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Amare Zayn Malik è la mia religione.


Lui è il mio culto.

Come un rito pagano che marca il passaggio dall’autunno all’inverno. Rimango pericolosamente vicino al fuoco, respirando nel fumo purificante, ipnotizzato dalle fiamme saltellanti, sudando a causa del calore, le gocce di sudore che si collezionano sul mio viso. Il canto dei credenti canticchiato a bocca chiusa, gli edifici nello sfondo, le loro voci rispettose della scricchiolante attesa. La frusta del vento che guida la fiamma in una torre. Il fruscio delle foglie fredde attraverso il prato moribondo. Lui è la mia connessione alla terra. La mia consapevolezza del passare delle stagioni. Il tempo procede scivolando in avanti. Una promessa del senza fine della vita perfino quando il carnale scompare.


Lui è la mia confessione.

Ginocchia piegate sul pavimento freddo. Un santuario costruito con le sue parole, rinforzato col suo tocco, reso reale attraverso la forza della sua determinazione. Mi conduce in una stanza buia dove i segreti sono rivelati a voce alta senza la paura della penitenza. Permettendomi spazio e tempo per dare voce alla mia confusione e alle mie domande sussurrate. Sapendo che la mia più grande paura è fare la scelta sbagliata e capovolgere il nostro delicato equilibrio. Lui non era parte del mio piano, e io ho ancora difficoltà a riconciliare ciò che pensavo fosse vero una volta, con ciò che ora so è molte più sfumature e nuance della vita di quante mi aspettassi ce ne fossero. Voglio dirgli tutto. Voglio che conosca ogni secondo della mia vita e i miei pensieri prima di lui – perché ciò che è venuto prima è importante. Ho paura, e soffro, e sono così fragile. E glielo dico. Mi fido di lui tanto da sapere che terrà queste parole strette. Per infilarle nel suo cuore e tenerle lontane da me fin quando non sarò abbastanza forte da riprendermi quel carico.


Lui è la mia speranza, la mia salvezza.

Perdono per il tempo perso nell’indecisione. Una salda pazienza come quella delle onde oceaniche – che fanno rotolare rocce oltre la sabbia, smussando gli spigoli, trasformando quel ruvido interno in qualcosa che un giorno sarà bellissimo e unico. Io sono quella pietra e lui è il mare. Mi stringe in modo protettivo nel suo abbraccio anche quando ci lotto contro. Incoraggiandomi presuntuoso – lucidando la parte più luminosa di me, e disintegrando la più debole – fin quando ciò che rimane è ancora imperfetto, esausto dal viaggio, ma ravveduto in qualcosa di più forte. Alcuni giorni penso che potrebbe essersi offerto per aspettarmi per sempre. Sono grato che nessuno tra noi deve più porsi delle domande.


Lui è la mia ispirazione.

Un risveglio. Come se fossi addormentato, camminando nei corridoi dei miei sogni, cercando, chiamando a gran voce qualcosa che non identificherò mai, alla quale non darò mai un nome. Incapace di trovare una ragione a quel vuoto che mi minacciava di tenermi impotente e segregato. Perso da tutto. E ancora, lui era ancora capace di trovarmi e convincere i miei occhi a restare aperti. Per vedere la luce e il giorno per ciò che è – i suoi occhi, la sua voce, il suo amore. La sua anima che incontra la mia e ride di gioia.


Lui è la mia immortalità.

Promesse determinate su labbra insistenti. Che l’amore che lui ha per me non finirà. Io ascolto. Provando a capire. E forse lo faccio. Perché ciò che io sento per lui non può essere contenuto. Mi consuma, e mi riempie, ed esplode attraverso me spontaneo. Come può mai qualcosa di così vivo scomparire?


Mi dicono che siamo destinati. Gli amanti che provano che il vero amore esiste ancora.

Credo in quella sorte. E credo lo faccia lui, anche.