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Autore: lisitella    28/03/2016    11 recensioni
Ha telefonato e ha detto di mandare questi fiori tutte le mattine al vostro indirizzo per venti giorni di seguito a partire dal primo mese.
Genere: Comico, Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alle dieci e cinque del lunedì, il dottor Fanti chiamò me che sono la sua segretaria per dettarmi una lettera. Mentre entravo squillò il telefono.
“Attenda un attimo, prego”, si scusò il dottor Fanti e iniziò una lunga conversazione su prestiti ed esportazioni.

Io non lo ascoltavo affatto, ma lo esaminavo ai raggi X. Poteva essere lui il mittente delle rose, che continuavano a profumare il mio miniappartamento? Forse si. Sapevo che il dottor Fanti era scapolo, forse più per non aver avuto tempo di cercarsi una moglie che per vocazione. Le altre segretarie mi avevano raccontato tutto: alla morte del padre, il dottor Fanti si era trovato appena laureato, orfano di madre, con un’azienda sulle spalle che lui aveva sempre ritenuto efficiente e che invece era gravata di ipoteche.  Solo, di fronte a un avvenire apparentemente solido e invece posato su una piuma, si era rimboccato le maniche con coraggio. Ora aveva superato la quarantina e la sua azienda era una delle più serie del settore, lo fissavo attentamente, quasi con tenerezza.
Non era brutto, ma il suo viso aveva pieghe grigie e rassegnate. L’unica forza, l’unica vitalità, il suo sguardo lo trovava quando si parlava di lavoro, nient’altro che di lavoro. Era un uomo corretto,  gentile, dal sorriso raro. Possibile che nell’impaccio di un amore tardivo fosse capace di inviare candide rose anonime alla sua segretaria? O forse sì: In effetti…

Il dottor Fanti smise di parlare, dettò la lettera, si raccomandò che fosse spedita immediatamente. Prima  di aprire la porta, tirai un lungo respiro. Mi voltai, chiesi con voce appena tremante: “Scusi dottor Fanti… a lei  piacciono, le rose?”

Un fruscio, un viso alzato di scatto, un “Prego signorina?” al colmo dello stupore.

Avvampai: “Volevo sapere se a lei piacciono le rose… perché  vede…. Quest’ufficio è sempre così triste… se a lei piacciono, la mattina potrei metterne una sul suo tavolo”.

Annaspavo tra le parole, inventavo una scusa assurda e improvvisa per coprire il mio errore.

Silenzio aasoluto. Rialzai gli occhi, vidi il dottor Fanti appoggiato allo schienale della sedia con un viso estremamente più vecchio e stanco: Poi lo udii borbottare: “Vada, signorina, vada. Le rose, si figuri!” Scosse la testa. Poi aggiunse: “Se le fa piacecere, può mettere dei fiori… Io non ho tempo per queste cose, non l’ho avuto mai… Come si vede che lei è giovane! Poi la vita…”.

Tacque di colpo, chinò di nuovo il viso sui conti, ritrovò una voce più atona: “Su, vada ora.  E non si perda in sciocchezze”.

Tutto il giorno mi dicevo che dovevo essere impazzita. E poi, che  me ne importava del dottor Fanti? A che scopo sapere se era stato lui o no? Questa ricerca stava diventando stupida, ma non riuscivo a farne a meno.

Andando via, salutai l’usciere. Lui proprio lo avevo ecluso, perchè aveva sessant’anni e quattro nipoti. Non rimaneva nessuno. Proprio nessuno. A meno che…

Entrai nel portone, salii, fermai l’ascensore al quinto piano, suonai dov’era scritto Rovini. Dopo questo, sarebbe finita la mia ossessione. Uno, due, tre squilli.
L’uscio si aprì a metà e poi per intero: “Ciao, sei tu. Hai già bisogno di me?”, sorrideva.

E adesso? E adesso che ha aperto che gli dico? Mi morsi un labbro, cominciai tutto d’un fiato: “Senti, pensa quello che ti pare ma io devo chiederti una cosa. Non sarà educato perché… Insomma, tu non sai neppure il mio nome ma io ho proprio urgenza di sapere se…”.

Lui mi guardava con gli occhi sbarrati: “Ehi! Un momento! Forse è meglio che entri un attimo”.

Esitai  e lui si fece scuro in viso: “Senti, sono solo in casa perché da solo vivo, ma non è mia abitudine aggredire e violentare le coinquiline, quindi…”.

Rimbeccai: Dio, che maleducato! E… e  penso  proprio di essermi sbagliata a credere che…”.

Mi girai di scatto per andar via, ma lui mi fermò per un braccio: “E no! Un attimo. Suoni alla mia porta, mi tieni qui a sentire un discorso senza capo né coda e poi fili via così? No…”

I miei occhi si allargavano sempre più. Oddio che pasticcio. E che rabbia. Ma poi che se ne infischia. Un po’ timida, si. Ma mica fatta di burro. Deglutii, lo fissai, entrai in casa di lui. L’appartamento era identico al mio, ma zeppo alle pareti di tanti quadri firmati con una specie di sgorbio a farfalla. Li guardavo, mi piacevano.

“Ehi, ti sei incantata?”. Sorrideva, arricciandosi la barba sul mento.

“Sono tuoi?”, chiesi.

Matteo annuì, con una scrollata di spalle: “I miei scarabocchi…”, ma c’era tenerezza nella sua voce. Per un attimo con ugual tenerezza, sembrai fissare gli occhi neri, il viso minuto nascosto dai capelli lunghi e sottili. Poi fece un gesto, ci sedemmo, lui aprì una coca-cola.

“E allora che volevi sapere?”. Sorrisi, poi ridacchiai: “Senti, da quanto tempo mi osservi?”

Lui fece una smorfia: “Beh, pressappoco da quando sei arrivata”.

“E… ti piaccio?”

Matteo saltò sulla sedia: “Santo Dio, e io che ti avevo scambiata per suor  Timidezza!”.

“Oh, lascia perdere e rispondimi!”, replicai, ormai decisa a perdere la faccia pur di scoprire la provenienza degli omaggi floreali all’interno 18.
“A dir la verità, sei proprio carina, anche se…”.

“Bene a una ragazza che ti piacesse invieresti dei fiori?”.

Lui ammiccò: “Certo che mi piacciono… e le ragazze pure”.

Respirai a fondo: Allora… allora sei tu che tutte le mattine mi mandi tre rose bianche?”.

Più che per curiosità. C’era un’attesa ansiosa e infantile nella mia voce. Matteo mi guardò. Gli pareva che io aspettassi un “si” con tutte le mie mie forze.
Poteva approfittarne, in fondo… Si passò una mano nei capelli, poi mormorò sinceramente: “No. Mi dispiace, non sono io”.


Abbassai lo sguardo, diventai di fuoco: “Scusami allora. Non ci far caso… ciao”.

Raggiunsi la porta, Matteo mi seguì, mi fermò: “Scusa, ma che importa se sono stato io o no? Sarà un ammiratore segreto!”.

Annuii, cercando un sorriso meno triste e meno imbarazzato: “Già!”.

“Senti volevo chiederti… Ma perché sei venuta a chiedere proprio a me se ti avevo mandato dei fiori?”

“Qui ci vuole civetteria per non fare la figura dell’oca o peggio”, pensai in un lampo. Poi risposi  con voce tremante “E’ che… è che sei l’unico uomo al di sotto dei quarant’anni che io conosca in questa città”.  Poi spalancai la porta per nascondere lacrime vicine e stupide.

Matteo mi prese per le spalle, e mi tirò a se piano e più vicino: “Aspetta”.

Sentii il cuore salire in gola e quella stretta tenera e prepotente insieme. Rimasi lì, ferma, in attesa incerta.

Matteo mi alzò il viso con un dito: “Ti senti molto sola, vero? Anch’io, qualche volta. Se ti fa piacere, potremmo uscire insieme e…”.

Il cuore mi batteva sempre più: “No, grazie, buon samaritano. Non ti disturbare” e in un lampo di orgoglio nascosi nello sguardo la tristezza”.

Matteo mi carezzò un braccio: “Che stupida! Mica lo faccio per pietà! E che…”.

Si fermò. Si sentiva su un terreno pericoloso. Gli piacevo e intuiva che ero diversa dalle altre. Voleva la solita avventura senza impegni, ma d’un tratto gli sembrava meschino farmi del male, poco o tanto. Gli sarebbe piaciuto baciarmi subito, ma avvertiva in me una tensione infantile che mi avrebbe richiusa come un’ostrica e lui non voleva questo.

“E’ che…”.

Più tardava a trovare una delle sue solite, simpatiche risposte adatte a situazioni del genere e più gli pareva che la sua libertà gli facesse chiari segni di addio. Alzò le spalle e rise: “E’ che mi sento una mosca di fronte a una tela di ragno e non so se riuscirò ad evitarla!”.

Sorrisi tutta, salii le scale di corsa sentendo squillare il cellulare che avevo lasciato in casa: “Si?”

“Signorina scusi, sono il fioraio”.

“Ancora? No, basta!”

“Ma senta… volevo dirle che… quelle rose non erano per lei. C’è stato un errore. Era l’interno 18, ma di via Toscana 76, non 66… Ci scusi, ma siamo mortificati… Pronto? Ma pronto?”

Spensi  il cellulare. Che stupida. Un errore. Io a credere che qualcuno… Non sapevo se ridere o piangere, anche perché un poco, un poco almeno mi dispiaceva.

Poi suonarono alla porta. Anzi suonò. Lui, Matteo. Con due enormi pacchi in mano. Mi guardò, sorrise come se non mi vedesse da un mese: “Ciao, ti invito a cena a casa tua. Ci stai? Qui c’è tutto”.

Ero confusa e dentro c’era sempre quello spillo che pungeva. Lui filò in cucina e vuotò i sacchetti. Ci fissammo. Lui mise le mani in tasca: “Beh, sì, in effetti tutto questo è strano. Ma se non facciamo presto noi giovani a fare amicizia…”.

Sotto la lampada i suoi capelli erano miele caldo e gli occhi sereni. Ci si poteva fidare di lui, me lo sentivo, anche se non avevamo fatto l’asilo insieme. Mi sembrava comunque di conoscerlo da tanto e questo era bello.

“Sai Matteo… Quelle rose… si trattava di uno sbaglio. Non erano per me”.

Lui mi fissò a lungo, si avvicinò: “Sei delusa? Però… però può darsi che prima o poi cominci io a inviarti dei fiori. Ma stavolta non per sbaglio. Ti va?”

Era un gioco o una promessa? Comunque fosse, dava caldo al cuore e la città non era più nemica e l’amore, poi, forse, non così lontano o irraggiungibile. Lui tese una mano, mi sentii viva e nuova per quella carezza. Poi maliziosa e tenera, declamai: “In questi casi, mia nonna dice sempre che… se son rose fioriranno!”

Scoppiammo a ridere e, vicini, cominciammo a preparare la tavola.

   
 
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