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Autore: HannibalLecter    21/03/2016    0 recensioni
Presente, una città qualunque.
Quattro ragazze che in comune non hanno assolutamente nulla se non la loro amicizia.
Se chiedeste loro cosa porterebbero con sé su un’isola deserta otterreste quattro risposte tanto diverse quanto strampalate.
Isadora sceglierebbe sicuramente un qualche gingillo esotico ed inutile come l’amuleto svedese contenente escrementi di alce o il suo poncho di alghe essiccate.
Olivia si farebbe senza dubbio prendere dal panico e nell’ansia di voler arraffare tutto il possibile finirebbe per acciuffare qualcosa di stupido come il suo cuscino a forma di tacos o un flacone di glitter azzurri.
Beatrice, più razionale, opterebbe per una scelta saggia come un coltellino svizzero salvo poi non riuscire ad usarlo data la lunghezza e la perfezione delle sue unghie sempre impeccabili e fresche di manicure.
Ermione invece non esiterebbe un attimo e senza pensarci sue volte rapirebbe Chris Hemsworth e non lo restituirebbe mai più.
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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La solita atmosfera intrisa di umidità, smog e pallidi raggi di sole.

Il solito applauso fuori luogo all’atterraggio. Come a dire che anche questa volta, grazie al cielo,  siamo sopravvissuti.

Le solite persone moleste che non aspettano che il segnale di sicurezza si spenga, si slacciano le cinture prima del tempo e affollano lo stretto corridoio dell’aeromobile. Impazienza, bagagli dovunque e disordine.

Il solito mal di testa.

La solita capatina al bagno delle signore e il solito ribrezzo nel constatarne le condizioni pietose in cui versa.

Solito tamburellio di dita, solita passeggiata nervosa, solito ritardo dell’arrivo del bagaglio sul nastro trasportatore come sempre avvenuto tra gli ultimi.

Solite facce sorridenti all’uscita, soliti occhi ansiosi che saettano alla ricerca del viso familiare e caro che stanno attendendo.

Solito caos di autobus, turisti, trolley.

Solito tassista disonesto, soliti semafori sempre rossi, soliti passanti che tentano di perdere la vita attraversando dove più gli aggrada.

Solita cassetta della posta piena fino a scoppiare, solito zerbino scolorito, solita serratura che fa i capricci.

Bentornata a casa! Niente coriandoli. Solo tanta polvere.

Le sedie erano ancora capovolte sul tavolo, nella stessa identica posizione che occupavano sette mesi prima. Sul cuscino macchiato del divano era gettata una copia di un quotidiano datata due marzo. Il giorno della partenza.

O sarebbe più corretto dire il giorno della fuga?

Sul frigorifero capeggiava ancora la foto scattata davanti alla ruota panoramica del luna park. I volti sorridenti, le guance arrossate e le mani strette tra loro.

All’improvviso si ricordò del telefono spento ore prima e non ancora riacceso. Senza dubbio nessuno l’aveva cercata. Nessuno sapeva che sarebbe tornata in città. Nessuno sapeva se mai sarebbe tornata.

E invece eccola lì.

I capelli così lunghi da sfiorarle i fianchi ormai. Una costellazione di nodi e doppie punte color del grano. La valigia quasi vuota a causa della fretta con cui era partita e del disinteresse che provava per le cose prettamente materiali. Un diario quasi completo, un libro di Orwell senza copertina e un accendino verde mela.

Non c’era alcuna chiamata persa e nessun messaggio da leggere.

La cosa invece che sconfortarla la rese stranamente sollevata.

Adorava fregarsene di tutti e perciò non sopportava quando qualcuno riusciva ad avvicinarsi più di quanto lei solitamente tollerasse. Tutte le persone che ancora conosceva erano come le zecche, si erano avvinghiate alla sua pelle, senza il suo invito né tantomeno permesso, e da allora non la lasciavano in pace. 

A differenza delle zecche però lei ammirava la loro tenacia e aveva imparato, seppur nel suo strambo e insolito modo, a voler loro moderatamente bene.

Questo però non le aveva impedito di sparire a marzo senza informare alcuna di quelle zecche.

Il campanello squillò e un brivido attraversò la sua schiena.

Il vestito di cotone che indossava, nonostante le arrivasse fino ai piedi, era assolutamente inadatto al clima di ottobre. Peccato che al suo decollo fosse circondata da palme, folate d’aria calda e secca e sabbia.

Scattò fulminea alla porta e la chiuse il più lievemente possibile. Il portone d’ingresso del palazzo era rotto dalla caduta dell’impero romano e chiunque poteva entrare. Dei passi risuonarono sui gradini di legno scheggiato e si avvicinarono.

Appoggiò l’occhio allo spioncino e si ritrovò a fissare dei lucidi capelli castani, separati da una perfetta scriminatura e trattenuti all’indietro da un cerchietto rosso.

Un deciso bussare la fece sobbalzare. Sapeva benissimo chi ci fosse dall’altra parte della porta. Solo una persona di sua conoscenza si ostinava a pettinarsi come una bambina di sei anni con una passione smodata per gli accessori di Hello Kitty e Barbie nonostante i quasi ventidue anni.

«Cugina Isadora riesco a vedere il tuo enorme occhio azzurro fissarmi ed è abbastanza inquietante…», le fece  notare la ragazza.

Una seconda voce si intromise, «Sì Isa, sembra un cazzo di occhio di Mordor solo non infuocato!»

«Erm, prova ad aprire la porta. L’unica volta che Isa ha chiuso a chiave sarà stato quando è sparita mesi fa e forse neanche allora», suggerì una voce dal tono flautato.

Erano tutte lì. Nonostante da quello spioncino si avesse la visuale solo di quella impeccabile riga in mezzo tra una cascata di capelli lisci.

La porta si schiuse e la padrona di casa venne costretta ad indietreggiare.

Sulla soglia apparvero tre ragazze in formazione compatta.

Ermione, capigliatura ormai già ampiamente descritta e osservata, minigonna a pieghe e ballerine con fiocchetti. Leziosa.

«Ve l’avevo detto che corrompere Cesare era una buona idea. Tanto la pedinerebbe e spierebbe in ogni caso. Farlo dietro compenso dà al tutto un’aria meno da maniaco e più da 007. Anche se manca Daniel Craig…»

Olivia, caschetto disordinato, jeans e t-shirt al contrario, con l’etichetta e le cuciture in bella mostra sul davanti. Sbadata.

«Non riesco a credere che sei tornata! Non so se abbracciarti o tirarti un pugno. Sono così felice di vederti. Anche se sei una brutta stronza e…al diavolo, vieni qui! Gli insulti li lascio per dopo…»

Beatrice, onde e boccoli ramati, tailleur e tacchi, o meglio, scarpe da ginnastica indossate e un paio di francesine dal tacco vertiginoso strette in una mano. Impeccabile. O quasi.

«Quante volte ti devo ripetere che non abitiamo in un villaggio sperduto di dieci anime dove le persone sono ancora generose, disinteressate ed oneste? Devi chiudere la porta a chiave altrimenti un giorno ti ritroverai qualcuno in casa e non sarà lì certo per farti i complimenti per come hai arredato casa tua! Anche perché è arredata in modo orribile. E sì, mi sei mancata…»

Le zecche erano tornate.

 

 

 

 

 

 

  
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