La solita
atmosfera intrisa di umidità, smog e pallidi raggi di sole.
Il solito
applauso fuori luogo all’atterraggio. Come a dire che anche
questa volta,
grazie al cielo, siamo
sopravvissuti.
Le solite
persone moleste che non aspettano che il segnale di sicurezza si
spenga, si
slacciano le cinture prima del tempo e affollano lo stretto corridoio
dell’aeromobile.
Impazienza, bagagli dovunque e disordine.
Il solito mal
di testa.
La solita
capatina al bagno delle signore e il solito ribrezzo nel constatarne le
condizioni pietose in cui versa.
Solito
tamburellio
di dita, solita passeggiata nervosa, solito ritardo
dell’arrivo del bagaglio
sul nastro trasportatore come sempre avvenuto tra gli ultimi.
Solite facce
sorridenti all’uscita, soliti occhi ansiosi che saettano alla
ricerca del viso
familiare e caro che stanno attendendo.
Solito caos
di autobus, turisti, trolley.
Solito tassista
disonesto, soliti semafori sempre rossi, soliti passanti che tentano di
perdere
la vita attraversando dove più gli aggrada.
Solita cassetta
della posta piena fino a scoppiare, solito zerbino scolorito, solita
serratura
che fa i capricci.
Bentornata a
casa! Niente coriandoli. Solo tanta polvere.
Le sedie
erano ancora capovolte sul tavolo, nella stessa identica posizione che
occupavano sette mesi prima. Sul cuscino macchiato del divano era
gettata una
copia di un quotidiano datata due marzo. Il giorno della partenza.
O sarebbe
più
corretto dire il giorno della fuga?
Sul frigorifero
capeggiava ancora la foto scattata davanti alla ruota panoramica del
luna park.
I volti sorridenti, le guance arrossate e le mani strette tra loro.
All’improvviso
si ricordò del telefono spento ore prima e non ancora
riacceso. Senza dubbio
nessuno l’aveva cercata. Nessuno sapeva che sarebbe tornata
in città. Nessuno sapeva
se mai sarebbe tornata.
E invece
eccola lì.
I capelli
così lunghi da sfiorarle i fianchi ormai. Una costellazione
di nodi e doppie
punte color del grano. La valigia quasi vuota a causa della fretta con
cui era
partita e del disinteresse che provava per le cose prettamente
materiali. Un diario
quasi completo, un libro di Orwell senza copertina e un accendino verde
mela.
Non
c’era
alcuna chiamata persa e nessun messaggio da leggere.
La cosa
invece che sconfortarla la rese stranamente sollevata.
Adorava
fregarsene
di tutti e perciò non sopportava quando qualcuno riusciva ad
avvicinarsi più di
quanto lei solitamente tollerasse. Tutte le persone che ancora
conosceva erano
come le zecche, si erano avvinghiate alla sua pelle, senza il suo
invito né tantomeno
permesso, e da allora non la lasciavano in pace.
A differenza
delle zecche però lei ammirava la loro tenacia e aveva
imparato, seppur nel suo
strambo e insolito modo, a voler loro moderatamente bene.
Questo
però
non le aveva impedito di sparire a marzo senza informare alcuna di
quelle
zecche.
Il campanello
squillò e un brivido attraversò la sua schiena.
Il vestito di
cotone che indossava, nonostante le arrivasse fino ai piedi, era
assolutamente
inadatto al clima di ottobre. Peccato che al suo decollo fosse
circondata da palme,
folate d’aria calda e secca e sabbia.
Scattò
fulminea
alla porta e la chiuse il più lievemente possibile. Il
portone d’ingresso del
palazzo era rotto dalla caduta dell’impero romano e chiunque
poteva entrare. Dei
passi risuonarono sui gradini di legno scheggiato e si avvicinarono.
Appoggiò
l’occhio
allo spioncino e si ritrovò a fissare dei lucidi capelli
castani, separati da
una perfetta scriminatura e trattenuti all’indietro da un
cerchietto rosso.
Un deciso
bussare la fece sobbalzare. Sapeva benissimo chi ci fosse
dall’altra parte
della porta. Solo una persona di sua conoscenza si ostinava a
pettinarsi come
una bambina di sei anni con una passione smodata per gli accessori di
Hello
Kitty e Barbie nonostante i quasi ventidue anni.
«Cugina
Isadora
riesco a vedere il tuo enorme occhio azzurro fissarmi ed è
abbastanza
inquietante…», le fece
notare la
ragazza.
Una seconda
voce si intromise, «Sì Isa, sembra un cazzo di
occhio di Mordor solo non
infuocato!»
«Erm,
prova
ad aprire la porta. L’unica volta che Isa ha chiuso a chiave
sarà stato quando
è sparita mesi fa e forse neanche allora»,
suggerì una voce dal tono flautato.
Erano tutte
lì. Nonostante da quello spioncino si avesse la visuale solo
di quella
impeccabile riga in mezzo tra una cascata di capelli lisci.
La porta si
schiuse e la padrona di casa venne costretta ad indietreggiare.
Sulla soglia
apparvero tre ragazze in formazione compatta.
Ermione,
capigliatura ormai già ampiamente descritta e osservata,
minigonna a pieghe e
ballerine con fiocchetti. Leziosa.
«Ve
l’avevo
detto che corrompere Cesare era una buona idea. Tanto la pedinerebbe e
spierebbe in ogni caso. Farlo dietro compenso dà al tutto
un’aria meno da
maniaco e più da 007. Anche se manca Daniel
Craig…»
Olivia,
caschetto disordinato, jeans e t-shirt al contrario, con
l’etichetta e le
cuciture in bella mostra sul davanti. Sbadata.
«Non
riesco a
credere che sei tornata! Non so se abbracciarti o tirarti un pugno.
Sono così
felice di vederti. Anche se sei una brutta stronza e…al
diavolo, vieni qui! Gli
insulti li lascio per dopo…»
Beatrice,
onde e boccoli ramati, tailleur e tacchi, o meglio, scarpe da
ginnastica
indossate e un paio di francesine dal tacco vertiginoso strette in una
mano. Impeccabile.
O quasi.
«Quante
volte
ti devo ripetere che non abitiamo in un villaggio sperduto di dieci
anime dove
le persone sono ancora generose, disinteressate ed oneste? Devi
chiudere la
porta a chiave altrimenti un giorno ti ritroverai qualcuno in casa e
non sarà
lì certo per farti i complimenti per come hai arredato casa
tua! Anche perché è
arredata in modo orribile. E sì, mi sei
mancata…»
Le zecche
erano tornate.