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Autore: alwaysursluke    24/03/2016    6 recensioni
“Oh, andiamo, hai l’occasione di ricominciare e lasciarti tutto alle spalle. Sai quante persone lo vorrebbero?”
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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II.
Il dott. Irwin tornò una ventina di minuti dopo che Heather fu rientrata nella sua stanza d’ospedale, ancora più amareggiata di prima.
— Allora, Heather, ho appena parlato con i tuoi genitori, e, se e quando tu sarai d’accordo, potrai incontrarli. —
— Che vuol dire se e quando? Sono i miei genitori, è ovvio che io voglia vederli! —
Heather si sentiva stordita. Una parte di lei – una grossa parte di lei – le diceva che quelle persone erano estranei, che non era pronta e vedere i loro visi distrutti e a realizzare che fosse colpa sua e che non potesse fare niente al riguardo; ma un’altra parte le diceva che se li avesse visti, magari qualcosa sarebbe scattato. Qualcosa che le avrebbe fatto tornare alla mente ricordi.
Il dott. Irwin poggiò le cartelle che aveva in mano sul tavolo di plastica all’angolo della stanza e si avvicinò al letto.
— Ascolta, Heather, so che tu lo dici con le buone intenzioni, perché speri di ricordare qualcosa, e non posso neppure immaginare quanto questo desiderio sia forte, ma ti sei svegliata da un coma di una settimana appena un’ora fa, e non sappiamo ancora cosa sia successo nella tua mente durante questo tempo. — Heather cominciava a perdere il filo del discorso. — Non voglio essere la persona che ti ha impedito di vedere i tuoi genitori e che ha distrutto una speranza... dico solo che, se tu avessi avuto un’amnesia – perché ormai penso tu abbia capito di cosa si tratti – solo dei scorsi cinque anni, magari vederli sarebbe stato d’aiuto, ma nel tuo caso... —
— Sta dicendo che non c’è speranza io recuperi la mia memoria? — domandò Heather con un pizzico di irritazione, quando capì cosa il dottore volesse dire.
Lui spostò lo sguardo da lei ai fiori che erano stati portati e che si trovavano sul comodino accanto al letto d’ospedale. Erano peonie rose e margherite bianche. Pensò che dovesse adorarli una volta, ma adesso non le dicevano niente.
— Sai quanti anni hai, Heather? — chiesi poi il dottore, rialzando il suo sguardo su di lei. Sembrava che quella domanda fosse più complicata di quello che appariva, e non ebbe nemmeno la forza di arrabbiarsi col dottore perché, andiamo, o si stava prendendo gioco di lei (ed era una cosa davvero crudele) o era una domanda davvero importante. Ma non le andava di pensarci troppo su. Era stanca di pensare così tanto.
— Non lo so. — rispose con voce atona.
— Be’, io sì. Hai diciotto anni. E hai una bellissima famiglia. E i tuoi genitori hanno acconsentito che io ti raccontassi cosa è successo una settimana fa. Hai avuto un incidente stradale, come tu sai. I tuoi genitori ti avevano fatto, come regalo per la promozione all’ultimo anno di scuola, un weekend col tuo ragazzo in una baita di montagna di proprietà della loro famiglia. Ma quando stavate tornando... —
— Come si chiamava il mio ragazzo? — Le fece strano pronunciare quella parola e poi non ricordare neppure il nome di quella persona.
Il dott. Irwin sospirò, come se fosse successo qualcosa di sbagliato.
— Perché si è salvato, vero? — domandò Heather con più ansia di quella che si aspettò di trovare nella sua voce. Non voleva avere sulla coscienza un’altra persona che comunque non avrebbe ricordato. Sarebbe stato il culmine.
— Oh, sì, si è salvato, tranquilla. Il fatto è che... ha chiesto se fosse possibile non fare il suo nome o qualunque suo riferimento. —
Heather, nonostante non conoscesse quel ragazzo, lo odiò, e pensò che fosse davvero una cosa spregevole quella che aveva fatto. Lo odiò e si sentì ancora più amareggiata, come se lei fosse una persona che non valeva la pena di conoscere, se si aveva l’opportunità.
Come un reset. La sua testa si era appena resettata.
Lo sguardo della ragazza era vuoto e perso. Aveva solo voglia che il dottore uscisse e le facesse vedere i suoi genitori come attraverso una vetrina di un negozio di vestiti: se le fosse piaciuto ciò che vedeva lo avrebbe preso, altrimenti no. Se avesse riconosciuto i suoi genitori, li avrebbe accettati, altrimenti no. E sapeva che era crudele, ma sentiva che loro potevano essere la su unica speranza o la sua condanna. Sarebbe scoppiata se non li avesse riconosciuti.
— Heather? —
Si accorse che il dottore era davanti a lei e la stava chiamando.
— Oh, sì? —
— Non mi sembra il caso di far entrare i tuoi genitori– — le disse, probabilmente dopo aver visto quanto tutto quello l’avesse colpita. Ma come poteva pensare non fosse così?
— Ma io voglio vederli. — affermò decisa.
Il dottore esitò un momento senza dire nulla, poi: — Va bene. — disse, e si dileguò.
Heather ebbe appena il tempo di pentirsi di tutta quella sicurezza e lasciar sgretolare il castello di speranze che si era creata, che due signori con lo sguardo pieno di trattenuta impazienza e un dolore straziante entrarono.
La donna – quella che era sua madre – aveva un caschetto nero che le accarezzava dolcemente il collo e degli occhi verdi, adesso lucidi. Sembrava molto più giovane di come Heather se l’era immaginata. Eppure, quando cominciò ad avvicinarsi, poté notare le piccole rughe intorno agli occhi e alla bocca, segno anche della stanchezza o di quel dolore che le sembrava quasi tattile.
Una morsa le attanagliò lo stomaco.
L’uomo accanto a quella donna aveva i capelli più chiari, sul castano scuro, che si curvavano dietro l’orecchio – si notava fossero stati manomessi da mani agitate più volte. Aveva gli occhi azzurro chiaro, e Heather sperò di essere almeno la metà di quanto erano belli loro.
Si tenevano le mani e alle dita avevano delle fedi nuziali che fecero venire a Heather la voglia di piangere.
— Oh mio dio, Ettie! — urlò subito quella che era sua madre, lasciando la mano del marito e portandola alla bocca. Heather poteva vedere i suoi occhi inumidirsi mentre correva verso di lei.
Ettie? Doveva essere il suo soprannome, capì. Si lasciò abbracciare, perché non solo lei aveva perso qualcosa. Non voleva ferire ancora quelle persone, eppure, sin da quando erano entrati, e tutt’ora che la stavano guardando con tanto amore da regalarne ai bambini orfani, lei non vi aveva riconosciuto nulla.
Per Heather, quelle erano solo due persone che avevano appena perso una figlia. Probabilmente per sempre.
E si sentì maledettamente, tremendamente sofferente per questo. E per la prima volta, capì che forse il male peggiore non era capitato a lei.
I suoi genitori erano rimasti con lei per una buona mezz’ora, e sarebbero rimasti anche di più se Heather non avesse finto di essere stanca e avere bisogno di riposo. Il che era vero, ma non aveva realmente intenzione di mettersi a riposare. Non dopo tutto quello che era successo. La stanchezza nel suo corpo era contrastata dalla dieci volte più intensa adrenalina.
Inizialmente, Elizabeth e Cole avevano taciuto per un po’, seduti sulle sedie scomode dell’ospedale, alternando lo sguardo da lei alle loro mani. Non sapevano che dire, ed era comprensibile. Parlare del passato? Paura di turbarla. Parlare di quello che le era successo? Metà del racconto non potevano nominarlo perché riguardava il suo ex–ragazzo, che poi non voleva più avere nulla a che fare con lei. Non che ricordasse nulla di lui. O nulla in generale dell’incidente.
Si sentiva inutile, e quello era ancora peggio.
Poi, avevano cominciato a parlare di quello che le piaceva fare, di quello che le piaceva mangiare.
Aveva persino una migliore amica, Leona. Non che quello fosse qualcosa di tanto sconvolgente, ma come avrebbe fatto a fronteggiare tutto questo? E tutte quelle persone a cui avrebbe solo causato dolore, involontariamente?
Sospirò, ancora nel suo letto, e portò le dita alla tempia, pensando che quel mal di testa dovesse essere aumentato con la visita dei suoi genitori.
Decise di andare a cercare un’infermiera o il dottore per chiedere qualcosa da prendere, e uscì dalla stanza.
— Mi scusi, sono la ragazza della stanza 104. Ho un forte mal di testa, ha qualcosa da darmi? — chiese alla prima infermiera che trovò. Questa annuì e le disse di aspettare nella sala d’attesa, mentre lei recuperava un’aspirina o qualcosa di simile.
Heather fece come detto, anche se le avrebbe davvero voluto chiedere di cercare anche un sonnifero o qualcosa di pesante, perché la medicina per il mal di testa non l’avrebbe fermata dal torturarsi mentalmente.
Sospirò, ritrovandosi ad aprire le palpebre che non sapeva di aver chiuso. Subito una figura fece capolino nella sua visuale.
Era il ragazzo di qualche ora prima, che stazionava davanti a lei, con le mani nelle tasche e uno sguardo indeciso. Non appena si scambiarono un’occhiata, lui sembrò immobilizzarsi sul posto, come se non fosse stato preparato al fatto che lei potesse riaprire gli occhi.
Si guardarono per svariati secondi, finché lui non dondolò sui talloni e disse: — Ciao. —
Lei non rispose, ma rimase a guardarlo con distaccato interesse.
— Ehm, volevo solo scusarmi per quello che ho detto ‘stamattina. — Abbassò lo sguardo sulle sue vans nere.
Heather scosse la testa. — E’ okay. —
Poi tornò a guardarlo e si accorse che le sue spalle si erano ammorbidite ed erano immensamente larghe sotto quella camicia rossa a quadri nera. I suoi occhi azzurri non erano più spenti, e Heather si rese conto che il loro colore accesso e intenso era più bello.
Pressò le labbra in una fessura e poi – dopo un’apparente lotta interna – si sedette accanto a lei.
Heather riconobbe l’odore di thè verde e agrumi su di lui (o meglio, sui suoi vestiti), un mix un po’ azzardato, ma che gli donava. Riuscì ad immaginarselo mentre prendeva gli abiti lavati dalla madre dalla cassettiera per indossarli.
Si chiese come le fosse venuto quel pensiero. Un po’ di eccitazione le crebbe dentro, perché magari era un ricordo che la riguardava ma che inconsciamente aveva associato a qualcun altro.
Stava per sorridere, quando il ragazzo accanto a lei (si era dimenticata fosse ancora lì), parlò: — Mi piace il tuo tatuaggio. — Quando Heather lo guardò, notò che i suoi occhi erano fissi su un piccolo segno sulla sua mano destra.
Concentrando lo sguardo, scoprì fosse un piccolo cuoricino sul dorso, appena sotto il pollice, della grandezza di una noce. Per metà l’inchiostro era nero, mentre per l’altra metà era bianco, e aveva intorno un’area rossastra. Non sembrava essere stato fatto molto precisamente: le linee sembravano oscillare un po’ e delle parti erano più ricalcate di altre. Portandovi un dito sopra, scoprì fosse leggermente in rialzo, il tracciato del tatuaggio, e capì che dovesse essere recente.
Quando realizzò che probabilmente lo aveva fatto nel weekend nella baita in montagna, le prese un colpo al cuore.
Te lo avrà fatto lui, pensò, ma ciò non migliorò come si sentisse in quel momento.
Il suo respiro si era fatto improvvisamente tremante e solo poco dopo si accorse di star leggermente tremando.
Avrebbe avuto per tutta la vita un tatuaggio che non avrebbe ricordato di aver impresso, fatto da un ragazzo che lei non avrebbe ricordato e che non voleva ricordare lei, e che, per di più, le avrebbe sempre riportato a mente ciò che era successo.
— Ehi. — Il ragazzo poggiò titubante una mano sulla sua. Ma quando il contatto avvenne, sembrò rilassarsi e intrecciò le sue dita con quelle di lei. — Mi piace il casino. — le mormorò dolcemente, cercando di far alzare il suo sguardo.
Lei, poco dopo, lo fece, e si perse nel calore e nella sicurezza che quegli occhi emanavano. Come se, in quella vita incerta che le era stata imposta, lui fosse qualcosa di certo.
Come se fosse la stella da seguire quando si smarrisce la strada.
Come se fosse la sua ancora.
Ma come poteva succedere?
Strinse la sua mano involontariamente e pensò che avrebbe tanto voluto avere quell’effetto con i suoi genitori.
— Cosa? — domandò lei con tono smarrito, rendendosi conto di non aver ascoltato ciò che aveva detto. Lui sorrise, il che non aiutò il senso di stordimento della ragazza.
Si ritrovò a rimproverarsi per sentire quelle cose con lui, quando aveva appena saputo di avere un amnesia che si sarebbe portata dietro per tutta la vita, probabilmente.
— Ho detto che mi piace il tuo casino. —
Lei sorrise, ma più come se volesse rassicurare lui, perché era stato così carino con lei.
Era confusa. Qualcosa dentro la sua testa si stava muovendo, e lei sperò fosse un ricordo, magari di ciò che provava per il suo ex–ragazzo.
— Ti va di uscire di qui? Solo per poco. Ho bisogno di compagnia e distrazione da tutto questo, — Fece un ampio gesto per indicare la sala d’ospedale. — e mi sembra anche tu. — Arricciò il naso adorabilmente, pensò Heather.
Lo guardò per un tempo che a lui parve infinito, poi annuì, alzandosi.
Rimasero con le mani l’una nell’altra e a lei bastò seguire lui, che li portò lungo un paio di corridoi, quindi entrarono di soppiatto in una porta. O meglio, uscirono. Sembrava che lui conoscesse a memoria quel posto.
La porta dalla quale uscirono sbucava sul retro dove le cucine probabilmente gettavano il cibo avanzato, perché c’erano buste nere accantonate agli angoli del muro e secchioni dell’immondizia colmi. E, come per dare un tocco di classe, aleggiava nell’aria la puzza di muffa e pesce marcio.
Heather e il ragazzo misterioso risero e si incamminarono oltre quella via, sbucando su un prato verde all’inglese, sul quale, qua e là, spuntavano alberi non troppo ingombranti e tenuti decisamente con cura.
Heather notò che fosse sera, probabilmente l’ora di cena, e si chiese per chi fosse lì quel ragazzo.
Lui la porto sulla l’erba, umida sotto i suoi piedi nudi, e vi si accucciarono sopra, nascosti dall’ombra di un arbusto. Fuori non c’era nessuno, a quell’ora, se non qualche parente di pazienti che fumavano per il nervoso o semplicemente respiravano boccate d’aria. Heather notò che c’era una donna, seduta sui scalini dell’entrata di emergenza, che piangeva con le mani sul viso. Le venne in mente l’immagine di sua madre, e ancora una volta si sentì in colpa verso quella donna a lei sconosciuta, ma che una volta amava.
E le venne da piangere anche per se stessa, perché non sapeva ancora come sarebbe andata avanti se già dopo una sola ora e mezza dal suo risveglio di un coma, avrebbe preferito morire in quell’incidente. Avrebbe risparmiato tutto quello.
— Andrà bene, okay? — esordì il ragazzo che si era persino dimenticata di avere accanto. Aveva lasciato la sua mano e adesso esse si sfioravano a malapena. — Qualunque cosa ti sia successa, andrà bene, perché sei viva. — continuò, guardandola dritta negli occhi con convinzione.
Lei credette a quella bugia, per un attimo.
La più bella bugia che qualcuno le avesse mai detto.
— H–ho visto tua madre, ogni tanto, nei giorni passati, girovagare per i corridoi. Insomma, se ti stavi chiedendo perché ti stia dicendo queste cose e–e... sì, voglio dire... —
— Grazie. — Interruppe il suo discorso impacciato, notando le sue guance leggermente tracciate da un torpore rosa. Era carino da parte sua dire quelle cose.
Poi sospirò e tornò a guardare davanti a sé, come se il contatto con lo sguardo di lei gli facesse male.
— Perché sei qui, a proposito? — domandò Heather, aggrottando le sopracciglia.
— Uhm, la mia ragazza ha dovuto fare un’operazione. Nulla di grave. — Annuì, ma senza guardarla, come per convincere se stesso. Oh.
Qualcosa si scatenò dentro di Heather e il mal di testa sembrò tornarle tutto d’un tratto.
— Oh, okay. —
Pensò che sarebbe dovuta rimanere almeno per le medicine, prima di uscire con...
— Come ti chiami? —
— Luke. —
— Mi piace. — ammise involontariamente lei, senza pensarci, e questa volta toccò a lei arrossire. Si morse il labbro e arricciò il naso, chiedendosi perché l’avesse detto ad alta voce. Lui le sorrise.
— E tu? —
— Heather, ma a quanto pare puoi chiamarmi Ettie. — disse lei, tirando un sospiro. Le sarebbe piaciuto ricordare suo padre pronunciarlo quando era arrabbiato con lei.
— E a te piace? — Lui la distolse dai pensieri, e pensò che fosse meglio così, infondo.
Fece spallucce. — Non lo so. Forse. —
— Chi sei, Ettie? — sputò di getto. Ma non in modo rude o invadente. Il suo tono era pieno di qualcosa che Heather non riusciva a decifrare. Come se fosse stato pronto a scoprirlo, fino in fondo. Lo disse spontaneamente, perché sembrò voler ritirare quelle parole subito dopo, ma non lo fece.
— Non lo– —
— No, intendo... chi sei? Chi vuoi essere? Ti è successo qualcosa di brutto? Qualcosa che non puoi, vuoi ricordare? Bene. Decidi chi vuoi essere da adesso e vedrai che ci sarà qualcuno pronto a seguirti dovunque tu voglia andare. —
Lei sembrò rifletterci su.
— Non voglio essere sola. Questa è la prima cosa che desidero. —

 
  
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