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Autore: Luxanne A Blackheart    25/03/2016    4 recensioni
Costantinopoli, 1518, Sublime Stato Ottomano.
Ibrahim Pargali Pascià, il Gran Visir, giunge a Palazzo Topkapi con un regalo speciale per il suo sultano. Si tratta di Roxelana, una schiava dai lunghi capelli rossi e la pelle bianca come il latte. Roxelana è stata venduta ad Ibrahim in cambio di soldi. Verrà condotta nell'harem di concubine di Süleyman il Magnifico. Nonostante l'amore incondizionato e puro che il suo padrone le dimostra, la rossa non si sente a casa, poiché non vuole essere una semplice schiava del piacere. Ella non vuole essere la favorita del sultano, vuole la libertà. Il suo animo ribelle e combattivo non si fermerà davanti a nulla pur di raggiungere il suo scopo: il potere. Non si fermerà neanche davanti all'omicidio e alla morte. A tutto ciò si aggiunge l'odio viscerale e l'amore proibito che le accecano la vista, emozioni che non sono destinate a Süleyman . Sentimenti contrastanti che la faranno impazzire.
Cosa rimarrà della schiava dai capelli rossi quando il destino chiederà il conto?
STORIA IN REVISIONE.
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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PRIMA DI CONTINUARE, LEGGERE ATTENTAMENTE.
Prima di intraprendere la lettura, caro lettore/trice, vorrei che facessi attenzione su delle cose che ho da dire, per evitare fraintendimenti.
La storia è in fase di revisione. I capitoli revisionati verranno indicati con una ®. Potete continuare a leggere, ma se troverete delle incongruenze di nomi/avvenimenti, rispetto al capitolo precedente sarà proprio per questo motivo. Quindi non vorrei ricevere delle lamentele a riguardo. Cercherò di aggiornare il più velocemente possibile, per consentire a voi nuovi lettori di leggere con calma e tranquillità.
Per quando riguarda i nomi cambiati sono per il momento solo due: da Selim a Süleyman, da Anastasia/Alexandra a Aleksandra.
Vorrei dire inoltre che la storia è ispirata a fatti realmente accaduti. Infatti Roxelana, Ibrahim e il sultano sono realmente esistiti, ma molte cose saranno da me inventate e romanzate, altre, invece, saranno prese dalla realtà. Se vorrete leggere la reale storia da Wikipedia, fate pure. Vi avverto che potreste ricorrere a degli enormi spoilers.
E' disponibile un trailer della storia, vi lascio il link dopo il prologo, per chi volesse vederlo.
Per chi invece, vuole conoscere i prestavolto dei vari personaggi, metterò delle immagini per ogni capitolo. Ma potete immaginarveli come volete!
Tutti i diritti della storia sono riservati e si vieta qualsiasi tentativo di plagio.
Detto ciò, non mi resta che augurarvi una buona lettura e spero che questa storia vi piaccia!
*** ***







PROLOGO.




Rohatyn, Giugno1518.




Era Domenica e c'era odore di torta alle mele nell'aria.
Era Domenica e i Tatari avevano invaso il villaggio.
Era Domenica ed era scoppiato il panico; c'erano donne che gridavano, bambini che piangevano, uomini che cercavano di mettere in salvo le proprie famiglie, combattendo contro quegli animali che avrebbero preso tutto.
Tutti cercavano di rifugiarsi nella chiesa, lì dove suo padre stava tenendo un sermone, prima dell'invasione. Sapevano che davanti alla furia, all'essere spietati e privi di ogni tipo di pietà dei Tatari, nessuno poteva sopravvivere. L'unica soluzione era chiudersi in chiesa e sperare che il Signore li proteggesse.
Ma così non fu.



Le porte in legno scadente del luogo sacro vennero abbattute senza problemi. I Tatari entrarono con le loro sciabole, la lingua dolce così diversa dal russo, e le peggiori intenzioni del mondo.
Aleksandra si strinse intorno al padre, alla madre incinta e alla cinque sorelle più piccole, sperando di scampare a tutta quella furia.
Tutti sapevano che cosa stessero cercando: donne, bambine, ragazzini, uomini da poter mandare ai genovesi per venderli al sultano ottomano, ai califfi o alle varie prestanti famiglie europee. Attaccavano piccoli villaggi, di cui nessuno conosceva l'esistenza, che poi venivano bruciati, cancellati dalle cartine e dalle memorie dei ricchi padroni. Rohatyn era un piccolo villaggio di agricoltori, facilmente rimovibile, ma con un alto tasso di giovani da poter rapire, da poter cancellare dalle loro terre.
Cominciarono a uccidere tutti i vecchi, i disabili, quelli con qualsiasi imperfezione fisica, uno ad uno, senza pietà, senza battere ciglio. Le donne che non servivano loro o quelle malapena passabili venivano prima stuprate e poi sgozzate.
La chiesa ben presto si riempì di sangue, dolore, grida, morte e infine silenzio.
Uno di loro raggiunse Aleksandra e la sua famiglia, nascosti dietro l'altare. Le bambine piangevano, si stringevano tremanti dietro i genitori e a lei, la sorella maggiore, colei che aveva il dovere di proteggerle in assenza di un fratello maggiore. Suo padre, un piccolo prete dai capelli rossi e la pelle lentigginosa, si alzò per cercare di proteggere il suo villaggio e soprattutto la sua famiglia.




—Per l'amor di Dio, lasciate stare questo villaggio. Vi daremo tutti i soldi che desiderate, tutto il grano e tutto il bestiame, ma non fate del male alle mie figlie o alle altre fanciulle. —




—Taşındı, yoksul lout. - La voce del Tataro rieccheggiò per tutta la chiesa vuota, mentre l'amico ridacchiava, guardando tutte loro con occhi calcolatori e viscidi. Non era rimasto più nessuno, erano tutti stati catturati o erano stati uccisi. Aleksandra si limitava a stringere fra le braccia la sorella più piccola, Anja, di soli tre anni, che spaventata dalle grida e dal sangue, piangeva contro il collo della rossa.




Parlavano un dialetto del turco, con molte interferenze da altre lingue orientali, che a loro era impossibile capire. Il rumore dei massacri e delle violenze continuavano anche fuori dalla chiesa, dove altri suoi amici e conoscenti o venivano uccisi o rapiti.
Suo padre venne picchiato ferocemente e cadde a terra per il forte impatto. Sua madre urlò, correndo verso il marito svenuto e con la faccia insaguinata.
Aleksandra gridò alla madre di farsi indietro, ma ella non la udiva e fu seguita dalla sorella di tredici anni, Olga, sotto gli occhi attenti dei Tatari.
Erano ben in cinque, potevano decidere di prenderle tutte, compresa sua madre incinta, oppure di ucciderle tutte.




La prima che afferrarono fu sua madre, che aveva lontane origini arabe e per questo una parvenza esotica. Ma fu scartata, poiché troppo vecchia.
Cercavano qualcosa di particolare; non si trattava della solita razzia per raccattare più schiavi possibili.




Onu! — Urlò un altro, avendo adocchiato Olga, che cercava di alzare suo padre da terra. Uno dei due scattò verso la tredicenne, afferrandola e trascinandola per le caviglie, incurante delle urla di tutte loro e della donna incinta che si era aggrappata alle braccia dell'altro, supplicandolo. Anche sua madre venne stesa con un sonoro colpo e cadde per terra, sbattendo la testa.




—Lasciatele stare, lasciatela stare, brutti mostri, è solo una bambina! —




Non che lei fosse più grande, avendo sedici anni, quasi diciasette. Aleksandra si alzò, urlando alle più piccole di correre via e nascondersi nelle catacombe, non appena uno dei due Tatari intrufolò le sue sporche mani sotto la veste arancione di sua sorella per controllare che fosse ancora illibata e mentre l'altro guardava divertito. Olga urlava, piangeva e graffiava la mano di quel mostro, mentre Aleksandra, essendosi assicurata che le altre sorelle fossero fuori dai guai, si alzò e aggredì il bastardo che adesso le stava toccando il seno ancora in fase di formazione.




Aleksandra si lanciò sull'uomo, mordendogli la mano che si era intrufolata sotto la veste della piccola. Strinse i denti attorno ad essa talmente tanto da sentire il suo sporco sangue bagnarle la gola e scenderle lungo il mento. Il mercenario la insultò pesantemente, spingendola di lato. In un attimo le fu addosso, colpendola ripetutamente con schiaffi pesanti che le fecero girare la testa; le aveva rotto il labbro e il naso, riempendole la faccia di sangue. La rossa lo spinse via, riuscendo ad allontanarlo da sé. Si alzò dal suolo, sputando sangue misto a saliva e dopo si passò il palmo della mano sulla faccia ripulendosi completamente.




La sorella nel frattempo era riuscita a scappare dalle altre e Aleksandra era rimasta da sola, con due genitori privi di sensi e due uomini molto più forti di lei e soprattutto armati.
La fanciulla imprecò, cercando di colpire di nuovo uno dei due mercenari, i quali risero divertiti dal suo patetico tentativo.




Hadha yakfi.—




Un uomo entrò all'improvviso nella chiesa. La sua voce possente fece fermare entrambi i Tatari, che si inchinarono quando li raggiunse.



Wajadha hadayatana. Aleabd ladayna Sultan!—




Aleksandra ebbe l'opportunità di alzarsi e ripulirsi di tutto il sangue. Osservò l'uomo, che decisamente non era un Tataro.
Egli la osservò attentamente, girandole intorno lentamente e senza mai toccarla. Le sue scarpe lussuose si erano sporcate di sangue, mentre la sua divisa color porpora da alto funzionario politico era impeccabile, senza nessun tipo di imperfezione. Trovò finalmente il coraggio di guardarlo negli occhi e poté scorgere i lineamenti da dietro le sue lunghe ciglia scure e lunghe. Era affascinante, ciò che molte donne definirebbero bello; i capelli ricci e scuri si arricciavano alle tempie dal sudore, donandogli un aria da Nerone, imperatore spietato e gelido. Una leggera barbetta scura gli incorniciava i lineamenti, dandogli un'aria parecchio enigmatica, aggiunta ai suoi glaciali e freddi occhi verdi-castani. Doveva avere circa trent’anni, o giù di lì.




La studiava mentre cercava di non mostrare la sua paura, la sua preoccupazione e il fatto che le sue gambe tremassero come foglie.
Era impaurita, ma coraggiosa. Non era bella come la favorita del sultano, tuttavia c’era qualcosa in lei… Forse i capelli rossi? Gli occhi azzurri da cerbiatta? O la spavalderia che essi dimostravano?




Wa’na ‘afham laghti?— Domandò l’uomo, guardandola negli occhi. La ragazza scosse il capo, non sapendo che cosa quelle parole significassero. L'unica lingua che parlava e comprendeva era il russo, dai suoni gutturali e freddi, proprio come la sua terra.




—Io sono Ibrahim Pargali Pascià, il Gran Visir del sultano. –Disse in russo. La sua espressione era impassibile e severa. Non c'era nessuna traccia di accento nella sua pronuncia, era perfetta, immacolata.– Adesso verrai con noi. Sarai la schiava del Sublime Sultano del Sublime Impero Ottomano, Kanunî* Sultan* Süleyman. Sarai il suo regalo di compleanno. —




—No, no, vi prego! — La ragazza scosse il capo in preda al terrore e alle lacrime.




—Non servirà a niente supplicarci o dimenarsi. Tu verrai a Costantinopoli con noi. D’ora in poi sarai proprietà del sultano, solamente a lui dovrai obbedire. Non hai più un nome, non hai più origini, non hai più una lingua e una religione, tranne quelle che ti verranno imposte. Dimenticherai ogni cosa della tua vita precedente. —




—Vi prego, abbiate pietà!—




—Il tuo nome adesso è Roxelana per via dei tuoi capelli rossi come il fuoco. —




Ibrahim Pascià diede l’ordine di prendere la ragazza. Murat e Umut, questi erano i nomi dei Tatari, l’afferrarono per le braccia e i capelli trascinandola sul suolo freddo e roccioso, ignorando le sue inutili proteste. La veste bianca e di materiale semplice che indossava, si sollevò rivelando un paio di gambe magre, quasi scheletriche, puntellate di lentiggini chiare. Il continuo trascinare il suo corpo al suolo le graffiò la pelle fino a farla sanguinare, lì dove la veste si era sollevata.




La rossa guardò i suoi genitori, adesso svegli e in lacrime. Pianse, cercando disperatamente di liberarsi dalla presa ferrea dei due uomini.
Ibrahim distolse lo sguardo da quelle scena patetica e si girò verso la famiglia. Aiutò la donna gravida a sollevarsi dal suolo e dopo fece la stessa cosa con il pover'uomo. Successivamente buttò su una sedia in legno due sacchetti in monete d’oro; avevano sofferto abbastanza.




Pozhaluysta, pozabot'tes' o moyem rebenke. – Disse la donna, afferrando Ibrahim per il colletto della giacca. Il Gran Visir annuì, non potendo negare una piccola speranza a quei poveri malcapitati.




La donna gli baciò le mani grata della sua misericordia e pianse correndo dal resto delle figlie, uscite dalle catacombe dopo aver sentito la calma e il silenzio, baciandole una da una con egual affetto.
Ibrahim uscì da quella baracca, evitando i corpi senza vita circondati da mosche e si chiuse la porta alle spalle. Osservò la gabbia in cui erano state rinchiuse venti ragazze, venti schiave. Erano tutte molto giovani e di origini russe/ucraine. Avevano tutte capelli scuri ed occhi chiari, tutte tranne lei.
La rossa dalla lunga treccia e la pelle bianca come il latte.
Aveva smesso di piangere e supplicare a differenza delle altre e adesso guardava il cielo e la luna con sguardo assente. Quando si accorse dello sguardo di Ibrahim, i suoi occhi si tinsero di odio.




Il Gran Visir rimase colpito e sorpreso da tutta quella forza d’animo e sapeva, in cuor suo, che ella avrebbe portato problemi.
Dopo averle lanciato un’ultima occhiata di ammonimento, salì sulla sua lussuosa carrozza in direzione Costantinopoli.
Murat e Umut non erano con lui, bensì a capo della gabbia che trasportava le schiave. Quando sarebbero giunti nella capitale le avrebbero vendute al miglior offerente e la più bella sarebbe andata al suo sultano come regalo di compleanno, la più bella oltre Roxelana.
Il loro destino ormai era segnato.






 
   
 
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