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Autore: tp naori    25/03/2016    0 recensioni
Magnolia è mia ebbrezza alcolica, mio sogno, mia follia, mia speranza. Magnolia è il battere ogni lettera del suo nome sul palato. Questa storia racconta il modo in cui la conobbi e in cui la persi del tutto. Parla anche di morte, di storie, di notti, di settimane bianche..Parla di problemi, disagi, solitudine e malinconia..
Questa storia è un po' la mia vita, la sua, quella dei miei amici. Racchiude in se un pezzo di me, ma anche molti pezzi inventati.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Magnolia.


Sono sempre stato un’aspirante scrittore, nel senso che ho scritto molto, ma di quel tanto che ho scritto non leggerete nemmeno un verso. In questa marea di artisti più talentuosi, più geniali, più abili a vendersi io mi nascondo, o meglio io vivo costantemente e in perenne attesa; forse arriverà il mio turno o probabilmente ciò no accadrà mai. Ma tanto basta, infondo per me interessa solo scrivere.
È un’ossessione la mia, iniziata fin da quando lessi Whitman e il suo: Quale sarà il tuo verso.
Già, quale sarà il mio verso? In cosa contribuirò al mondo e alla suo progresso d’arricchimento intellettuale o artistico. Schiere e schiere di poeti, di autori, di musicisti. Il mio apporto quale sarà? Come portò elevarmi e avere anch’io una caratura in questo mondo.
Cosi mi aggiravo per le strade alla ricerca di qualsiasi dettaglio degno di nota, mi spostavo a piedi di solito. Lo preferivo come modo anche perché risparmiavo sulla benzina e perché avevo modo d’osservare meglio il tutto. Sin dalle strade strette del centro, fino hai campanili delle tre piazze della mia città. Qualsiasi cosa mi circondasse era per me un qualcosa di prezioso, perfino i profumi del panettiere, le voci delle persone, il rumore dei passi sul lastricato, il tubare dei piccioni e i mendicanti che coi loro lamenti erano in cerca d’attenzione.
In quell’anno ebbi modo di conoscere un po’ di persone, entrati in un’associazione di volontariato passando per tre corsi che mi tennero impegnato per un anno. Uno di questi non lo passai, guarda caso fu l’ultimo. Mi ritrovai ben presto invischiato in turni per andare in pediatria, campagne contro le malattie sessualmente trasmissibili, e quella contro gli episodi di bullismo. Come tutti i volontariati dovevi prenderti un bel po’ d’impegni, molta responsabilità infine. Era giusto, i fannulloni non erano graditi.
Buffo che io sia proprio una di quelle persone, la mia giornata era suddivisa fra pause in qui scrivevo, e momenti in cui oziavo sullo pseudo divano che mia madre mi confeziono usando un letto e una testiera in legno massiccio. Solo con l’apporto di molti cuscini e di un copri materasso, esso si trasformo nella mia dimora, o se vogliamo luogo di puro svago e perché no, anche video ludico. Ebbi modo di vedere molti film su quel divano, ebbi modo di prendere parte a battaglie epiche, guidai tutte le super car di questo mondo, esplorai Firenze nel suo massimo splendore, salvai galassie, deviai missili con l’ausilio della Forza, e infine fui abbandonato in un’isola selvaggia dove la follia regnava sovrana.
Tutte queste cose partirono dal mio divano, e rimasero in quelle quattro mura che componevano la mia stanza. Cessarono d’esistere totalmente quando conobbi meglio Magnolia.
Per arrivare al punto in cui la conobbi, bisogna fare molti passi indietro e partire come di consueto dall’inizio. Quindi, iniziamo questa ascesa verso Lei, unica creatura in grado di farmi impazzire, unica donna che viveva dei sogni che regalava, o istanti lunghi come baci rubati agli amanti ricongiunti al termine della guerra. Lei che componeva versi col la sua presenza, ho imparato la poesia grazie alla sua bellezza, nel futile tentativo di poterla descrivere meglio, fin all’essenza del suo essere.
Era infinita, etera, un qualcosa che non aveva mai fine, che non poteva averne. E che non potevi avere, ne potevi capire infondo, potevi solo afferrare la sua carne e sperare che lei ti dicesse chi era in realtà, o che almeno t’amasse. 
Ero passato da scrivere ogni giorno la bellezza di due pagine o molto di più a volte, al non scrivere più. Ebbi modo di lavorare per due mesi per un’azienda come risorsa umana, ovvero ero l’addetto che si trova in certi posti frequentati da molti visitatori che dava informazioni. Per lo più ripetevo le stesse cose tutto il giorno, districandomi fra l’Italiano, l’Inglese, il Francese, il Tedesco e un po’ di Spagnolo qui e là, aggiungendoci anche qualche battuta in dialetto e la frittata era ben cotta e pronta per essere servita.
Vario era il mondo, l’ho imparai al primo giorno. Capì anche quanto noi Italiani non siamo furbi, certo sappiamo come fregare gli altri, basta un sorriso, qualche false allusione, una faccia d’attore e via, c’e la caviamo. Ma per quanto riguarda all’intelligenza spiccia, quella che serve per andare avanti tutti i giorni, non ne abbiamo molta. Siamo chiusi in una mentalità vecchia di quarant’anni, non abbiamo lo stesso passo dei Inglesi, ne quello dei Francesi, non sappiamo districarci nemmeno in sistemi di trasporto ideati da noi stessi, figuriamoci se andiamo tutti a vivere in posti come Parigi o Londra.
Ergo che per intelligenza spiccia intendo semplicità, perché diciamocelo noi Italiani siamo più svegli in certe cose, più capaci perfino dei Giapponesi o Coreani.
Vidi molte belle ragazze sul posto di lavoro, m’innamorai quasi di tutte, specie delle Francesi. Con quel loro stile elegante, e quel filino d’arroganza che fa tanto cliché, e quella voce con cui di ringraziavano:
“Mercì” impazzivo quando dicevano “Minuit” era la cosa più dolce che mai avevo sentito. Mi arrovellavo addirittura per fargli dire ancora un’altra volta quella parola, quell’unica parola ripiena di promessa. Avevo avvertito il mio collega di lavoro d’avvertirmi, se vedeva delle belle ragazze francesi lui non doveva far altro che prendere la radiolina e avvertirmi. Ed ecco che io apparivo molto più veloce della luce al loro fianco, desideroso di sentire ancora, un’altra volta quell’unica parola.
Scucì un sacco di Minuit, e con essi ci colorai i miei sogni dolcissimi.
Lavorai giorno e notte, smisi di scrivere anche perché avevo poche idee al momento, e perché ero un po’ stufo di scrivere e basta. Iniziai con le poesie, mi ci dedicai per qualche mese, tirai fuori molti versi ma come disse un saggio: queste arpie vogliono altro, non le mie poesie.
Sono sempre stato attratto dall’amore, dal suo modo operandi di farci impazzire prima e poi lasciarci pieni di lividi. Quel suo sentirsi sotto pelle fremere, e l’agitazione nel basso ventre. Amavo l’idea d’amare una persona, ne osservavo ogni  dettaglio, ma mai che riuscissi a coglierlo. Mai che riuscissi ad ottenerlo. E nella testa pensavo che bastava solo un bacio, bastava sapere di che sapevano le sue labbra che il resto era solo noia, un qualcosa talmente insignificante da non poter esistere.
Quindi aspiravo all’amore completo, totalitario, inneggiando alla follia presente nei cuori di chi ama. Sulla resa di chi si concede quando ci si lascia amare. E sui fiori che sbocciavano sui contorni degli occhi di queste Dee. Foglio alla mano, penna nell’altra scrivevo e cercavo, cercavo quel verso, ancora e ancora. L’ho cercato per tutta una vita oramai, perché dovrei smettere proprio ora.
Infondo la mia ricerca poteva dare molti frutti, e chissà, magari scoprivo altre cose su questa vita malinconica. Perché lo era, tormentata da questo rimorso che ci consuma giorno per giorno. Si parte col: "Ti ricordi di quando io e te, andavamo in giro in bicicletta?" oppure "E quando saltavamo scuola per andarci a fare un giro?”. 
Tutti questi ricordi andati, che continuano in qualche modo ad essere costantemente, insistentemente evocati ogni, fottuta sera. Come se stessimo cercando qualcosa, come se alla fine ci manca quel piccolo particolare. Quel dettaglio insignificante, che si frappone fra il nostro accontentarsi e l'essere felici totalmente. Per non parlare di tutte quelle foto che costellano le nostre pagine, i nostri diari, con quelle scritte poi. Tvb, quando invece si dovrebbe scrivere: Ti ho voluto eternamente bene. Cosi per sempre, infondo abbiamo bisogno di un qualcosa che duri anche quando i nostri corpi saranno nient'altro che polvere. Cosi lavoravo e mi dimenticai per un po' la scrittura e questa  Ossessione. Venni messo alla prova, quando un mio caro amico che per forza di cose e censure dovrò chiamare P. mi invito nella sua casa.
Era un appartamento vivibile -se eri uno scapolo- composto da una cucina che dava su una sala, e un corridoio facente parte della sala, in più un bagno e una stanza da letto, la sua cucina era parte della sala
Molte feste si consumarono dentro quelle quattro mura, alcune con certi urli dei inquilini del piano di sotto, altre semplicemente con colossali sbornie, rischiando fra l'altro denunce per molestie. Di solito eravamo in tre, io P. e R. un'altro mio caro amico. Alla fine chissà  per quale motivo, ci trovavamo in venti persone in un appartamento di pochi metri quadri. Tenevamo semplicemente il nostro personale Woodstock, solo che non durava tre giorni. In effetti ora che ci penso, avremmo potuto provarci. Chissà cosa ne sarebbe uscito, bolgia, chiacchiere, sigarette e discussioni profonde
Questo carosello era parte fondamentale delle nostre vite sociali, invidiavo P., solo per il semplice fatto che aveva un appartamento tutto suo. Era fortunato ad avere un lavoro stabile, chi di questi tempi ne aveva uno? Considerando che lui era giovane, più giovane di me di un anno. Era anch'egli un'artista, faceva il fotografo. Come me non veniva assolutamente pagato, spesso mi diceva:
"La gente ha bisogno di foto che testimoniano il loro esistere, io sono quello che gli aiuto in questo frangente" Ed aveva ragione, dopo tutto. Questo suo particolare Hobby, lo portava molto spesso ha conoscere ragazze molto carine, alcune erano talmente succinte e sexy da farti perdere istantaneamente dodici litri di sudore o giù di li. Queste Dee, dai visi rosei, e le cosce di miele, si facevano fotografare da P. non solo perché era bravo, ma perché lui riusciva in qualche modo ha capire cosa queste ragazze volevano da queste foto. E devo dirlo, alcune erano cosi artistiche e cosi stupende, da poter essere scambiate come vere e proprie opere d'arte. Come già detto P. come me non era nessuno, anzi, un po' era conosciuto o almeno più di me. Tornando ha noi, la serata doveva svolgersi come sempre P. che lavorava sulle sue foto, apportando di solito qualche modifica di saturazione o altri termini tecnici che lui discioglie come parole giovanili come: "Ci si becca"o "Bro"o "Figa».  R. sarebbe passato dopo esser uscito da lavoro per parlare di lui e di noi, e della nostra associazione di volontariato. Quando dico nostra intendo che, entrambi la frequentavamo. E entrambi c'eravamo incontrati là, senza esserci cercati, ne voluti, ma solo trovati.In quella notte estiva, arrivai ha casa di P. con qualche attimo d'anticipo, cioè intendo un'ora all'incirca. Come spesso accadeva in quei giorni, lui era ha casa, lavorava al suo Hobby. Quando me lo disse dal citofono sperai di vedere una Dea in carne e poche ossa, racchiusa in quei pochi veli che dovrebbero coprirla. Ma niente, era solo al computer,  impegnato col suo programma grafico. Scambiammo qualche rapida battuta sul cosa c'era capitato nei nostri rispettivi lavori, niente da segnalare. Cosi passammo hai nostri secondi lavori, e fu in quel frangente che parlammo con molta più vivacità e sentimento. Gli dissi che stavo lavorando a qualche poesia, lui mi disse che aveva incontrato questa pseudo modella. E della sua bellezza, ne godetti tramite alcuni scatti in bianco e nero. 
"Perché la poesia, è cosi inutile. Nessuno la legge hai giorni nostri" disse, col chiara eloquenza.
"Solo perché la poesia non mi farà guadagnare, non vuol dire che sia uno spreco di tempo" li risposi.
"Sai qual'é il tuo unico problema?”
"No, qual'é?”
"E che te ne fotti dei soldi, sul serio non t'interessano.." mi rispose, scuotendo la testa.
"Ed è un grosso problema questo?" li domandai.
"Lo é, certo che lo é..se consideri tutto" rispose.
"Tutto?" incerto formulai.
"Tutto si, tutto..tutto ciò che ti piace, i tuoi vestiti ad esempio, le tue scarpe, i tuoi amati libri eccetera eccetera. Come pensi di permetterti questo stile di vita, se non hai degli introiti sostanziosi”
francamente non so se P. mi facesse i conti in tasca per diletto, o solo perché voleva farmi credere che lui era più responsabile di me. Poco importa, io hai soldi do scarsa importanza. E vero le mie scarpe era particolarmente costose, non più di tanto e non sicuramente come i modelli che più andavano di moda in quel periodo. Per quanto riguarda hai vestiti, ero un assiduo consumatore di camice, e jeans stracciati. I libri erano parte fondamentale della mia vita, la vera linfa vitale di qui mi nutrivo. Per anni ho succhiato tutto il loro sapere per farlo mio, e usarlo a mio piacimento.
"So che sei più responsabile di me, ma sappi che non c'è motivo di preoccuparsi..queste scarpe le ho comprate solo perché le ultime erano vecchie di quattro anni." li risposi.
"Come vuoi, dico solo che dovresti concentrati sulla scrittura di romanzi" mi disse P. l'occhio fermo, posato sullo schermo illuminato del suo computer.
"Da quando te ne intendi di letteratura?" li domandai sarcastico. 
"Ne so abbastanza da poterti lasciare senza parole" mi rispose.
"Ah ma sentitelo, questo continue visioni devo averti dato la testa" feci.
"Certo e tu sei caduto da piccolo di testa da un'altezza di sette metri" mi disse, alzando entrambi gli occhi dallo schermo. Ridemmo sommessamente, prima di tornare alla questione soldi.
"Dovresti darti hai romanzi rosa, di quelli che parlano d'amore, di rose, di matrimoni e di amanti.”
"Dovrei farlo ma come sai, non sono in grado di parlare di solo amore, ne di rose, ne di matrimoni" li risposi.
"Lo so, ma la tua poesia é molto simile a quello che ogni persona malinconica cerca nell'amore. Ovvero la dolcezza, le frasi che ricoprono di miele tutti i sogni, la possibilità, il consumarsi del desiderio" disse P.
"Hai ragione, ma sai cosa ne verrebbe fuori. Venti pagine o giù di lì, piene di promesse, di dolci sogni e  mille una notte." risposi con malinconia e poi aggiunsi:
"Sarebbe una menzogna, una farsa, di cui io non so giraci attorno..vado dritto al punto, non ho capacita di descrizione..ha farti un esempio semplice non so descrivere i volti delle persone, gli ambienti che li circondano. So solo scrivere albero, ma non so descriverne le foglie o ogni loro movimento”
"Basta dire che si muovono col vento, e tu saresti uno scrittore?" mi domando ironicamente.
"Sei tu ha dirlo, non io" li risposi.
"Come se tu non lo desiderassi d'esserlo" mi fece, alzando ancora gli occhi dallo schermo.
"Senti, non parliamone più. Piuttosto devo prendere una boccata d'aria, qui non si respira" dissi, alzandomi dalla sedia su cui m'ero seduto non appena entrato in casa sua.
"Scusami ma e che ho stampato alcune foto e la puzza d'inchiostro deve essere ancora rimasta qua dentro" rispose P.
Forse mi sono scordato di dirvi che l'appartamento di P. comprende anche un piccolo balcone, che da vista verso altri palazzi uguali fra di loro. Le stesse facciate, le stesse finestre che nascondo ad occhi indiscreti la solitudine d'ogni giorno. Quella farsa dell'apparire per forza come il luogo comune vuole. Spalancai le finestre, e mi abbandonai al parapetto in piastrelle. Posai i gomiti su quel duro e freddo ripiano e osservai il tramonto, farsi più cremisi nei riflessi di quelle finestre tutte uguali. La luce defluì tutta da un lato del palazzo che mi stava di fronte, o meglio si rifletté su una porta finestra che venne spalancata molto energicamente. Ne spunto fuori una visione, una carnagione bianca, magnifica, due seni maturi e quel rosa scuro dei capezzoli cosi perfetti nella loro simmetria da volerli baciare solo per scoprire quanto siano morbidi e peccaminosi al gusto. I capelli nocciola chiari, come sparvieri danzavano al richiamo del vento, fra le labbra una sigaretta accesa. Cosi distante da poter essere afferrata, solo dal mio sguardo e portata Dio chissà dove nella mia mente. Affinché io potessi averla sempre ha mia disposizione. Difficile che mi vedesse, ma comunque mi sembro che non gliene sarebbe importato. Il suo viso era cosi austero, cosi ribelle, cosi senza pudore, ne vergogna, che sinceramente sembrava non gliene fregasse un cazzo.Decisi di rimanermene là, ha guardare quello spettacolo mentre il sole degradava verso l'orizzonte. Catturava tutta la luce, con la sua solo essenza. La sua pelle era un globo, un buco nero in cui tutto veniva catturato perfino il tuo sguardo. Duro poco più di un minuto quella sigaretta, abbastanza affinché P. la vedesse. Con mia somma sorpresa sbuffo senza particolar emozione: “Quella é Magnolia”.
   
 
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