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Autore: Defective Queen    31/03/2009    2 recensioni
Eravamo diventati uguali, io e lui, e sempre lo eravamo stati.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Anche se rivisitata in chiave metaforica, è una storia molto vera. Ormai vecchia, ma a suo tempo vera, per me almeno.

*Dedicata a Giù e ai tre anni della nostra splendida amicizia.

***


C'era un fiore, un girasole, nel giardino di una casa che oltrepassavo ogni mattina.

Non era certamente la prima volta che mi trovavo in quei paraggi, ma quello fu il primo giorno che soffermai il mio sguardo su di lui.

Era l'ultimo giorno di scuola, ma malgrado fossimo già a giugno, la mattinata si presentava nuvolosa e il sole era nascosto chissà dove tra le nuvole.

Il girasole, isolato dagli altri fiori, soffriva; il gambo piegato e la corona di petali rivolta verso il suolo.

La ragione per cui quotidianamente si rivolgeva al cielo, risaltando orgoglioso tra tutta quella folla di fiori anonimi, quel giorno era offuscata dal maltempo.

Provai pena per quel girasole, colpita così tanto dalla sofferenza che vedevo nel suo atteggiamento dimesso.

Dipendente dal sole, senza poterne fare a meno.

Distolsi il mio sguardo da lui, di malavoglia: era tardi, dovevo andare.

La giornata a scuola passò velocemente.

Il fatto che non avrei più rivisto per tre mesi tutte quelle facce che facevano parte della mia routine quotidiana mi lasciava discretamente sollevata.

Appena superata la tettoia dell'edificio scolastico, un potente raggio di sole mi accecò, lasciandomi immobile ed impalata sulle scale per qualche secondo.

Sbattei gli occhi, abbassando il volto, cercando di ripararmi dalla violenza di quella luce.

Mi diressi verso casa, perfettamente a mio agio nel caos che mi circondava, in un silenzio liberatorio e pigro, proprio come si prospettavano le mie vacanze.

Attorno a me il mondo continuava a girare allo stesso modo: frenetico, irriverente, noncurante della mia esistenza.

Ripercorsi nel senso opposto la stessa strada di quella mattina, destreggiandomi tra il traffico intasato dell'ora di pranzo.

Senza un perchè, il mio sguardo fu nuovamente attratto da quel giardino dove avevo visto il girasole appassito quella mattina.

Improvvisamente, correndo come un forsennato, il battito del mio cuore aumentò notevolmente, lasciandomi basita e senza fiato alla vista di quello splendore.

Il girasole, ora rigoglioso e fiorente, leggermente inclinato verso destra per poter meglio ricevere la luce proveniente dal sole, sovrastava qualsiasi altro fiore nell'aiuola.

I petali grandi, spessi, di un giallo vistoso, lo elevavano al rango di meraviglia naturale, quasi a voler simboleggiare lo splendore dell'estate ormai alle porte.

Mi pentii di non avere con me una macchina fotografica e di non aver potuto immortalare sulla pellicola quell'immagine così pittoresca e suggestiva.

Mi aveva catturato il cuore all'istante.

In seguito, per tutta l'estate cercai di ritornare ad ammirare quel fiore, ma contro le mie aspettative in quella stagione fui più impegnata che durante tutto l'inverno.

Il settembre successivo, durante il primo giorno di scuola, arrivai in classe in ritardo, non perchè avessi dormito troppo, ma perchè lungo la strada verso scuola avevo sostato per più di dieci minuti di fronte al quel rigoglioso giardino, per contemplare il girasole che mi era mancato per tutta l'estate.

Notai con piacere che anche quel giorno egli splendeva luminoso e allegro assieme al sole, nutrendosi della sua luce, soddisfatto di ciò che la natura gli donava.

Non era cambiato poi molto dall'inizio di giugno: semplicemente lungo i bordi dei suoi petali si notava una sfumatura più arancione, rispetto al giallo acceso che ricordavo.

Con le mani impigliate nel cancello di ferro che circondava il giardino, la presenza di quell'unico fiore calamitava il mio sguardo, quasi ipnotizzandomi.

"E' normale per gli uomini essere attratti dalle cose belle", pensai cercando anche di giustificare il mio comportamento.

Eppure c'era qualcosa che non andava. Mano a mano che il tempo passava, la mia attrazione verso quel fiore non diminuiva, al contrario aumentava.

Ogni giorno sostavo davanti a quel cancello di ferro, ansiosa di controllare che il girasole fosse ancora rigoglioso, ma al tempo stesso segretamente spaventata che potesse presentarsi piegato verso il suolo come la prima volta che mi era apparso di fronte.

Mi sentivo un' ape, affascinata dal suo polline succoso e radioso.

Il tempo scorreva e io mi lasciavo trascinare da quello, senza però perdere di vista quel bellissimo fiore che spuntava in quel giardino così vicino, eppure così lontano da raggiungere, chiuso in un mondo parallelo, troppo differente dal mio.

Un mondo racchiuso da sbarre indistruttibili. Una prigione che io, da mera spettatrice, non sarei mai riuscita a distruggere.

Una prigione fuori dalla quale il girasole non sarebbe mai sopravvissuto.
Una prigione fuori dalla quale ero rinchiusa io stessa.

Posso dire con certezza di aver amato sempre quel fiore in modo incondizionato e spassionato.

Ho trascorso tutto il mio tempo sorridendogli e beandomi della sua infinita superiorità sopra ogni altra piccola margherita, primula, campanula, di cui quel giardino era cosparso.

Non c'era nient'altro per me, nessun' altra motivazione per cui sperare che il giorno dopo il sole sorgesse, tranne il discreto desiderio che il mio piccolo girasole stesse bene.

Continuavo ad arrivare tardi a scuola e a rincasare in orari sempre più assurdi.

Guardavo verso l'astro luminoso che mi sovrastava, ringraziandolo di esistere e di illuminare con la sua luce eterea il giardino che visitavo ogni giorno.

I miei occhi bruciavano, accecati, ma questo non m'importava.
Imitando il mio amato girasole, alzavo il capo al cielo, cercando con ogni fibra del mio corpo di captare l'energia vivificante del sole.
Le mie gambe diventavano uno stelo e il mio volto inondato dai raggi dorati assumeva l'aspetto di una corolla.

Eravamo diventati uguali, io e lui, e sempre lo eravamo stati.

La primavera successiva, durante una delle mie solite visite a distanza, ebbi l'occasione di vedere il proprietario di quel piccolo fiorente appezzamento di terra nel bel mezzo della città.
Con grandi falcate l'uomo attraversò l'erba e si fece strada verso il mio girasole. O meglio verso il suo girasole. Continuavo a dimenticarlo.

Sfiorandone docilmente la corolla, lo innaffiò d'acqua e staccò qualche erbaccia che era cresciuta abusivamente vicino alle sue radici.

Il più lontana possibile dal cancello, in modo da non essere individuata, guardavo la scena con crescente rabbia e gelosia, stringendo i pugni in una morsa quasi violenta.

Perchè, nonostante tutto il mio affetto e la mia dedizione, non mi era mai stato possibile avvicinare quel meraviglioso girasole, mentre quell'uomo poteva prendersene cura così facilmente?

Con le mani sporche di terreno stava inquinando i suoi petali chiarissimi e macchiando la sua bellezza.

Il mio girasole, giorno dopo giorno, perdeva il suo aspetto selvaggio, per contaminarsi di superbia e arroganza.

Non troneggiava più sugli altri fiori perchè gli veniva naturale, adesso si imponeva su di loro con quella sfacciata e falsa perfezione.

Disgustata e con l'animo a pezzi, fuggii via.

Corsi. Corsi così tanto da credere di aver consumato le suole delle mie scarpe, ma quel dolore accelerava sempre di più ed era impossibile raggiungerlo ed incatenarlo entro lo spazio ristretto del mio cuore.

L'amore per quel girasole mi aveva distrutto. Mi aveva resa dipendente da qualcosa che non aveva mai fatto parte della mia vita, logorandomi di desiderio represso e rimpianto.

Mi ero illusa, come una bambina incantata da uno sconosciuto che le offre delle caramelle, come qualcuno che sa di star facendo qualcosa di stupido e, nonostante tutto, continua ad agire in questo modo.

Come qualcuno che sa di andare in contro ad un'amara delusione e corre comunque il rischio.

Lo sapevo, lo sapevo sin dall'inizio, eppure ciò non è bastato a fermarmi.

Tutto ciò che avevo sempre sognato era annusare il dolce odore di quel polline dorato e sfiorare delicatamente i suoi petali in una lenta carezza, capace di infondere tutto il mio amore in un semplice gesto.

Corsi, corsi ancora. Del tutto inutile: non puoi mai scappare da te stesso.

Le mani tremanti cercavano di frenare le lacrime e lo shock che pervadeva il mio corpo.

Perchè? Perchè? Perchè?

Ma non trovai alcuna risposta.
Allora le mie gambe cedettero al peso della sofferenza e caddi a terra, sbucciandomi le ginocchia.

Ansimai, singhiozzando e disperandomi più per abitudine che per reale sofferenza.
Le lacrime continuavano a rotolare giù dalle mie guance perchè non avevano mai sperimentato altro percorso.
Ma si sa, il tempo lenisce tutto...o almeno dice così chi non si è mai trovato in questa situazione.

Iniziai a guardare il mio girasole sempre più da lontano, attenta che il giardiniere non scoprisse mai le mie occhiate furtive.

Lui era cambiato, è vero, ma io mi ostinavo ad amarlo ancora come prima.

Mi accontentavo di un breve sguardo rubato al tempo, in memoria dei giorni felici.

Eppure miei sogni infranti si accumulavano, ostacolando il mio sguardo. Mi costringevano a vivere in un mondo dove tutto andava per il meglio e io stavo bene e questa non era altro che un'amara bugia.

Tornò l'estate e con essa l'abbandono.

Il proprietario del piccolo giardino si trasferì in un altro appartamento, lasciando perire tutti i suoi fiori sotto quel sole impietoso che adesso li disidratava e li rendeva secchi come non mai.

Qualche pioggia sporadica tentava di calmare la loro sete, schiavizzandoli con l'illusione di riuscire a sopravvivere ancora.

Io assistevo inerme alla degradazione del mio girasole, incapace di raggiungerlo ed offrirgli acqua che non fosse quella dei miei occhi.

Agonizzavo simpateticamente con lui e con tutti gli altri fiori, dolendomi di non poter fare di più.

Scavalcare quel cancello non sarebbe servito a niente. Le mie gambe raschiavano sulle sbarre, sanguinando doloranti, senza riuscire ad annullare la distanza che mi separava da lui.

Avevo sempre pensato di non poterlo raggiungere e, adesso, una parte di me si era persino convinta di non volerlo fare.

Al degrado del mio fiore si accompagnò il degrado del mio cuore che soffriva in silenzio, il più lontano possibile, incapace di dimenticare.

Qualche mese dopo, la casa ed il giardino furono venduti ad un nuovo acquirente.

Avevo assistito a tutto. Avevo trattenuto i singulti contro il palmo della mia mano, arrancando in cerca di un appiglio a cui aggrapparmi.

Il mio mondo era stato scosso da un terremoto di dimensioni epocali e tutte le mie speranze erano cadute giù nell'abisso dell'oblio.

Due uomini tirarono il suo stelo, con forza.

Quello restò coraggiosamente ancorato al suolo, senza cedere.

Emisi in gemito di dolore, come se avessi sentito le sue radici aggrapparsi in un impulso disperato alle mie viscere.

Tirarono ancora, scalfendo un po' la sua presa, e io mi ritrovai a gridare e a implorare loro di smetterla.

Ma più gridavo, più la sofferenza e le urla diventavano una cosa sola, più io speravo discretamente che facessero in fretta per tornare ad avere almeno un po' di pace.

Una cortina di buio calò su tutto, offuscando il sole, impedendomi di vedere ancora.

Che fine aveva fatto il mio amato girasole? Era ancora lì, oppure no?

Non sentivo più niente. Quel lancinante colpo che avevo avvertito all'altezza del petto si era ormai dissolto in un sordo alone di invisibilità.

Mi chiesi persino se fosse esistito prima.
Mi chiesi persino se io fossi mai esistita prima di provarlo.

Era difficile credere che in mezzo a quelle tenebre insondabili qualcosa potesse aver preso vita.

Eppure respiravo. Riuscivo a respirare, spalancando i miei polmoni in ricerca di aria fresca.
Respiravo e non sentivo alcun male.

Riaprì le palpebre, come se avessi sempre saputo che quello fosse l'unico gesto necessario per sbarazzarmi di quell'oscurità.

Il girasole non c'era più. Un curatissimo prato all'inglese si trovava adesso al suo posto.

Distolsi lo sguardo, completamente disinteressata, continuando a camminare diretta verso la mia meta.

Il tumore che infettava il mio cuore era stato estirpato.

Avevo lasciato che qualcuno strappasse le sue radici senza fare niente.

Lui si era attaccato tenacemente a me, ma io l'avevo scostato con indolente stanchezza.

Non ne potevo più.

Mi dicevo che i suoi petali non erano più tanto belli, che il suo colorito risultava malaticcio e il suo polline non profumava più come una volta, sebbene non l'avessi mai odorato prima.

Proprio come la volpe che non riesce a raggiungere l'uva prelibata, mi mostravo disgustata da ciò che non mi era nemmeno mai stato concesso di ottenere. Ma, soprattutto, disprezzavo quella che era stata la mia unica ragione di vita, semplicemente perchè non potevo averla per me.

Mi avevano detto che un giorno sarei tornata a guardare il cielo; che avrei sentito sulle mie papille nuovamente l'amarezza del caffè e avrei capito che il mio mondo sarebbe andato avanti anche senza di lui.

Sembrava tutto così facile e io ingenuamente avevo creduto che fosse possibile.

Ma la verità è che io quel giorno lo sto aspettando ancora.

   
 
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