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Autore: Nachzusinnen    27/03/2016    0 recensioni
Jacopo Frescobaldi è un giovane nato nel 1605, appartenente ad un ramo cadetto di una delle famiglie più ricche e potenti di Firenze. E' la storia di un ragazzo che non vuole soccombere ai colpi del fato, in un'epoca di fasti e ipocrisia. Dotato di arguzia e perseveranza, si farà largo tra le congiure e gli amori di una Firenze che raccoglie la vita culturale di tutta Italia.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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Aprile, 1621

E' successo improvvisamente, in meno di un mese. Fino a due settimane fa giocavo con mia sorella in giardino, e adesso sono in una carrozza sconosciuta verso la campagna.
L'epidemia di tifo si è portato via tutta la mia famiglia: prima i miei due fratelli più piccoli, poi mia madre e mio padre, a distanza di pochi giorni. Da un momento all'altro si sono svegliati con febbre alta e sfoghi disgustosi su tutta la pelle: la diagnosi del medico era lapidaria e per tutti uguale. In un attimo mi sono trovato solo, a 15 anni, in un'enorme villa nella campagna fiorentina, circondata da cadaveri di parenti, domestici, sconosciuti.
Il fratello di mio padre, del ramo principale della famiglia Frescobaldi, si è preso a carico la mia esistenza con "somma pietà cristiana". Non l'ho mai sopportato mio zio: si propugnava difensore della pietà religiosa, ma tutti sapevano che nella sua casa accadevano peccati tremendi. Grasso e bolso, mi faceva venire la nausea il sudore che scendeva dalla fronte in qualsiasi stagione dell'anno. E inoltre aveva sempre disdegnato mio padre e la mia famiglia, visto che "era lui il primogenito" e dunque "aveva ereditato ogni ricchezza e virtù della famiglia". Ed eccomi qui, in viaggio verso il suo palazzo a Firenze.
Sono svuotato di qualsiasi voglia di vivere, quasi desidero di potermi ammalare anche io e morire, per mettere fine alla mia sofferenza. La carrozza procede con una lentezza esasperante, e l'odore di morte aleggia insopportabile. Sembra quasi che il mondo esterno rispecchi come mi sento interiormente: morto e all'inferno. Non appena arriviamo alle porte della città, la carrozza è assalita da gente malata che mendica qualcosa, non sapendo neanche cosa vogliono: forse soltanto giustizia divina. Sono così tanti che la carrozza è costretta a fermarsi per non calpestare qualcuno, e così il viaggio si fa ancora più lento e spossante. L'aria dentro la cabina, pregna di polvere e di olezzo, mi fa girare la testa, sento che sto per svenire: almeno così per qualche momento sarà libero da questo posto orribile. E invece il cocchiere entra di prepotenza nella cabina, tirandomi fuori di forza e mi spinge dentro l'androne del palazzo, chiudendosi dietro il pesante portone di legno massello.
L'atrio era buio: strisce di luce venivano da qualche apertura dall'alto, e illuminavano il pavimento decorato con marmi di diverso colore. Il cocchiere, basso e grassoccio, bofonchia qualcosa in dialetto e mi fa cenno di seguirlo su una scala sulla sinistra, ricoperta di un tappeto rosso che sembrava sudare sporco. Dopo un paio di rampe giungiamo in una sala dai soffitti altissimi, completamente ricoperta di tappezzeria blu e gialla con lo stemma di famiglia. Sebbene sia giorno, la luce filtrava a fatica tra le tende di velluto e il mobilio pesante e stantio. L'antipatico cocchiere mi fa sedere su una poltrona spingendomi sulla spalla, e non appena mi siedo si alza una nuvola di polvere che mi fa tossire e starnutire. Mi giro: sono solo.
Potrebbero essere passati minuti come ore, e nessuno si fa vivo. Di tanto in tanto sento passi leggeri sopra la mia testa, passi di donna. Sicuramente diversi da quelli di mio zio, aggraziato come un vecchio mulo, che giunge da me, ovviamente sudato e sbuffante.
- Jacopo! Nipotino mio! Che gioia averti in casa mia!-
Mi stringe la mano, disgustosamente umida, e si dilunga in condoglianze per la mia famiglia e in considerazioni amareggiate sulla situazione corrente. Io stavo in silenzio, mentre facevo finta di interessarmi alle sue teorie di punizioni divine e sulla necessità di espiazione. E' invecchiato, e se possibile ingrassato rispetto a sei mesi fa, quando lo vidi l'ultima volta. La sua giacca ricamata è chiaramente piccola e sembrava che i bottoni siano sul punto di staccarsi e finirmi addosso. La sua parrucca si intonava perfettamente con quell'ambiente vecchio e pieno di polvere. Mi parla di come la vita in città mi sarebbe piaciuta, di come avrebbe curato la mia istruzione per essere "un vero e dignitoso Frescobaldi" e di come la vita qui sarebbe stata al sicuro dall'epidemia e da tanti altri mali. Quando ebbe finito, mi affidò a una serva che mi accompagnò nella mia stanza. Lo saluto con rispetto e lo vedo affannarsi nel camminare più elegamente possibile verso quello che suppongo sia il suo studio.
Un senso di oppressione e di disagio mi pesa sul cuore come un macigno. La serva, una ragazza giovanissima dalle gote rosee e gli occhi accesi, mi porta alla mia camera al terzo piano. Mi fa entrare, e mi lascia solo in questa enorme camera, completamente rossa e piena di arazzi. Mi butto sul letto a faccia in giù, nella speranza di soffocarmi nei cuscini e di non svegliarmi mai più.
  
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