: «Stiamo
riportando dei bambini alle
loro case. Ci sono stati affidati dalla Gatta Ladra a Punk
Hazard.»
«Tashigi,
sta’ zitta.»
«Bambini?
Siete passati dall’uccidere dei giovani adulti a rapire dei
bambini? Con cosa
continuerete, con armi di distruzione di massa?»
«Come
ha detto la mia seconda, si tratta di un’operazione di
salvataggio. Quei
bambini erano stati rapiti da uno scienziato per i suoi
esperimenti.» Poi
Smoker s’accese un sigaro: l’isola era quella
giusta, ne era certa, per cui
poteva anche riprendere a fumare come suo solito. «Non siamo
qui per spiegarvi
i nostri obiettivi, né per ostacolarvi in qualunque cosa voi
stiate
organizzando.»
«Difficile
da credere» rispose Marzia «siete soldati della
Marina e ufficiali del Governo
Mondiale.»
«Non
è stato uno stupido del Comando a mandarmi qui in missione.
È stato il mio
potere ad attirarmi qui.»
«Non
ho intenzione di fidarmi dei marine.»
Marine
che erano stati presenti all’esecuzione di Anne e di Bianca,
per la precisione.
«Tch.»
Disse quella, dopo un altro tiro di sigaro. Sollevò un
braccio sopra la spalla
e strinse il colletto della lunga giacca da viceammiraglio,
tirò e se la levò
di dosso. La consegnò a Tashigi con l’ordine di
tornare sulla nave, di tacere
sulla questione e di attendere il suo rientro – ma di quello
avevano già
discusso: nel caso Smoker non fosse tornata Tashigi sapeva
già che cosa
scrivere nel rapporto. «Non sono qui in veste di soldato, ma
in veste di
civile. Di persona che ha i poteri del Frutto del Diavolo.»
Prima
che Marzia potesse rispondere, quell’impiastro di Maldestro
si fece vedere
mentre cercava invano di catturare un uccellino, che era volato via non
appena
aveva avvertito il pericolo. Silvestro, miagolando la propria
frustrazione,
attirò l’attenzione di Smoker.
Impossibile
confondere quel gatto con qualsiasi altro esemplare della specie felina.
«Ramingo...?»
Come
tanti anni prima, Smoker e Silvestro ripresero il loro scontro di
sguardi. Pur
da lontano, si erano entrambi riconosciuti come i più grandi
rivali in occhiate
che uccidono.
Buffo
da credere, ma alla fine Silvestro si era rivelato tutt’altro
che inutile, per
Smoker. Tashigi era risalita sulla loro nave per prendersi cura dei
bambini e
aveva portato con sè la jitte e la giacca del
viceammiraglio. La sua superiore
era rimasta sull’isola a combattere contro le occhiatacce del
gattaccio e
quelle della Prima Comandante di Bianca, che era perfettamente in grado
di
sostenere gli sguardi fulminanti di qualsiasi persona sulla faccia
della terra
e del mare.
Il
vento si era sollevato di nuovo. Avevano scelto quell’isola
anche perché la
brezza che vi soffiava era molto piacevole – e sia Bianca che
Anne avevano
amato molto il vento fresco che sospinge avanti le navi.
Marzia
accompagnò Smoker al palmeto, evitando accuratamente di
avvicinarsi alle tombe
di Anne e Bianca. Non poteva certo fidarsi di quella donna marine, ma
preferì
esaudire quel desiderio piuttosto che dover combattere (e far
combattere tutti
i suoi fratelli e sorelle) contro un’intera nave di soldati,
che poi avrebbero
chiamato altri soldati, in un modo o nell’altro... Certo,
avrebbe potuto
uccidere Smoker. Tuttavia quella s’era perfino fatta mettere
un paio di manette
di agalmatolite pur di farsi condurre nel luogo dove c’era
l’incenso profumato:
il suo coraggio andava apprezzato, no?
Silvestro
le aveva precedute, trotterellando fino ai piedi della palma
incriminata. Sulle
grandi foglie era sistemato un nido piuttosto imponente, costruito in
maniera
tale per cui il vento dell’isola non lo facesse né
spostare né cadere. Il
gatto, forse pensando che ci dovessero essere delle uova, forse
annusando
l’odore di una preda, spiccò un salto elegante da
fermo, con uno scatto
magnifico: sfoderando gli artigli cominciò ad arrampicarsi
su quella ruvida
parete verticale, sotto lo sguardo perplesso di una e preoccupato
dell’altra.
«Silvestro—!»
Marzia acchiappò il gatto per le ascelle prima che
l’animale potesse
raggiungere la cima della palma e far razzie nel nido – nel suo nido, per l’amor del cielo.
«Non si
fa. Pensa a chi deve viverci, in quel nido.»
Certo
il gatto non poteva capirla a parole, ma gli fu chiaro
l’avvertimento di
Marzia.
«Adesso
ti chiami Silvestro, eh, gattaccio?» Disse Smoker, sbuffando
per il
divertimento. Silvestro, a cui Smoker non era mai piaciuta molto, si
dimenò tra
le braccia di Marzia e, una volta a terra, pensò bene di
soffiare contro la
marine, rizzando la coda e tutta la pelliccia ricciolina. Sembrava un
temibile
batuffolone di cotone, per far capire quanto Smoker avesse paura del
gattaccio
– infatti lo ignorò senza problemi e si
occupò invece del nido sulla palma. «Era
lì l’incenso che bruciava?»
Marzia
annuì. «Franchincenso, mirra e altri cristalli
profumati.»
«Perché
li avete accesi?»
«Non
ho motivo di risponderti, giusto?»
«Giusto.»
Poi Smoker scrollò le spalle, sbuffò per
l’ennesima volta – per fastidio, però
– e dopo un lungo momento di riflessione aggiunse:
«Perché ti sei costruita un
nido su una palma?»
«Tu
dovresti smettere di fare domande, eh. Non ti porteranno molto lontano,
se
continui così.»
«Ho
già ricevuto la mia lezione infinite volte, sul finirla di
far domande.
Spiacente. Forza dell’abitudine.» Si
avvicinò alla palma e ne toccò il tronco:
sembrava un normale albero, non c’era nulla, nella corteccia,
che sembrasse
chiamarla. Il segreto doveva essere nei profumi adagiati sul fondo del
nido:
quelli sì che stavano cercando il suo fumo, spento dalle
manette di
algamatolite. Ch. Che razza di seccatura, quegli affari ai polsi!
Avendo
trascorso la vita a mettere le manette agli altri, su di lei bruciavano
ancora
di più. «Qual è il motivo per cui lo
hai costruito? So quali poteri hai – li ho
visti a Marineford. So che i possessori di poteri dei Frutti sono
costantemente
sfidati dai poteri stessi, perché capita anche a
me.»
«Se
già sai tutte queste cose, marine, non chiedere
altro.»
Silvestro,
gattaccio curioso, fece finta di ascoltare la discussione di quelle due
stupide
umane e nel mentre girò attorno alla palma, sedendosi
nell’angolo cieco della
visione di Marzia. Guardò Smoker, che non lo
degnò di attenzioni, quindi si
preparò a una seconda imboscata al nido: si
aggrappò al tronco della palma e
piano, facendo meno rumore possibile, si arrampicò fino ad
arrivare al fogliame
dell’albero. Il vento si sollevò e le fronde
cominciarono a sciabordare, ma il
nido iniziò a muoversi soltanto quando Silvestro si fu
intrufolato in quel
rifugio di ramoscelli e fili d’erba.
«Silvestro,
accidenti!»
Marzia
non fece in tempo ad acchiappare di nuovo il gatto: Silvestro
Maldestro,
confuso da tutti quegli odori che all’inizio sembravano
– al suo naso,
perlomeno – quelli di un lauto pranzetto, emise un miagolio
sofferente prima di
lanciarsi giù dalla palma, finendo direttamente in braccio a
Smoker. Come già
in passato, Silvestro graffiò senza troppi complimenti
faccia e braccia della
malcapitata prima di correre via a gran velocità.
Il
danno, però, era ormai fatto. Parte degli incensi profumati
era stata
rovesciata per terra, ai piedi della palma. Marzia, sinceramente,
pensò che
quei due erano in combutta, perlomeno prima di vedere quanti graffi
aveva
riportato Smoker.
«Il
gattaccio era un pericolo pubblico anche a Loguetown.» Disse
Smoker, più a se
stessa che a Marzia. Poi leccò la punta del proprio indice e
la intinse nella
polvere, perché qualche residuo di incenso ci rimanesse
attaccato. Quando se la
portò sotto il naso per annusarla, Smoker capì
molte cose che non aveva notato
quando era distante, sulla nave, quando solo il richiamo del fumo la
spingeva
sul mare.
Odorava
di morte e di rinascita. Con gran fatica recuperò
l’accendino dalla tasca, ma
se lo vide requisire da Marzia quando quella smise di volare attorno
alla palma
e toccò di nuovo terra. Aveva cercato di limitare i danni,
ma quel maldestro di
un Silvestro l’aveva combinata grossa.
«Non
ci provare.»
«Il
fuoco» disse Smoker «è come se,
bruciando l’incenso, potesse venirne fuori la
morte sotto forma di fumo. Ma tu sei viva. Cos’è
successo?»
«Marzia,
da quanto tempo vivi?» Aveva chiesto Anne, a occhi chiusi,
contenta che le mani
di Marzia le stessero pettinando i capelli per farle la treccia. Erano
sedute
in ginocchio una davanti all’altra, sul ponte, a farsi
scaldare dal sole di
un’isola estiva.
«Non
si fanno domande così generiche a una persona che ha vissuto
più di quanto tu
puoi sperare di vivere.»
«Scusa,
sai. Non volevo chiederti “Quanti anni hai?”,
perché mi hanno insegnato che non
si chiede mai l’età a una signora. Non
così schiettamente, almeno.»
Marzia
non poté non ridere davanti a tutta quella
sincerità. I capelli neri di Anne
scivolavano in ricciolini morbidi tra le sue mani quando la giovane
decise di
lasciarsi cadere all’indietro, con le braccia appoggiate a
fianco delle gambe
piegate di Marzia, fino a che la sua testa non incontrò il
petto di Marzia.
«Sei
morbida.» Disse Anne, sorridendo. Anche se era a testa in
giù, non si poteva
scambiare il suo sorriso per un’espressione triste.
«Lo
sappiamo entrambe.»
Marzia
aveva rinunciato a finire la treccia nei successivi due minuti. Magari
dopo un
po’ Anne avrebbe deciso che era il caso di smettere di far
domande e di subire
passivamente il farsi intrecciare i capelli, ma per quel momento doveva
lasciare il lavoro a metà.
«Da
quanto tempo?» Ripeté Anne.
«Tanto.»
«Tanto
tanto?»
«Già.»
«Va
bene, non infierirò oltre.» Lo sguardo di Anne si
addolcì per qualcosa che doveva
aver pensato ma che non aveva espresso ad alta voce.
«Cosa
stai macchinando, Anne?»
«Stavo
pensando che forse stavolta il maldestro potrebbe farcela.»
Inutile
a dirsi, Silvestro Maldestro stava di nuovo attentando alla vita di
Marzia (o
almeno, ci stava provando), stavolta con un attacco
dall’alto, visto che si era
lanciato dal parapetto del ponte superiore. Come al solito
mancò il proprio
bersaglio e cadde sulle cosce di Anne, graffiandogliele come un matto,
prima di
miagolare ai piedi della propria preda.
«Dicevi?»
Chiese
Marzia, ridendo.
«Maledetto
gattaccio—!»
Silvestro
scappò
via prima che Anne potesse alzarsi e corrergli dietro. Marzia tenne
ferma Anne
per la treccia e aggiunse: «Non vorrai sprecare
così tutto il mio lavoro sulla
tua treccia, spero.»
Anne
rimase
immobile, in silenzio, contemplando una rivelazione da offrire a
Marzia. Poi
decise che sì, poteva anche essere profondamente sincera,
senza nascondersi
più. «Anche se sarò soltanto una
piccola parte della tua vita, alla fine, sono
comunque felice di essere qui.»
Poi
Anne non parlò
più per molto tempo e Marzia non la forzò.
⁂
Le
sue fiamme blu
non bruciavano – non avevano mai bruciato nulla da quando era
entrata in
possesso dei poteri del Frutto del Diavolo. Quando però uno
spasmo nel petto la
piegò in due, fino a farla cadere in ginocchio,
capì che i propri talenti si
erano rovesciati: non sarebbe riuscita a guarire da quel dolore fisico,
che
rispecchiava la perdita di due piccole
parti della tua vita,
fino a
quando non fosse stata capace di bruciare l’incenso su nel
proprio rifugio – nel
proprio nido.
«Ricordo
una
canzone,» disse Anne, «faceva tipo: il
nostro viaggio è stato sublime, un volo ad alta quota con
una guida gentile –
hai il cuore di un amico vero, e ci rivedremo di nuovo, sullo stesso o
su un
altro veliero.»
«È
una canzone che
i bambini cantavano ai loro papà marinai quando dovevano
partire. Come mai la
conosci?»
«Non
saprei dirti.
Mi ricordo solo questo pezzetto, nient’altro.»
Era
un augurio e
una speranza, in vita e in morte, una promessa che si manteneva fino
alla fine
e un desiderio in cui non si smetteva mai di credere.
L’amore
dei figli
ai genitori e dei genitori ai figli non risale necessariamente al
sangue.
Questo Marzia lo sapeva benissimo: quanta gioia nel vedere i propri
compagni
diventare sorelle e fratelli, specie con persone come Anne,
così chiuse su ciò
che più è importante – così
riservate nei propri affetti.
Per
questo nella
testa di Marzia rimbombò quella canzoncina quando Bianca e
Anne morirono a
Marineford e quando vennero sepolte su quell’isoletta.
Le
sue dita,
diventate penne blu, toccarono lievemente i cristalli
d’incenso. Il dolore non
diminuì quando il nido prese fuoco e lei bruciò
tra le fiamme (che, per quello
che riusciva a percepire e ricordare, bruciavano molto più
delle mani di Anne):
alla sofferenza del corpo si sovrapposero i ricordi di Marineford, di
Satch, di
Anne, di Bianca, di Bianca quando Marzia salì per la prima
volta sulla sua
nave—si sovrapposero e si fusero sul fondo delle lingue di
fuoco, mescolandosi
all’incenso in una nuvola di fumo profumatissima.
Nel
nostro
universo trasumanar significar per verba
non si poria.
I
ricordi sono i
tronchi più belli con cui si alimenta il fuoco della
memoria: Marzia dovette
morire e rinascere perché nella sua mente
l’ossigeno stava finendo.
⁂
Smoker
prese la
chiave dalle mani di Marzia, aprì le manette di algamatolite
e se ne liberò.
Cominciò a indagare con più liberta sulla scena
del crimine – sul nido e sugli
incensi riversi a terra.
«Questo
è un incenso
particolare,» disse Smoker, «franchincenso. Viene
usato per purificare l’aria
attorno a un luogo sacro, specie per i funerali e le nascite, nelle
isole
estive. Per quale rito è stato usato?»
«Cosa
ti dice il
tuo potere, eh? Risponditi da sola.»
«Per
tutti e due.
Il fatto è che prima è avvenuta la morte e poi la
nascita, e questo non ha
molto senso.»
Marzia
non le
rispose. Silvestro fu di nuovo di aiuto a Smoker: tornato vicino alla
palma,
tentò l’ennesimo agguato. Fallito
l’assalto, trovò rifugio sulla cima
dell’albero, dove quel nido vuoto di prede non
c’era più.
(Ramingo
non era
mai stato bravo a catturare uccellini per uno spuntino.)
Smoker
non aveva
certo dimenticato i poteri della Fenice al comando della Prima Flotta:
con il
suo intuito non impiegò molto a tirare tutti i fili
invisibili di quella
storia. Dopotutto, nell’isola in cui Smoker aveva vissuto
durante l’infanzia,
le storie di animali leggendari venivano raccontate dai vecchi nella
piazza,
quindi il mito della fenice non le era del tutto sconosciuto.
«Sei
morta e sei
nata qui.»
«È
quello che ti
dice il tuo potere?»
«Sì.»
Marzia
era dritta
in piedi a braccia conserte. «Avevamo un accordo.»
«Sei
stata tu a
far cadere per terra la chiave delle manette. Non potevo lasciar
perdere
l’occasione di dare un’occhiata in giro senza avere
mal di testa per colpa
dell’algamatolite.» Dopo un momento di riflessione,
lanciò una maledizione a
Silvestro (che la ignorò tranquillamente) e aggiunse,
parlando più a se stessa
che a Marzia: «È come se l’incenso
avesse registrato delle parole.»
Silvestro
miagolò
e scese giù dall’albero. Nella discesa si
buttò tra le braccia di Marzia, forse
con l’intento di tenderle una trappola, ma Marzia lo
acchiappò al volo e gli
accarezzò la testolina triangolare e le lunghe orecchie,
tenendolo tra le
proprie braccia.
Sotto
le fusa,
Smoker udì una voce flebile e irregolare, come il vento che
soffia: Marzia, al
contrario, non la sentiva più ormai da diverso tempo
– dal giorno della
sepoltura di Bianca e Anne.
«C’è
una nave, di
mezzo.» Disse Smoker, cercando di decodificare i suoni che
non le arrivavano
attraverso le orecchie, ma attraverso il contatto con
l’incenso ancora
cristalizzato tra le sue mani.
«C’è
sempre una
nave.» Ribatté Marzia.
Una nave e un sogno da realizzare,
pensò Smoker. Questo intendeva la Fenice: se era
morta e rinata era perché aveva ancora almeno un desiderio
da esaudire.
«Ora
vattene.»
Quella
voce del
vento accompagnò Smoker fino al suo vascello, dove Tashigi e
tutto l’equipaggio
la stavano aspettando.
«Prendetevi
cura
di quel gattaccio.» Disse Smoker, lanciando a Silvestro
un’occhiataccia. Il
gatto non si mostrò per nulla preoccupato: con uno sbadiglio
liquidò la marine
e trotterellò via.
«Come
fai a
conoscerlo?»
«Diversi
anni fa
era a Loguetown, dove io ero capitano. Il giorno in cui i Pirati di
Picche si
fermarono a Loguetown per rifornimenti il gattaccio sparì.
Credo che stesse
aspettando qualcuno che avesse il coraggio di portare con sé
un gatto incapace
a cacciare.»
Tipico della nostra famiglia, quello di raccattare
tutti i tipi di lupi di mare, pensò Marzia,
sorridendo al pensiero di Silvestro in versione canina.
Non
si salutarono
quando Smoker ripartì dall’isola dove Anne e
Bianca trovavano eterno riposo:
innanzitutto perché erano di nuovo
pirati e marine, dopo la parentesi del loro accordo; in secondo luogo,
perché
avevano l’impressione che, dopo un’altra lunga
attesa, si sarebbero incontrate
di nuovo – impressione data da Silvestro Maldestro che, sulla
cima della palma,
aveva osservato Smoker allontanarsi, con sguardo attento, naso
all’ingiù e la
sua forma da nobile selvaggio eretta in maniera aggraziata sulle fronde
dell’albero.
O brave New World that has such people in ‘t!
Note
Autrice:
Prima
di qualsiasi altra cosa, voglio dire che
questa shot non corrisponde in nessun modo a quello che sembra sia
successo
stando agli ultimi capitoli (credo 818-820, se non ricordo male). Non
faccio spoiler:
sappiate che ho cominciato a scriverla prima che Oda pubblicasse suddetti capitoli e
onestamente l’ho completata seguendo delle mie idee, dunque il
canon va alle
ortiche, qua (e con me capita spesso, ormai lo
saprete,
lol).
Amo
scrivere dei poteri dei Frutti del Diavolo, se
ancora non si fosse capito (Veeeeegapuuunk! Dove sei?).
Ho
genderswappato senza pietà e ne sono felice. Poi
trovo che le donne abbiano un po’ più
dimestichezza coi gatti, ma forse è solo
un’impressione.
Noticine
varie che potrebbero essere utili:
La
fenice come animale mitologico › mi rimetto alla
versione occidentale del mito, non alla fenice cinese (di cui so poco e
nulla).
Marzia dice già abbastanza nella storia, ma comunque: si
dice che sia un
animale unico, di genere maschile, che “rinasce”
dalle proprie ceneri. Ovidio
racconta che questa creatura vive cinquecento anni e poi si ritira su
una
palma, dove costruisce il proprio nido con foglie e rametti profumati:
lì muore
e lì nasce un piccolo di fenice che, una volta in grado di
volare, porterà
presso Eliopoli il nido in cui il padre è morto. La cosa
bella è che si nutre
di incenso e resine profumate! Ovviamente ci sono un sacco di storie
riguardo
la fenice, ma queste piccole note riportano ciò che ho
sfruttato nella shot.
La
ciurma di Barbabianca in One Piece è composta
solo da uomini (infermiere di Edward Newgate escluse) ›
visto che qui parliamo
di una Mamma, non di un Babbo, ho deciso di distribuire in maniera
più o meno
eguale quote rosa e quote azzurre: un po’ sono uomini, un
po’ sono donne. Ehi,
a me l’idea piace, poi magari il fatto che la flotta del
Babbo sia costituita
solo da uomini ha un senso, nel manga.
Perché
questi segni grafici: ⁂? Per due
motivi: uno è che mi piacciono e li preferisco alle barrette
o ad altri
espedienti per dividere il testo in maniera più marcata
rispetto a un semplice
spazio bianco, quando serve; il secondo è proprio questo,
perché avevo bisogno
di dividere più nettamente alcune parti della storia dalle
altre. Visto che
sono una persona contorta con un gusto artistico eccentrico (??), ho
optato per
questo cosiddetto “asterism”. Si veda qui
per altre amenità di punteggiatura.
Trasumanar
significar per verba non si poria › citazione da
Dante, Divina Commedia, Paradiso,
I, vv. 70-71.
I
ricordi sono i
tronchi più belli con cui si alimenta il fuoco della memoria
› è un proverbio
africano. Forse non l’ho scritto benissimo, e non saprei
dirvi di quale etnia
esso sia, non me lo ricordo proprio: ma mi piace moltissimo e credo si
adatti
bene alla storia.
il nostro viaggio è stato sublime, un
volo ad alta
quota con una guida gentile – hai il cuore di un amico vero,
e ci rivedremo di
nuovo, sullo stesso o su un altro veliero ›
parafrasi
estremamente libera (e anche un po’ inventata, a dirla tutta)
di un pezzo della
canzone Our Decades In The Sun, dei
Nightwish. I versi della canzone
sono: our walk has been sublime / a soaring
high
and gentle lead / you have the heart of a true friend / one day
we’ll meet on
that shore again. Ho deciso che la base mi piaceva molto, ma
poi ho fatto
di testa mia, come spesso succede.
Madre,
sono sempre vicina a te, e ti saluterò ogni volta che te ne
andrai – e tu sei
me, e io sono te. Siamo un’unica storia e tu sarai sempre nel
mio cuore. › traduzione un
po’ più fedele di due versi della stessa canzone: mother, I am always close to you / I will be waving
every time you leave
/ oh, I am you, the care, the love, the memories / we are the story of
one.
(M’immagino che Marzia, come fenice, abbia una voce
bellissima.)
O brave New World that has such people in it! ›
citazione da Shakespeare, La Tempesta.
Perché l’ho inserita nella storia? Per due motivi,
principalmente: uno riguarda il nome della seconda parte della Rotta
Maggiore,
che è proprio Nuovo Mondo. Per una che gioca con le parole
come me era servita
su un piatto d’argento, diciamo. Il secondo motivo
è ironico, più o meno: è un coraggioso nuovo mondo perché
ci sono
creature come Silvestro, non umani, ma di altre specie. Certo, il nome
Silvestro magari si può dare anche a un umano (e questo,
secondo me, incasina
ancora di più la riflessione che può partire da
questa citazione), ma è una
creatura consapevole di ciò che lo circonda più
di molte altre – più di Anne,
di Marzia, di Smoker.
C’è
un piccolissimo accenno Marco/Shanks (o
Marzia/Shanks in questo caso) perché nel mondo non esistono
abbastanza storie su
di loro e io li shippo da matti, ma è una cosa talmente
stupida che secondo me
risulta come una caratteristica tipica di Shanks, a dire il vero XD
Il
titolo della storia? È stato scelto come ultima
cosa. I secoli perché la fenice vive cinquecento anni,
secondo la tradizione
occidentale; il Sole perché la fenice è un
uccello
simbolo del disco solare;
perché nella Commedia i morti rimpiangono la luce del sole;
perché la luce del
sole è bellissima. Non bastano come argomenti? ;)
L’idea
sviluppata nella shot mi girava in testa già
da mesi: il contest
mi ha spinto a metterla nero su bianco. Poi non ho partecipato con
questa
storia ma con un’altra,
perché con questa ho superato di brutto il conto massimo di
parole (ehm). Ho voluto
condividerla lo stesso su questo sito, nella speranza che possa piacere
a
qualcuno. Inizialmente volevo pubblicarla il 21 Marzo, ma non ricordo
neanche
perché: alla fine ho optato per la festa del
Papà, perché Barbabianca.
Capite? Qui è una mamma, ma non mi interessa. Non
avevo voglia di aspettare Maggio per pubblicarla. (Spero di non aver
scritto idiozie o di aver reso OOC i vari personaggi come
faccio di solito nel caso fatemi un fischio! :D)
Dedico
questa storia a tutte le gattofile e a tutti
i gattofili che l’hanno letta e sì, dai, anche ai
papà che leggono queste
storie (ma esistono? lol). Chi mi segue sa che io infilerei i gatti
ovunque e
ogni tanto compaiono anche nelle mie storie. C:
Grazie
per aver letto.
Alla
prossima!
claws_Jo
Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Eiichiro Oda; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.