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Autore: _Blanca_    22/03/2016    6 recensioni
«Mi segue» disse Anna.
«Di che cosa parlate, miss Hawkins? Chi vi sta seguendo?»
«La morte.»

Ottobre 1875. Dalle coste della Nova Scotia, Anna Hawkins si imbarca per l’Inghilterra, dove vivrà con gli zii Woodhams, ricchi borghesi del Kent. Anna sa che vivere nel cuore dell'Impero, tra i bianchi sudditi della regina Vittoria, non sarà semplice. Lei è una Metis. È figlia di un inglese, che ha fatto fortuna come cacciatore di taglie, e di una donna della Prima Nazione. Ma Anna sa anche di non poter tornare indietro. Il suo viaggio è una fuga. Una fuga dalla solitudine, dalle responsabilità, da un destino che la terrorizza. La nuova esistenza nel Kent, tuttavia, si rivelerà diversa da qualsiasi speranza o timore. Anna dovrà affrontare i segreti di una vecchia casa e di una stanza che non deve mai essere aperta; dovrà tenere testa a una zia decisa a odiarla e a uno scrittore di racconti del terrore, capace di dare un’impronta fin troppo realistica agli incubi di carta e inchiostro. E, sullo sfondo del tutto, toccherà a lei risolvere l’enigma di un misterioso suicidio.
Genere: Horror, Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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1.

A Vale.
Per i tanti pomeriggi passati a tessere storie insieme.
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— Summa Supplicia —




I. Al George Inn




1875. Inghilterra

Anna Hawkins aveva sempre vissuto in punta di piedi sul limitare di mondi diversi; mondi verso i quali non le era concesso reclamare piena appartenenza. Li guardava come si guarda un paesaggio attraverso il vetro di una finestra chiusa: benché potesse osservare tutto, nitidamente, ne restava separata. E osservando Brewer Street, da una stanza al secondo piano dello George Inn, la consapevolezza di essere un’estranea tra estranei era forte come mai.
Maidstone era dolorosamente diversa dalle cittadine della Nova Scotia: non c’erano ariose strade sterrate, né case di legno bianco, né una natura aspra come il profumo delle foreste di abeti. Qui gli edifici, dai tetti scuri e aguzzi, se ne stavano stretti l’uno all’altro, come soldati impauriti. Alcuni erano di mattoni rossastri, altri di un malsano giallio, altri ancora parevano anneriti dalla fuliggine. Colonne di fume eteree e pallide, come fantasmi, si levavano dai comiglioli, dissipandosi in un cielo grigio. Di tanto in tanto, una carrozza, o un calesse, passava lungo la via: il ferro degli zoccoli cozzava contro il selciato, sembrava il martellare di un fabbro. Lontano, un orologio batteva l'ultimo di cinque colpi.
Anna studiava il via vai di fauna umana: la gente entrava e usciva dai negozi; fermi sul marciapiede, tre uomini fumavano sigari, grossi come salsicce, e un drappo di nebbia serpeggiava tra di loro; più in là, una coppia di signore se ne andava a passeggio sottobraccio. Sfoggiavano vite strettissime, sederi sporgenti e cappellini di paglia ornati di nastri e piume. Una bimbetta le avvicinò: portava una gonna piena di toppe, un cencioso scialle sul capo e una cesta di arance tra le braccia. Anna comprese, dai gesti, che la bambina stava cercando di vendere la frutta, ma le ricche donne le rivolsero soltanto uno sguardo e una parola, come chi getta briciole ai passeri, e perseguirono fino a scomparire dietro l’angolo con Wheeler Street.
L’attenzione di Anna rimase sulla bambina ― le ispirava una tristezza amara, che andava sommandosi alla propria inquietudine ― e quando la piccola si sottrasse alla sua vista, imboccando un vicolo, Anna sospirò, piantò le mani sui fianchi e prese a camminare avanti e indietro. Le assi scricchiolavano sotto i suoi stivaletti dalle punte scolorite e lei si sentiva sorvegliata dal cipiglio solenne, vagamente nauseato, dell'ultima Hannover. Il ritratto della regina era l’unico quadro nella stanza; che era piccola, ammobiliata con sobrietà, riscaldata dalla stufa nell'angolo. Una vecchia borsa da viaggio e un baule stavano ai piedi di un letto intatto. Un cappottino rammendato e uno scialle di lana grezza erano appesi alla sedia; guanti senza dita e un rigido borsellino erano sul tavolo, dove una lampada ad olio, spenta, fungeva da umile centrotavola.
Anna udì un cigolio di ruote. Si riaccostò alla finestra. Una carrozza si era appena fermata davanti alla pensione. Ne scesero due uomini: indossavano lunghi pastrani e le falde dei capelli nascondevano i visi. Entrarono al George Inn, ma la carrozza non ripartì e Anna sentì riaccendersi le speranze. Prese un respirò e sedette sulla sponda del letto, con le dita intrecciate e la mani affossate tra le pieghe della gonna. Attese. E attese.
E nessuno venne a bussare.
Chiunque fossero i due uomini, non erano lì per lei. Così come non lo erano state le tre carrozze che aveva visto fermarsi alla locanda nelle ultime due ore. Quanto ancora avrebbe dovuto pazientare? Possibile che si fossero dimenticati di lei?
Anna si alzò. Prese il borsello e liberò la cinghia che lo teneva chiuso. Ne cavò fuori una pistola, piccola come la sua mano: una lucida derringer con la canna argentata e l’impugnatura color avorio. Prima la guardò, inclinando il capo, come si guarda un gingillo diventato troppo familiare per suscitare interesse; poi, la mise da parte ed estrasse un plico di fogli tenuti assieme da uno spago. Erano lettere e telegrammi; nell’indirizzo del mittente comparivano le parole Bon Fleur Place. Era stata Anna a cominciare la corrispondenza. Sarebbe stata in grado di recitare a memoria il contenuto di ogni singola lettera, tante volte le aveva lette e rilette, prima e durante il viaggio in mare.

Mia cara zia Woodhams

aveva scritto lei, mesi addietro,

sono vostra nipote Anna. Non ci siamo mai scritte, ma so che mio padre vi mise al corrente della mia nascita, più di venti anni fa. Io devo scrivervi, col lutto nel cuore, per comunicarvi che il mio caro padre ci ha lasciato. Riposa già da tre giorni accanto alla tomba di mia madre. Sono a conoscenza della rottura dei rapporti tra voi e mio padre, ma negli ultimi giorni, prima della sua morte, egli mi confidò il proprio rammarico per essersi allontanato da voi, sua sorella maggiore. Spero di fare cosa gradita allo spirito di mio padre, se scrivo con la speranza di un ravvicinamento. Non ho nessuna pretesa e non vi presento nessun obbligo.
Vi chiedo soltanto una parola gentile.
Vostra nipote,
A. Hawkins

Dall'Inghilterra era giunta una risposta che era andata ben oltre le tiepide speranze di Anna.

Nipote adoratissima,
la notizia della morte di Jonathan ci ha addolorato tutti.
Prima che anche per me giunga la più triste delle ore, permettimi di fare ammenda. Un viaggio è una richiesta non da poco, per una donna giovane e sola, ma quale gioia sarebbe averti qui in Inghilterra. Vorrei avere la possibilità di prendermi cura di te, come di una figlia, e mostrarti l'affetto che per troppi anni è stato negato a Jonathan, per motivi che adesso mi si rivelano in tutta la loro egoistica vanità.
Con affetto,
V. Woodhams

Un telegramma dopo l’altro, erano stati presi accordi, stabilite date e fatte promesse.
Anna mise via le carte, e con loro il borsello, decisa a scendere al pian terreno.
Nella calda saletta, dalle pareti rivestite di pannelli di legno, ronzavano solo ospiti uomini: fumavano sprofondati nelle poltroncine rosse; bevevano vino, sorseggiavano tè; e ciarlavano tutti assieme, in un gran brusio. In quel nuovo Paese, la gente, pur parlando la sua stessa lingua, lo faceva con un accento che a tratti rendeva ad Anna difficile capire cosa si dicessero. Ma mentre si spostava per la sala, lei non badò a nessuno, né si prese il disturbo di controllare che qualcuno stesse badando a lei. Rivolse la parola soltanto a un cameriere, per chiedergli se sapeva dove abitasse il signor Walter Woodhams di Bon Fleur Place.
«Woodhams? Il Woodhams del birrificio su Buckland Road?»
Anna disse di sì.
«Fuori città. A quasi quattro miglia da East Farleigh. Dovete andare laggiù, signorina?»
«Dovrei, sì...» tagliò corto Anna. Ringraziò il cameriere e tornò sui suoi passi. La stanchezza le suggerì la scelta più opportuna: presto il sole sarebbe tramontato e lei poteva permettersi di trascorrere una notte al caldo. Se quella sera nessuno fosse venuto a chiedere di lei, avrebbe trovato l’indomani mattina il modo di raggiungere Bon Fleur Place.
Anna era appena uscita dalla saletta, quando una donna, che sparecchiando il tavolo vicino aveva origliato la conversazione, si accostò al cameriere.
«Davvero cercava i Woodhams
«Sì. Strano, vero?»
«Dev'essere la domestica nuova. Ho sentito che cercavano qualcuno che andasse a servizio da loro. Ma quella deve venire da parecchio lontano. Hai sentito che accento? E che pelle scura. Sembra una zingara.»
«Per forza deve venire da lontano» disse il cameriere. «Anche l'altra è venuta da fuori. Dopo quello che è successo dai Woodhams, dove la trovano, qui in città, una disposta a lavorare da loro?»
Mentre il cameriere parlava, dietro di lui, un uomo seduto a un tavolo solitario, chiuse con lesta delicatezza il libricino sul quale aveva tenuto lo sguardo fino a quel momento. Raccolse guanti e capello e lasciò la sala.
All’ingresso, deserto, Anna era a metà della scala, quando udì una voce maschile.
«Miss!»
Anna non era abituata all’appellativo di miss: non pensò che il richiamo fosse rivolto a lei; e salì altri tre gradini.
«Miss Hawkins!»
Anna si fermò, voltandosi.
Un giovane uomo, ai piedi della scala, chinò il capo a mo’ di saluto. Le sorrideva: un sorriso fievole, che sembrava costargli fatica. Aveva il volto pallido, asciutto, sbarbato e vestiva di scuro; la cravatta di seta blu era magistralmente annodata attorno al rigido colletto bianco della camicia. Guanti e cappello erano serrati tra le lunghe dita nervose, contro la gamba destra. Nella mancina, stringeva un libretto. «Perdonatemi. Questo modo di rivolgervi la parola è sfrontato: ne sono consapevole» disse lo sconosciuto, in tono pacato. «Ma ho accidentalmente udito la vostra conversazione con il cameriere. Dunque, voi siete la nipote di Walter Woodhams? Siete la figlia di Jonathan Hawkins?»
Anna poggiò una mano sulla balaustra, aggrottando le nere ed erte sopracciglia.
«E voi chi siete?»
L’accenno di sorriso, sulle labbra sottili dello sconosciuto, acquistò una sfumatura di scusa. «Il mio nome è William Hall. Sono un amico del signor Woodhams. Mi ha informato lui, personalmente, del vostro arrivo. Ma mi è parso di capire che siete bloccata, qui, al George Inn? Conosco abbastanza vostro zio da azzardarmi a pensare che abbia ― come posso dire? ― perso di vista il calendario.»
Anna notò che William Hall non parlava come gli altri: infondeva precisione, eleganza quasi, in ogni parola; le accarezzava, come fossero ninnoli preziosi. Lei teneva ancora la mano sulla balaustra. Esitava. Non era una sprovveduta. Nutriva nei confronti degli uomini, in particolare gli uomini bianchi, scarsa fiducia e pochissima considerazione. D’altra parte, aveva sempre potuto constatare che gli uomini erano in grado di mantenere un'altissima considerazione di loro stessi senza l’aiuto di nessuno.
Il cruccio sulla fronte dovette tradire la sua diffidenza, perché William disse: «Desidero soltanto rendermi utile, miss Hawkins. Sarei lieto di mettere una delle carrozze della mia famiglia a vostra disposizione. Tuttavia, non posso offrirmi di accompagnarvi. Un impegno irrimandabile mi trattiene qui. Inoltre, voi capite, non sarebbe appropriato condividere una carroz―»
«Quanto parlate» lo interruppe Anna. «Accetto la carrozza. Grazie.» Girò i tacchi e sparì su per le scale.
In camera, non ebbe ripensamenti: era pressoché impossibile che quel tale, quel William Hall, mentisse; in che altro modo avrebbe potuto conoscere il nome di suo padre? Lei era giunta a Maidstone quella mattina stessa. Nessuno la conosceva. Doveva essere stato necessariamente lo zio Woodhams a parlare di lei a William Hall. Al che, si sentì in dovere di mostrarsi un poco più garbata con quest’ultimo e, in capo a cinque minuti, fu di nuovo al pian terreno, ad allungare il collo in cerca dell'uomo.
Lo ritrovò subito: lui aveva occupato una poltrona vicino alla finestra. Se ne stava con le lunghe gambe accavallate, un gomito sul bracciolo e una mano davanti alla bocca, immerso in quella che sembrava una greve e malinconica contemplazione della strada: l’andirivieni per Brewer Street si era fatto rado.
Anna gli sedette difronte, senza inviti e senza permessi, tant'è che William non fu il solo a voltarsi con un velo di stupore nello sguardo. Ma fatta sparire la sorpresa dagli occhi cerulei, recuperò alla svelta un sorriso e disse di aver mandato a chiamare Benton, il cocchiere. Sarebbe stato lì in pochi minuti.
Anna rispose di non avere fretta.
E cadde il silenzio, mentre attorno a loro il chiacchiericcio non conosceva pause.
«Vi ha raccontato altro mio zio - di me?» tentò di scoprire Anna.
«Solo che siete sua nipote acquisita. Nata e cresciuta nelle vecchie colonie.»
Di nuovo, silenzio.
Poi, fu William a riprendere: «Posso chiedervi come è stato il viaggio?»
«Lungo e scomodo.»
«Mi auguro che l’Inghilterra sappia ripagarvi della fatica.»
Anna scrollò le spalle.
«Posso farvi un’altra domanda, signorina Hawkins?»
«Se la smettete di chiedere il permesso, sì.»
«Avete viaggiato sempre da sola?»
Anna sbuffò. «Che idea! Certo che no! Cosa credete? Che io sia capace di condurre da sola un piroscafo da una parte all’altra dell’oceano? Ero in compagnia di un equipaggio e due centinaia di passeggeri.» Non le riuscì di decifrare il sorriso di William: aveva colto l'ironia? O si credeva sbeffeggiato? Per scongiurare un terzo silenzio, subito continuò: «Cosa siete voi?»
«Al momento, in parti eguali incuriosito e perplesso.»
«Intendo: qual è la vostra professione? Di che vi occupate?»
William si volse verso la finestra, umettando le labbra.
«Di tenere viva l’illusione di essere un uomo di penna.»
«Ah, scrittore. Ho incontrato uno scrittore. Una volta.»
«E come lo avete trovato?»
«Morto.»
«Prego?»
«Era un funerale ― più che un incontro.»
«Oh.» William si schiarì la gola. «E che cosa accadde al poveretto?»
«Niente che si possa ricondurre a me» disse Anna, spicciola.
William corrugò la fronte spaziosa e innalzò un sopracciglio. Schiuse la bocca e, dopo una fugace occhiata oltre finestra, annunciò: «Benton è arrivato.»
Difatti, c'era un cab davanti all’ingresso della pensione: il cocchiere stava scendendo dalla cassetta, collocata in alto, sul retro della signorile vetturina.
Anna tornò in camera per indossare cappotto e scialle; infilò i guanti e agganciò il borsello alla vita. Quando fu di nuovo nell'atrio d'ingresso, William Hall la stava aspettando, con la tuba di velluto calcata sui lucidi riccioli neri e le mani dietro la schiena. Anna si accorse che era piuttosto magro, e molto alto; lei arrivava a malapena al suo petto.
William la scortò fino al calesse. «Portate i miei saluti a vostro zio. E a vostra zia. Sono certo che il vostro arrivo non la troverà indifferente.» Nel sorriso di congedo dell'uomo, Anna scorse un che di diverso: una piega di intima ilarità, vaga e sfuggevole, che per un motivo che non seppe spiegarsi le suscitò un vago, quanto improvviso, nervosismo.
William chiuse lo sportello, fece un cenno al cocchiere e il calesse partì.
Gli interni del cab erano scuri; più lindi e più eleganti di qualsiasi diligenza sgangherata su cui Anna avesse mai viaggiato prima. Presto, la ragazza dimenticò il sorriso di William Hall e riuscì a rilassarsi, al centro del sedile imbottito; attorno a lei, i vetri e le pareti vibravano appena. Era piacevole non avere più sotto al sedere i duri sedili di terza classe del treno che l’aveva portata da Londra a Maidstone. Ed era piacevole non avere più come compagni di viaggio il russare di una corpulenta vicina, il pianto stridulo di un neonato e il lezzo del sudore altrui.
Il calesse procedeva veloce. Abbandonata la città, la vettura si gettò tra le umide braccia della campagna. Le ruote affondavano nel fango mentre, dagli strappi tra le nuvole, una bella luna tonda iniziava a diffondere il proprio chiarore sopra i placidi campi bruni, sopra le pettinate distese di verde e sopra le acque del Medway. La strada seguiva il fiume ed era abbastanza vicina da permettere ad Anna di scorgere, oltre la cortina di alberi, la coda di un battello e il volo di qualche gabbiano solitario.
Dalla parte opposta al fiume, verso sud, incontrarono presto le luci del villaggio di East Farleigh. Passato il villaggio, giunse un bivio. La strada saliva verso un’altura, sulla cui sommità sorgeva una grande casa bianca, in parte nascosta dalla vegetazione. Nessuna luce brillava dietro le finestre.
Anna si sorprese quando il calesse superò il bivio tirando dritto e la bella casa divenne un puntino alle loro spalle.
Quasi dieci minuti di scalpiccii e sussulti più tardi, lungo il bordo della strada, apparve l’inizio di un muretto; il muro condusse a un cancello di ferro battuto, aperto. Un viale di ghiaia, arginato da una pittoresca fila di piatti massi, serpeggiava con dolcezza su per una pendenza, terminando ai piedi di tre gradoni di pietra.
Benton tirò le redini e il calesse si fermò: Bon Fleur Place era una villa a tre piani, grande, ma non imponente, sebbene chiunque l’avesse costruita avesse chiaramente tentato d’impregnarla della solennità di un castello o di un’abbazia. Le finestre erano incassate in cornici sormontate da piatti archi; il portone si nascondeva nell’ombra di un portico quadrato e intrecci di fiori e foglie, scolpiti nella pietra, si contorcevano sui capitelli e sul frontone. Ai lati dell’ingresso due torrette, dai tetti a cono, coperti di tegole nere e piatte come le scaglie di un serpente, si stagliavano orgogliose contro il livido cielo della sera.
Benton aprì lo sportello del cab.
«Siete a casa, miss.»











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➽ Note autrice.
Summa Supplicia è il primo lavoro originale che metto in rete, ma è necessaria una puntualizzazione. I protagonisti di questo capitolo (Anna Hawkins e William Hall) sono un’evoluzione di personaggi creati per un gioco di ruolo, ormai chiuso da tempo, di genere sovrannaturale/moderno. Sulla prima, rivendico la piena paternità; in quanto al secondo, è opera di una compagna di giochi — Aliisza — che mi ha autorizzata a rielaborarlo in versione vittoriana.
Questa storia, quindi, nasce dalla voglia di calare dei personaggi a cui sono affezionata in un contesto nuovo e diverso. La presenza di tropi del genere gotico e horror è voluta, ma spero di averli rimescolati abbastanza da non presentarli come noiosi cliché. Riguardo all'accuratezza storica, ho cercato di restare fedele alla realtà del luogo e dell’epoca. Sugli elementi esoterici, sia occidentali sia della cultura nativa americana, invece, non c’è niente da prendere come realistico.
Per concludere, ringrazio chiunque vorrà soffermarsi su queste pagine.


   
 
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