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Autore: Canemily    20/03/2016    0 recensioni
Emilia e la piccola Aurora arrivano in Svizzera, nel collegio dove la bambina passerà i prossimi anni. Il loro struggente addio segna l’inizio della nuova vita della figlia di Pepa e Tristan. Il suo destino si incrocerà subito con quello di un’altra bambina: un incontro destinato a cambiarle nuovamente la vita in futuro.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Aurora Castro, Emilia
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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-Perché non posso stare a casa zia?- La piccola Aurora teneva la mano di sua zia Emilia quando arrivò davanti al portone del collegio in Svizzera in cui era stata mandata da suo padre Tristan per un motivo che non riusciva del tutto a comprendere: cosa aveva fatto di male perché suo padre la volesse così lontano dal suo fianco?                                                                                                                                                                                   -Non ti piace qui?- Provò a rispondere Emilia con un sorriso. –Guarda come è grande!- In effetti Aurora non si era ancora soffermata ad osservare l’imponente palazzo che sorgeva davanti a lei dopo una lunga scalinata. Il portone era alto, largo e color ciliegio con incisi tanti ghirigori, mentre dorati o magari proprio fatti d’oro, si chiese la piccola, erano la maniglia e il battiporta, ma erano niente, se li si metteva a confronto con l’intero edificio, e Aurora poteva vedere solo il davanti, ma chissà quanto continuava dietro! I muri erano verniciati di un rosa chiaro chiaro interrotto da tante piccole finestre racchiuse in cornicioni verdi e arricchite da tendine a fiori; dalle tegole rosse spuntavano tanti comignoli dai quali uscivano delle nubi di fumo che poi si univano in alto nel cielo azzurro e si confondevano con le nuvole. Il collegio era un po’ fuori città, quindi tutto intorno a tre lati poteva permettersi di avere un enorme giardino ed era possibile ammirare le chiome di maestosi  alberi, ma mai come quelli che si trovavano nelle campagne di Puente Viejo, pensò Aurora.                                                                                                                                                                            –Nessun posto sarà mai come il mio paese!- Ribatté decisa la bambina.                                                                                                             –Hai visto troppo poco di questo mondo per dirlo, non essere capricciosa Aurora, qui starai benissimo- Tentò di convincerla la zia.                                –Ma non vedrò più voi, Maria, nonno Raimundo, Rosario, non è giusto!                                                                                                               -Qui potrai imparare nuove cose e ricevere la migliore istruzione e naturalmente fare nuove amicizie, è per questo che tuo padre ti ha mandato qui, perché vuole il meglio per te, tesoro mio. –Emilia aveva quasi finito le argomentazioni: per tutto il viaggio Aurora le aveva fatto di queste domande e non poteva di certo biasimare sua nipote, che fino ad ora non aveva mai ricevuto l’affetto del padre e che adesso veniva privata anche degli altri cari. Anche lei soffriva incredibilmente a dover lasciare lì la figlia della sua adorata Pepa, ma Tristan non era nelle condizioni di prendersi cura di lei, dopo aver perso l’amore della sua vita, non che approvasse il suo comportamento, visto che oramai erano passati sette anni, ma non poteva far altro che farsi coraggio e soprattutto infondere fiducia nella piccola.                                                                                                                                 –Secondo te il mio papà mi vuole bene, vero?-                                                                                                                                                      -Ma certo piccolina, non ne devi mai dubitare, capito?- Certo che suo fratello voleva bene alla propria figlia, sua e di Pepa, ma la nipote non ne aveva mai avuto grandi dimostrazioni e di certo era molto sveglia e si faceva delle domande, ma Emilia non poteva permettere che nella mente di Aurora nascesse una cattiva opinione del padre e ovviamente  non poteva dirle che nonostante le volesse bene il solo vederla lo faceva soffrire ancor di più, perché così era.                    –Ora entriamo, o non sei curiosa di vedere com’è dentro?- In effetti quel palazzo la incuriosiva, così, per il sollievo di sua zia, si lasciò accompagnare dentro.
 
-Benvenute nel nostro istituto!- Aurora ed Emilia furono accolte dal grande sorriso di una suora: si chiamava madre Teresa, ed era la madre superiora. Era un po’ avanti con l’età e un poco in carne con due occhi piccoli e neri che però splendevano come due stelle lontane nel cielo. Aurora restò un attimo incantata a guardare quegli occhi, ma quando essi si rivolsero a lei, la bambina si nascose dietro la gonna della zia.                                    –Tu devi essere Aurora, ti aspettavamo con impazienza!                                                                                                                                     -Sì, lei è Aurora, Aurora Castro e io sono sua zia, Emilia Ulloa, lieta di conoscervi madre. Su Aurora! Ti sapevo più cordiale e socievole di così, saluta la madre.-   E’ vero, Aurora, come la cuginetta Maria, non era mai stata timida, ma non voleva assolutamente lasciare la mano di sua zia, neanche per darla alla suora, quasi temesse che lasciandola lei se ne sarebbe andata via di tutta fretta abbandonandola lì per sempre.                                     –State tranquilla, avremo tanto tempo per conoscerci e diventare amiche quando resteremo sole con le altre bambine. –A quelle parole la bambina strinse la mano di Emilia il più che poté.                                                                                                                                                    –Aurora, non vedi come è simpatica  madre Teresa? Se me lo permette visiteremo il collegio insieme e per questa notte dormirò qui, sempre se c’è un posto per me. -  Vedendo lo sguardo implorante della piccola, suor Teresa accettò gentilmente:  –Per la brava gente e per far felici le bimbe qui c’è sempre posto- disse. 
Suor Teresa guidò le due ospiti in tutte le aule dell’istituto: le pareti erano colorate con colori pastello o tappezzate con carta da parati a fiori, così diverse da el Jaral, dove l’unica stanza in cui non c’era della fuliggine era la sua. Nella sala da pranzo c’era un lungo tavolo a forma di ferro di cavallo e le cucine erano ordinate e splendenti, nel dormitorio i letti erano affiancati da un comodino, mentre di fronte c’era un baule bianco per i vestiti. Nelle aule dove si svolgevano le lezioni erano sistemati  una lunga lavagna nera e banchi in legno a due posti con tanto di spazio sotto per poggiare il materiale scolastico. C’era una stanza piena di strumenti musicali: un pianoforte, dei violini, dei flauti, tamburi, triangoli e altri che Aurora non conosceva. Niente di tutto questo colpì la piccola quanto la biblioteca: un posto immenso, con scafali altissimi letteralmente coperti da libri di ogni genere, il triplo, il quadruplo o forse di più di quella di el Jaral, cosa poteva desiderare di più in un luogo così lontano da casa se non poter viaggiare almeno con l’immaginazione e attutire la solitudine con i libri. La bambina lesse la parola  “medicina” nello scaffale in basso a sinistra: quella parola rappresentava il sogno della sua mamma, sua zia e Rosario glielo avevano raccontato tante volte, forse quella parola, pensò Aurora, sarebbe stata la sua unica consolazione, sarebbe stata lontano da casa, ma in quel modo avrebbe ricordato sua madre. Emilia notò l’ammirazione della nipote per quel luogo e fu consolata dal fatto che la bambina fosse contenta almeno per qualcosa. Suor Teresa spiegò che tutte le suore si prendevano cura delle ragazze e della loro educazione religiosa, mentre illustri professori tenevano delle lezioni ogni giorno tranne la domenica. Emilia ascoltò molto attentamente e si convinse che a sua nipote non sarebbe mancato niente, compreso l’affetto delle suore. Mentre Emilia ed Aurora visitavano la scuola tutte le bambine e ragazze dell’istituto si trovavano in giardino. Alla fine della visita anche loro le raggiunsero. Il giardino occupava un immenso spazio ricoperto da un prato verde molto curato sopra il quale dei viali fatti di pietre bianche offrivano il passaggio fino ai tavolini posti all’ombra dei maestosi alberi che Aurora aveva notato prima di entrare. C’erano fiori e piante di ogni tipo: gigli, rose, calle, orchidee, felci, margherite, tulipani, papaveri e altri ancora cui anche questa volta Aurora non sapeva dare un nome. Un vasto spazio  recintato con una staccionata in legno era dedicato alla coltivazione delle erbe: Aurora ne riconobbe qualcuna che Rosario usava in cucina. Inoltre non mancavano  un’area giochi con dondoli e altalene e le stalle con i cavalli: ad Aurora piacevano quegli animali e spesso usciva di nascosto di casa per andare a dare qualche carota a Camillo, il cavallo del suo papà.                                                                                                                                                                                                           – Guarda, Aurora potrai persino coltivare le erbe, come piaceva alla tua mamma, sei contenta, piccola?                                                                Aurora sorrise: i libri, le erbe, i cavalli, tutte queste cose andavano a favore di quel luogo, ma sarebbe bastato a non farle sentire la mancanza dei suoi familiari? Che senso aveva che ci fossero i dondoli se non poteva salirci con la sua cuginetta Maria, o che le cucine fossero ben pulite se non poteva cucinarci lo stufato Rosario, che nelle aiuole ci fossero i papaveri se non poteva coglierli con nonno Raimundo o che avesse i capelli in ordine come le signorine sedute al tavolino se non era la zia Emilia a farle le trecce? Tutta quella perfezione ne valeva la pena?  E nonostante cercasse di convincersi del contrario quei pensieri attanagliavano non solo Aurora ma anche sua zia.                                                                                                           I pensieri della piccola e di Emilia furono interrotti dalle risate e dalle urla delle bimbe che giocavano, al contrario delle signorine più grandi che studiavano, passeggiavano, sorseggiavano il tè o spazzolavano i loro cavalli. Tutte le bambine giocavano tranne una che se ne stava seduta nel prato a gambe incrociate con lo sguardo perso, chissà, forse anche lei era stata mandata via di casa dai suoi genitori, ipotizzò Aurora.                               Suor Teresa fece conoscere alle nuove arrivate le altre suore: più o meno tutte avevano una certa età, ma ognuna di loro aveva quel sorriso dolce e rassicurante che contraddistingue una nonna, proprio come Rosario, che la bambina considerava come tale: ancora una volta qualcosa le ricordava lei. il pensiero di Aurora volò anche alla Villa: lì abitava una signora che dicevano essere sua nonna, ma che invece non sorrideva mai.
Quella sera, l’ultima che Aurora e sua zia Emilia avrebbero passato insieme per molto tempo, zia e nipote cenarono da sole insieme a suor Teresa, anche se quella sera Aurora non aveva molto appetito. La madre superiora concesse loro di dormire in una stanza da sole. Nella camera c’era solo un letto singolo, così le due si strinsero l’una all’altra, come a voler  creare una barriera per scacciare il pensiero che il giorno seguente si sarebbero dovute lasciare. All’improvviso però Emilia sentì la sua vestaglia bagnarsi delle lacrime della bambina.                                                                          – Piccola mia … - Sussurrò Emilia e la strinse a sé ancora più forte, donandole così tutto il suo amore, senza bisogno di altre parole. 
                                      
-Comportati bene e impegnati nello studio mi raccomando.                                                                                                                                Vedendo il sorriso forzato della nipote a quelle parole Emilia si accorse che forse erano troppo banali in quel momento.                                              – Non ho dubbi che lo farai, sei sveglia e intelligente e diventerai l’orgoglio di tuo padre, ma non dimenticare mai chi sei e da dove vieni, ricorda che sei la figlia di Pepa la levatrice- Mentre pronunciava queste parole Emilia poggiò nel palmo della mano della bambina un nastro rosa, poi chiuse la mano di Aurora- Questo nastro lo regalò il tuo papà alla tua mamma quando ancora eri nella sua pancia, lei aveva sognato che saresti stata una femmina, già lo sapeva. E’ il simbolo del loro amore, custodiscilo.                                                                                                                                              Aurora era felice di quel regalo: ogni ricordo della sua famiglia e del periodo vissuto fino a quel momento con essa era prezioso, ma ora doveva sembrare una bambina matura in grado si stare da sola e non doveva dare preoccupazioni alla zia, così annuì e si impegnò a trattenere le lacrime.      La donna sperava che affrontare questo distacco se non altro sarebbe servita a regalare alla piccola almeno un pizzico del coraggio di sua madre; già fisicamente le assomigliava notevolmente, ma Emilia pensava che avrebbe preso anche le sue qualità. Poi la locandiera s’ inginocchiò davanti alla bambina e l’abbracciò forte come aveva fatto la notte prima – Ricordati di scrivere alla tua cuginetta- aggiunse.                                                         –Vi voglio tanto bene zia Emilia – Sussurrò Aurora con la tenerezza che solo una bimba della sua età può avere.                                                         – Anche io tesoro, anche io.                                                                                                                                                                               Il tintinnio della pioggia che picchiava sul suolo risvegliò da quel doloroso addio zia e nipote. Emilia si alzò, si diresse verso il portone e uscì fuori, poi si girò nuovamente verso la nipote: ora le loro lacrime si confondevano con quelle che lasciava cadere il cielo sulla Terra ed entrambe potevano lasciarsi andare al pianto.

Quel giorno Aurora era visibilmente giù di morale e la madre superiora decise di farla stare con sé durante la giornata: voleva e doveva guadagnarsi la  sua fiducia. Madre Teresa sapeva che la bambina sarebbe rimasta a lungo nel suo collegio: Emilia le aveva spiegato la sua dolorosa e complicata situazione. Lei naturalmente sperava che se ne andasse via al più presto, poiché nonostante tutto l’impegno e tutto l’affetto con cui lei riusciva a far sentire a casa le ragazze, sapeva che il loro posto era con la loro famiglia, avvolte dal calore dei genitori; l’idea iniziale della donna era quella di dare un alloggio a bambine e ragazze in attesa che i genitori risolvessero i loro problemi famigliari per poi far tornare con sé le loro figlie. Pian piano le ragazze iniziarono a rimanere giorni, settimane, mesi e addirittura anni, così madre Teresa decise di fare qualcosa in più e il suo convento divenne anche uno dei migliori collegi europei.                                                                                                                                                                                 –Ti va di fare un disegno Aurora?- Propose la suora.                                                                                                                                                – Vorrei imparare meglio a leggere e scrivere signora, devo essere pronta per quando mio padre tornerà a prendermi, e poi così potrò leggere i libri che piacevano alla mia mamma.                                                                                                                                                                                – Ci sarà tempo bambina per quello, già da domani frequenterai le lezioni, ma oggi staremo insieme, così potremo conoscerci. Allora, cos’è che piaceva alla tua mamma? E chiamami pure suor Teresa.                                                                                                                                        – Mia mamma voleva diventare una dottoressa, ma era già molto brava a curare le persone e a far nascere i bambini, suor Teresa - Spiegò orgogliosa Aurora. – Anche se ora sta in cielo insieme al mio fratellino Martìn.- Un velo di tristezza coprì gli occhi della bambina. Madre Teresa lo percepì e cambiò argomento.                                                                                                                                                                                              – E’ molto importante  guarire le persone, un lavoro bellissimo. E poi cosa ti piace fare?                                                                                            - Cogliere i tulipani con mio nonno e mia cugina …  E i cavalli, mi piacciono tanto, quello di mio padre si chiama Camillo, solo che lui è sempre triste e non vuole parlare con me, e neanche insegnarmi a cavalcare.                                                                                                                                – Potrai imparare qui! A tutto c’è un rimedio!                                                                                                                                                           - Sì, mi piacerebbe. Voi però avete detto che dovevamo conoscerci, quindi anche voi dovete dirmi cosa vi piace fare.                                                  La suora sorrise teneramente, la bambina era matura e sveglia e la donna si sarebbe impegnata per aiutarla.                                                              – Certamente, ma nel frattempo  lo facciamo o no un bel disegno?                                                                                                                       Aurora sorrise e annuì.  
 
Suor Teresa volle assegnare ad Aurora un letto accanto a quello di un’ altra bambina della sua stessa età che nessuno riusciva a tirar fuori dal suo mondo di solitudine, e sperava che questa vicinanza giovasse ad entrambe, Aurora con la sua sensibilità l’avrebbe notata e forse sollecitata a parlare con lei, magari il fatto di avere in comune due storie tristi le avrebbe avvicinate: la nuova arrivata avrebbe sentito meno la nostalgia da casa e l’altra bambina socializzato finalmente con una compagna.
Aurora si infilò la sua camicetta da notte e si sedette sul letto, poi prese dalla tasca della sua gonna il nastro rosa che suo padre aveva regalato a sua madre e lo legò al polso con un fiocco: “Quanto dovevano volersi bene mamma e papà” pensò. Dopo di che tirò fuori dalla valigia una fotografia del fratellino Martìn: Rosario la teneva conservata e l’aveva donata ad Aurora affinché le facesse compagnia; lei avrebbe voluto portare con sé anche quella della madre, ma sapeva quanto il suo papà ci fosse affezionato, forse troppo, perché quando la guardava non permetteva ad Aurora neanche di entrare nel suo studio, i suoi occhi si consumavano su quella immagine bagnata dalle sue lacrime.                                                                                     Poco dopo arrivò la bambina che dormiva nel letto accanto al suo e Aurora si ricordò di lei: era la stessa che il giorno prima aveva visto in giardino tutta sola    - Ciao, io mi chiamo Aurora, sono nuova. - Ma la bambina non rispose, passò dritta senza voltarsi, lo sguardo come sempre rivolto verso il pavimento, ma la Castro non si arrese, fin da subito quello sguardo l’aveva colpita ed era curiosa di scoprire cosa celava.                                                           – Ciao, sono Aurora e sono appena arrivata.- L’altra si sedette nel letto dando le spalle ad Aurora e iniziò a pettinarsi, continuando a tacere. La figlia di Pepa allora si avvicinò, le si mise di fronte e ci riprovò:- Piacere, il mio nome è Aurora Castro e sono qui da ieri.                                                        – Sì, ho capito che ti chiami Aurora, non c’è bisogno che me lo ripeti.                                                                                                                     – Allora sai usare la lingua.                                                                                                                                                                                  – Sì, mi chiamo Jacinta e so anche usare la lingua.                                                                                                                                             Aurora scoppiò a ridere e Jacinta la seguì, le loro risate riempivano di allegria il dormitorio, tanto che anche un’altra bambina della loro età, Ana, si avvicinò incuriosita e si unì a loro. Quelle erano risate innocenti, spensierate, ma Aurora, Jacinta e Ana non sapevano che un giorno, quelle stesse risate avrebbero cambiato per sempre la loro vita.                                                                     
   
 
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