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Autore: petitecherie    26/03/2016    3 recensioni
Si portò le mani al petto nudo e le sfregò contro la pelle, come a ripulirle da un sottile strato di sangue.
-Chi sei davvero? Desidero che i nostri cammini si incrocino di nuovo.-
Non sapeva a chi avesse rivolto quella preghiera: se al vecchio se stesso o alla fanciulla bianca dei suoi sogni, ma alla fine non importava.
Poiché aveva detto le parole giuste, la Magia lo ascoltò.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Jareth, Sarah
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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cronache del labirinto


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Dalle Cronache del Labirinto, parte XVIII, p.783V




6°giorno del Mese di Luna


  • Invocazione ai Guardiani e agli Spiriti Ancestrali

(dal Libro dei Rituali, parte I, p. 22R) -



Sulle mie esili spalle ricade il compito di vegliare sul Labirinto, ormai senza padrone. Credemmo che la Vista di Sarah, la sua capacità di evocarci nel Sopramondo, volesse dire qualcosa, ma, nel momento in cui Ella crebbe, il rifiuto fu tale che noi fummo dimenticati e ridotti ad una mera fantasia infantile.

Quale sorte ci attende?

Io conosco il mio compito: le sacre stelle hanno mostrato la via.

Quest'anno, quando il velo tra i Mondi sarà più sottile, dovrò lanciare la Sfida dei Tredici Rintocchi. Due anime troveranno finalmente la strada... o la perderanno definitivamente.

E' tempo di narrare una nuova storia.


****


Quella notte, Sarah Williams sognò il Labirinto.

Le capitava di rado, ormai: con gli anni, i suoi sogni di adolescente si erano concretizzati in solidi obiettivi. Lei stessa stentava a riconoscersi nelle vecchie foto, che la ritraevano in lunghi abiti bianchi e fiori tra i capelli: una Proserpina infantile e saggia che recitava nella solitudine del parco.

Eppure, talvolta, il sogno tornava e di nuovo, davanti al suo sguardo, si spalancavano i sentieri già battuti.

Camminava a piedi nudi per i corridoi, sfiorando i muri di pietra con la punta delle dita. La fragile sottoveste che indossava non offriva riparo dal gelo della notte, ma Sarah avanzava senza prestarvi attenzione, i capelli sciolti sulle spalle e gli occhi verdi sgranati nel buio.
Il corridoio in cui si trovava si apriva su un piazzale deserto, inondato di luce lunare.
Ninfe di marmo biancheggiavano fra le siepi: i visi rivolti al cielo, le palpebre abbassate, le labbra carnose dischiuse in silenziosi gemiti di piacere... o forse di estrema agonia.
Una strana vitalità animava quei volti, come se la pietra in cui erano scolpiti fosse sul punto di divenire carne, o la carne di cui erano composti si fosse appena tramutata in pietra.
Sarah si strinse le braccia intorno al corpo, rabbrividendo nel silenzio irreale.
La fontana sorgeva al centro del piazzale come un fiore gonfio, malato.
I raggi lunari le conferivano il candore spettrale di una catasta di ossa.

Luce e ombra si posavano irregolari sulle superfici scolpite, svelando sirene, tritoni, strani putti dagli occhi di falena che stringevano al petto…
Una delle statue si mosse.
La ragazza spalancò gli occhi e premette le mani contro le labbra, trattenendo il fiato.

Un istante dopo esalò un sospiro; una punta di sollievo la invase, mischiandosi ad un nervosismo diverso: non era una scultura, era lui.

Il suo tormento, il suo vecchio nemico. L'enigma mai risolto.

Stava accovacciato sulla sommità della fontana, nudo dalla cintola in su, la pelle così pallida che non c’era da stupirsi se sulle prime lei lo aveva scambiato per una figura di marmo.
Lui teneva la schiena curva per ripararsi dalla luce lunare, e stringeva nel pugno un piccolo animale.

Sotto gli occhi di Sarah, lo portò alla bocca e lo azzannò.

Il sangue spillò su due labbra sottili, una lingua appuntita guizzò tra i denti affilati.

Lui non sollevò mai lo sguardo, e Sarah continuò a fissarlo mentre consumava in silenzio la sua preda.

I capelli dorati scarmigliati sulla schiena nuda, la bocca sporca di sangue, gli occhi luminosi e sperduti di un demone.

Avrebbe dovuto essere spaventata, almeno inorridita.

Invece una compassione più grande di lei la fece vacillare.

Si svegliò di soprassalto, con il cuore in gola.
La luce lunare filtrava attraverso le tende come una benedizione. Era nel suo letto, nella sua stanza.
Era al caldo, al sicuro.
Si asciugò una lacrima all'angolo del viso, e scivolò di nuovo nel sonno.


****


Quella notte lui sognò la Foresta. La sognava quasi ogni notte, da quindici anni a questa parte. Aveva la certezza di essere stato lì – lì dove, poi? - e che quel sogno custodisse la chiave della sua identità, il se stesso che aveva perduto e non riusciva a ritrovare.
Sognò le cime degli alberi dispiegarsi nel buio, il freddo della notte sulla faccia, sulle piume del ventre e delle ali.

In quei sogni lui era un uccello - un gufo, forse – e l'aria profumava di resina e foglie, e la notte era un grembo oscuro e accogliente, tenebra azzurra sfumata d’argento.

Un movimento, molto più in basso, attirò la sua attenzione.
Lui raccolse le ali attorno al corpo e piombò nell’intrico di alberi, gli artigli protesi nel buio con precisione infallibile.

Un trillo sommesso squarciò il silenzio, simile al singulto di un bambino. Una piccola nube di piume si levò nell’aria.

Un attimo dopo lui volava oltre la Foresta, con la piccola preda stretta fra gli artigli robusti.

Si posò sulla sommità della fontana e tornò in forma umana.

Si accovacciò fra le statue di pietra e affondò i denti in quel pasto senza memoria.

Non aveva bisogno guardarsi intorno per sapere che la ragazza era lì: udiva il battito accelerato del suo cuore.

Non aveva idea del perché, ma lei c’era sempre. Forse, al pari della Foresta, quella donna era legata a lui: al lui che era stato e che ora non era più. Forse anche lei era una chiave per capire dove avrebbe dovuto andare o dove avrebbe dovuto tornare.

Lei, il suo spettro bianco. Lei, che cammina con grazia inconsapevole sul confine sottile tra odio e amore.

Se si concentrava abbastanza, riusciva a indovinare il suo respiro.
Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare da quel suono.

Li aprì di scatto su una stanza buia e fredda, 'ché scioccamente aveva lasciato la finestra aperta, ingannato dal clima ancora mite di Ottobre.

I Sogni, che luoghi interessanti! avrebbe esclamato il suo vecchio psicologo.
Si voltò verso la finestra: la luna spiava attraverso le tende come l'occhio bianco di un morto.
Lui affondò il viso nel cuscino, cercando di non pensare al gelo che lo stringeva.

Infine si alzò e raggiunse la finestra; la chiuse con uno scatto secco, incrociando per un istante il riflesso dei propri occhi spaiati.

Anisocoria, gli aveva spiegato l’oculista. Significa che hai le pupille di diametro differente l’una dall’altra. Devi aver ricevuto un violento trauma all’occhio sinistro, che ha causato una paralisi del muscolo sfintere dell’iride. Ricordi per caso qualcosa di simile?

No, non ricordava.

Abbassò lo sguardo sulla proprie mani: un verme tatuato su un palmo, una stella tatuata sull’altro, significati oscuri di una vita dimenticata.

Si portò le mani al petto nudo e le sfregò contro la pelle, come a ripulirle da un sottile strato di sangue.

-Chi sei davvero? Desidero che i nostri cammini si incrocino di nuovo.-

Non sapeva a chi avesse rivolto quella preghiera: se al vecchio se stesso o alla fanciulla bianca dei suoi sogni, ma alla fine non importava.

Poiché aveva detto le parole giuste, la Magia lo ascoltò.




***

NdA

Salve a tutti :)  spero che il prologo vi sia piaciuto e che vi abbia incuriosito.

Questa storia nasce da una chiacchierata fatta con Saliman lo scorso anno. All'inizio avevamo pensato di scrivere questa ff assieme ma, a causa di varie vicende personali e non, abbiamo deciso di cambiare i piani: Pepe avrebbe portato avanti la storia e Sale sarebbe stata la fida beta. E la sua manina santa si vede eccome <3 Grazie, tesora!
Per i vecchi lettori del fandom Labyrinth, una parte di questo prologo non sembrerà così nuova. Effettivamente, io e Saliman l'abbiamo ripreso, rielaborandolo, da una sua vecchia storia "Labirinto di Specchi" che al momento non è presente sul sito (ma io spero nel suo ritorno). Le due storie sono scollegate e non hanno nulla in comune ma queste parole ci sono sembrate così adatte alla vicenda che intendevamo narrare che ci siamo affrettate a riutilizzarle. Stessa cosa vale per il dettaglio dei palmi tatuati di Jareth, dettaglio ripreso dalla storia "Le cose che perdiamo nel fuoco" sempre di Saliman.

Voglio dedicare questo racconto in primis a Sara Saliman in quanto è una della mamme di queste parole e si merita gran parte del plauso. Come sai, aspetto sempre i tuoi lavori e sai quanto li ammiro. "Le cose che perdiamo nel fuoco" è la mia ff preferita in assoluto :)
Poi, voglio dedicare tutto ciò a David Bowie, il nostro amatissimo Re dei Goblin. Dovunque tu sia ora, caro Jareth, sono sicura che sarà un'avventura magnifica. Grazie per tutto, Duca Bianco.


Pepe
   
 
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