Time Forgets
“E' bella e quindi può esser
corteggiata;
è donna e quindi può essere
conquistata.”
[William Shakespeare]
“Di tutte le perversioni sessuali, la castità è la
più strana.”
[Anatole France]
Ero lì, seduto al solito tavolo, del
solito pub, con i soliti amici.
E ascoltavo la solita voce, che
cantava ogni giorno melodie diverse accompagnate al pianoforte. Tutti testi da
lei scritti sulle musiche di un famoso pianista.
Era come ogni sera. Lei cantava, io
ascoltavo, e i miei occhi si fissavano avidamente sulle sue forme perfette.
Quei fianchi fasciati dagli abiti eleganti, i seni prorompenti cinti da
raffinati corpetti, e le labbra… oh, il desiderio di
poterle possedere con passione era sempre presente nella mia mente. Anche quanto
stavo con un’altra donna, da quando la conoscevo non potevo evitare di pensare
a lei.
Era
come la mia musa ispiratrice.
Certo, non ero il tipo d’uomo che veniva ispirato alla luce del
giorno. Ma ognuno ha i propri segreti, e i propri difetti. Il fatto di non
riuscire mai a sentirmi amato era forse una pecca del mio lavoro. Avevo tutte
le donne ai miei piedi, ma non bastava a farmi sentire il calore che provavo
anche solo ascoltando la sua voce.
“Miroku, arrenditi”. Feci il mio solito
sorriso innocente, fissando i miei occhi blu su Koga.
Anche la mia predisposizione a fare amicizia con i demoni era tuttora un
mistero, anche per me. Gli esseri umani mi… scansavano. Non c’era termine migliore
per definirlo. Invece i demoni mi trovavano stranamente interessante. “Non
capisco a cosa ti riferisci, amico mio”, mentii, come mio solito. Lui fece una smorfia, come suo solito, e spostò gli occhi azzurro ghiaccio su Inuyasha, che muoveva annoiato il dito sul bordo del
bicchiere di vodka. “Non ho forse ragione, cagnaccio?”. Inuyasha
alzò gli occhi ambra, ringhiando. Io ridacchiai, spostandomi in avanti per
dividerli. “Suvvia, vi sembra il caso di litigare? Ascoltate piuttosto, la
melodia è cambiata”. Ed era vero: era diventata più dolce e meno movimentata.
Fissai nuovamente il mio sguardo su di lei, stavolta sul suo volto. La
carnagione così chiara, le proporzioni perfette, quelle folte ciglia che
nascondevano con delicatezza e dolcezza le profonde pozze ametista: gli occhi
incantevoli della fata che mi aveva stregato. Non era proprio da me, io ero il
tipico scapolo che rimorchiava ogni giorno una ragazza diversa con i suoi modi
da gentiluomo quale non ero. Il giorno dopo l’avevo già dimenticata.
E allora perché lei continuavo a desiderarla? Perché venivo a
vedere ogni sera il suo spettacolo? Forse perché ancora non era diventata mia.
Continuava ad opporsi fastidiosamente.
“Ha finito anche oggi, possiamo andare adesso?”, brontolò Inuyasha. Sospirai tristemente. Lui odiava i pub in
generale, diceva che puzzavano come letamai. In verità quello era un locale di
classe, ma questo non sembrava sfiorarlo affatto. “Arrenditi, Miroku”, ripeté Koga, cercando di
riportarmi sulla via della ragione. La sua
ragione. “Non posso arrendermi senza aver tentato”, risposi tranquillamente.
“Senza aver tentato?”, mi fece eco Inuyasha,
“L’ultima volta quel buttafuori stava per torcerti il collo!”. Ah, giusto. Il buttafuori. “Ho un piano per renderlo
inoffensivo”, dissi sorridendo sghembo, “Voi cominciate pure ad andare”. Mi
alzai lentamente, e sentii chiaramente Koga
brontolare un debole ‘Ecco che ci riprova’.
Già, ci riprovavo. Ma il piano di quel giorno era infallibile. Uscii dal locale,
dirigendomi verso la mia macchina. Sentii lo sguardo di qualche ragazza che mi
seguiva, come sempre. Presi con un movimento fluido le chiavi della macchina, e
premetti il pulsante per aprire il bagagliaio: avvertii un debole scatto in
risposta.
“Bene, stavolta dovranno farmi passare”, ghignai, indossando un
cappello da fattorino. Chiusi il cappotto per nascondere il mio abbigliamento,
prima di prendere l’enorme mazzo di rose rosse e dirigermi verso l’uscita di
servizio. Individuai immediatamente l’omone che impediva l’ingresso, con il
quale avevo già discusso più volte, cercando di entrare. Calai ulteriormente la
visiera sul volto, tenendo con difficoltà l’enorme mazzo con una sola mano; era
quasi più grande di me. Una spesa che mi sentivo di poter fare per quella donna
misteriosa. Sorrisi al buttafuori, che mi fulminò con aria tutt’altro che
amichevole.
“Buonasera, mio giovane amico”, esordii, guadagnandomi subito
un’occhiataccia che parlava chiaro: Stai. Alla. Larga. Sorrisi falsamente,
mettendo in bella mostra – sempre che
fosse possibile nasconderle – le rose rosse. “Devo consegnare queste rose
alla signorina Sango Hirai”,
continuai tranquillamente. I fattorini non si tiravano certo indietro per così
poco, e tantomeno io. “Lasciali qui”, ringhiò il buttafuori, incrociando
minacciosamente le braccia. Io continuai a sorridere – era la mia unica speranza di salvezza di fronte a quel muro umano –
e osservai i muscoli minacciosi che si intravedevano sotto la giacca.
“Mi è stato chiesto di consegnarle personalmente”, improvvisai,
“e vossignoria non vorrà privarmi di codesto privilegio, erro?”. Lui mi fissò
confuso, un’espressione così buffa che fu difficile non scoppiare a ridergli in
faccia. “Vos… Vossignoria?”, ripeté confuso. È italiano, bifolco. Inutile dire che questa considerazione la
tenni intelligentemente per me. “Dunque? Non vorrete deludere un sì forte
ammiratore! Queste rose sono di una qualità pregiatissima, e per una sì tanta
quantità avrà di certo speso una fortuna”. Già, una fortuna…
eccome se lo sapevo! Lui mi fissò, probabilmente decidendo se potevo essere
pericoloso o meno.
“E va bene, passa. Ma fa in fretta”, brontolò, lasciandomi
passare. “Ve ne sono grato”, risposi, guadagnandomi l’ingresso vittorioso.
“Fermo!”, mi sentii artigliare il braccio con violenza. Ma che aveva al posto
delle falangi? Ci solleva le case con quelle dita? In quel momento il mio
coraggio cominciò a venire meno, e cominciai a sudare freddo.
“E’l’ultima porta a sinistra”.
L’ultima porta a
sinistra. Quella
porta non poteva immaginare neppure lontanamente lo spavento che mi ero preso
nel sentirmi catturato da quel gigante nano. “Grazie”, dissi in tono soffocato,
quando mi lasciò il braccio dolorante. Mi sbrigai a raggiungere l’ultima porta
a sinistra, prima che ‘Margutte’ decidesse di tornare
a darmi qualche informazione stradale. Bussai delicatamente.
“Avanti”. Quella voce era inconfondibile. Entrai con sicurezza,
facendo passare con nonchalance le rose dalla porta. La vidi riflessa nello
specchio, esattamente come lei vide me. Si voltò a guardare le rose,
trattenendo a stento lo stupore. Nascose con le mani – curatissime – le labbra perfette, prima di avvicinarsi con un passo
calcolato e silenzioso. Si era cambiata rapidamente dopo lo spettacolo, e
sebbene fosse ancora truccata con un viola pastello, ora indossava una t-shirt
a maniche corte e una minigonna a fascia beige che le circondava aderente i
fianchi. Aveva ai piccoli piedi due ballerine nere che rendevano grazioso
l’effetto generale.
“Ti sei legata i capelli”, mi sfuggii, vedendo la fluente chioma
costretta in una coda di cavallo perfetta. Perfetta come ogni cosa in lei. E
proprio lei mi guardò confusa, fermando i suoi passi.
“Come?”. Ah, di nuovo quella voce. Come potevo essere l’unico
che desiderava a tal punto quella donna da rischiare di venir fatto a pezzi dal
titano all’ingresso? Sorrisi a quel pensiero: era decisamente meglio così,
senza rivali, o potevo morire di gelosia. Ero così contraddittorio, avevo centinaia di donne e poi ero geloso di una donna non mia.
“Mi scusi”, aggiunsi immediatamente, “è stato inopportuno
rivolgersi a lei in maniera così colloquiale. Sono un suo grande ammiratore, e
non mi sono potuto trattenere”. Stavolta le sue dita nascosero solo in parte un
sorriso divertito. “Sono dei fiori bellissimi”, cominciò, finalmente decisa a
parlare, “chi li manda?”. “In verità sono stato io”, ammisi immediatamente,
“sembrava fosse l’unico modo per incontrarla tutto intero”. La vidi ridere,
probabilmente aveva colto la mia allusione al buttafuori. “Sì, effettivamente
spesso esagera”, ammise, “non sembri certo un tipo così pericoloso, e di certo
non sono così famosa da rischiare di ritrovarmi il camerino invaso da fan”.
Sorrisi sinceramente. Era di sicuro molto, troppo modesta. “Dobbiamo trovare un
posto ai fiori, chissà se c’è un vaso da qualche parte”, disse pensierosa,
avviandosi alla porta, “aspettami, vado ad avvertire che stai qui e a cercare
un recipiente degno di quelle rose in bellezza e dimensione”. Mi fece una
linguaccia scherzosa, prima di sparire oltre la porta. Posai i fiori su un
ampio ripiano, e tolsi il cappello da fattorino, non più necessario. Aprii
anche la giacca e la lasciai sullo schienale della sedia; era decisamente
troppo calda per quell’ambiente chiuso.
Aveva detto che non sembravo un tipo pericoloso. Quanto si
sbagliava. Forse era proprio per quello che tutte le ragazze ci cascavano con
me. Non sembravo un tipo pericoloso. Mi passai una mano sul collo, scansando
delicatamente il mio codino. Odiavo aspettare.
“Trovato!”, esordì la mia fanciulla, tornando nella stanza con
un grosso vaso. Sembrava pesarle molto, ma prima che mi offrissi di tenerlo al
suo posto, lei fece uno di quei gesti che con me non andavano assolutamente
compiuti. Erano la tentazione allo stato puro.
Si chinò per poggiare a terra il peso, mettendo in mostra il fondoschiena sodo
e perfetto. Miroku, sei nel suo camerino, regolati di
conseguenza! Già, peccato che prima
ancora di terminare questo pensiero la mia mano aveva già raggiunto il suo
gluteo, per combaciare ad esso come due elementi complementari. La vidi
immobilizzarsi, prima di voltarsi confusa.
Ecco, fregato.
“CHE COSA STAI FACENDO, MANIACO?!”.
Non mi sarei mai immaginato che una mano così delicata potesse
dare uno schiaffo tanto potente. Come quello che mi arrivò in piena faccia dopo
pochi secondi. Però, mio malgrado, non potei fare a meno di sorridere, al
pensiero di essere riuscito a toccare così facilmente l’oggetto dei miei
desideri. Sì, il mio solito stupido sorrisino beato che permaneva sulla mia
faccia.
“Mi perdoni”, cominciai, incapace di trattenermi, “ma sarebbe
stato un insulto alla sua bellezza non approfittarne”. La vidi diventare livida
di rabbia.
“TU!”, urlò in un sibilo, stringendo i pugni. Come era bella da
arrabbiata. Temetti che chiamasse il buttafuori, ma poi la guardai meglio, e
valutai il suo grado di arrabbiatura.
No, non mi aveva bisogno. Probabilmente era capace di farmi a
pezzi con un solo sguardo di quegli occhi ametista. Quando si avvicinò
minacciosa mi appiattii contro la finestra del camerino, aperta. Sentivo l’aria
fredda sulla schiena, e il mio sguardo corse per un tempo brevissimo – meglio
non perdere di vista una donna infuriata per più di mezzo secondo – alla giacca
sulla sedia, rimpiangendo di averla tolta. Tornai con gli occhi sulla ragazza,
che aveva preso il vaso dal pavimento.
“FUORI DA QUESTA STANZA!”, strillò, lanciandolo con tutta la sua
forza.
Se quel vaso mi avesse preso la fronte, come la sua mira
perfetta aveva previsto, di sicuro mi avrebbe frantumato il cranio. Feci un
gesto troppo veloce per un umano come me, sporgendomi all’indietro.
Risultato? Diedi una capocciata al bordo alzato della finestra,
per mettermi le mani sulla testa dolorante persi l’equilibrio, e caddi
dall’apertura. Sentii il vaso frantumarsi poco lontano, e il mio collo incriccarsi allegramente assieme alla schiena sull’asfalto
del vicolo.
“Che succede?”. La voce del buttafuori fu una cura immediata per
le mie vertebre cervicali. Mi rialzai e scattai nel vicolo a velocità lampo,
correndo verso la macchina di Inuyasha. Non avevo il
tempo di montare sulla mia. Vidi la berlina argentata già in moto, con i miei
due amici demoni seduti sui sedili anteriori. Vidi Koga
voltarsi perplesso verso di me e indicarmi a Inuyasha
che, dopo essere impallidito, imprecò qualcosa – potevo capirlo dal suo labiale
– e arpionò lo sterzo. Aprii la portiera dei sedili posteriori e, prima ancora
di montare con entrambi i piedi sulla macchina, Inuyasha
partì. Chiusi la portiera mentre l’auto era già in corsa, con il respiro
mozzato e le gambe e i polmoni a pezzi, mentre il buttafuori rinunciava a
rincorrere l’autovettura.
“Miroku, sei un pazzo!”, sbaitò Inuyasha fuori pericolo,
“Se quell’energumeno faceva un solo graffio alla mia Jaguar tu eri un uomo morto!”.
“Se mi prendeva lo sarei stato comunque”, riuscii a dire tra un respiro e
l’altro. Koga mi guardò con la coda dell’occhio. “Il
tuo giaccone?”, domandò subito. Sorrisi, ricordando le ottime capacità di
osservazione del mio amico. “Diciamo che tornerò a prenderlo assieme alla mia
macchina”, risposi, pensando alla prossima mossa da fare. Vidi Inuyasha ruotare gli occhi dallo specchietto retrovisore,
prima di sbuffare scocciato.
“Keh! Credimi Miroku,
lascia stare quella donna. Non è il tuo tipo”. Sapevo che era un consiglio da
amico, seppur detto con il suo solito tono scocciato. Ma non potevo arrendermi,
non così. Sango era il mio pensiero fisso, e non
avrei mai rinunciato a lei.
“Sai una cosa, Inuyasha?”, domandai,
attirando l’attenzione dei miei amici, “Sango è una
donna”. Koga mi fissò perplesso. “E allora? Ci sono
moltissime altre donne, e lo sai benissimo, don Giovanni come sei”. “Non mi
capite”, sospirai sconsolato, “rinunciare a lei sarebbe come arrendermi”. Koga sprofondò nel suo sedile, concentrandosi sulla strada.
“E allora cosa vorresti fare?”. Sorrisi, divertito dai miei
futuri piani.
“E' bella e quindi può esser corteggiata; è donna e quindi può
essere conquistata.”
“Miroku?”.
Mugolai infastidito, cercando di girare il collo. Gesto inutile e doloroso.
Come si può sperare di girare il collo quando è immobilizzato da un collare?
Vidi Koga entrare nell’appartamento con la coda
dell’occhio, quando ormai Ayame si era già
posizionata davanti a me con la spesa in mano.
“Koga mi ha
detto che ti sei incriccato il collo per corteggiare
quella Sango”, cominciò lei, lasciando la busta sul
tavolo, “Non riuscivo a crederci, e sono venuta per accertarmene”.
“Gentilissima”, sospirai tristemente,
osservando la busta di cartone. Non potevo neppure uscire per andare a
comprarmi da mangiare. Umiliante. Koga mi guardò con sguardo indecifrabile. Lo sguardo di un
amico rassegnato che non vuole fartelo notare.
“Miroku”,
cominciò, con la sua voce roca. Me lo aspettavo. “Che c’è?”, domandai
inutilmente, per fargli credere di non aver capito dove voleva andare a parare.
“Oggi non sei andato a lavoro, vero?”. Alzai gli occhi al cielo. “No Koga, a chi interesserebbe un modello col collare?”, gli
feci notare con tutta la gentilezza che riuscivo a mettere assieme in quella
scocciante situazione. Oltretutto Ayame continuava a
fissarmi incredula. Era uno sguardo fastidioso. Koga
fece la domanda che mi aspettavo. Era chiaro che gli ronzava nella testa da
quando era entrato.
“Non tornerai lì stasera, vero?”.
Sorrisi, ben sapendo di non essere affatto capace di resistere alla tentazione.
“Certo che ci tornerò”.
Adesso che sapevo quale era la
finestra del camerino di Sango, fu una passeggiata
intrufolarsi nel vicolo. Guardai all’interno: era vuoto, quindi non era ancora
rientrata dallo spettacolo. Ma dovetti accontentarmi di attenderla all’esterno,
dato che il collare mi impediva di fare movimenti complessi, come per esempio
arrampicarmi su una finestra. Attesi pazientemente, notando con piacere che
aveva messo i miei fiori in un vaso molto elegante. Quindi li aveva apprezzati,
anche se aveva cercato di spaccarmi la testa. Individuai anche la mia giacca.
Era buttata nel secchio sotto al tavolino, con le maniche che straripavano
cercando di fuggire. Doveva essere ancora arrabbiata…
Un delicato scatto, e concentrai la
mia attenzione sulla porta. Qualcuno la stava aprendo, e dopo poco Sango fece la sua entrata nel camerino, ancora vestita con
un delicato abito lilla che le metteva in risalto il seno. Sospirai beato, e in
un rapido guizzo i suoi occhi erano concentrati su di me.
Sorpresa. Confusione. Incredulità.
Rabbia.
Queste furono le emozioni che vidi
passare nei suoi occhi ametista nel corso di pochissimi secondi. Boccheggiò,
cercando qualcosa da urlarmi, ma io la precedetti cordialmente.
“Buonasera”, le dissi allegro, “bella
come sempre mia cara”.
“Mia cara?”, ringhiò lei con la sua
bellissima voce, “Con quale coraggio ti sei ripresentato qui?”. Risposi con
semplicità, e solo con una mezza menzogna: “Sono venuto a riprendermi la giacca”.
La indicai lì, nel secchio, e Sango non poté
trattenere una risatina maligna.
Adoravo anche questo di lei.
“Comunque consolati, all’ospedale ci
sono andato comunque per la cervicale. So che avresti preferito un trauma
cranico, ma la vita va così, che ci vuoi fare”, aggiunsi ironicamente. Sembrò
funzionare, perché notando il mio collare ridacchiò nuovamente. “Ti sono
piaciuti i fiori?”, domandai subito, approfittandone. Lei valutò cosa
rispondere per qualche secondo.
“I fiori non hanno colpa: non
allungano le mani come qualcuno”, disse tagliente, alludendo alla mia
bricconata involontaria.
“Era un modo per mostrare
apprezzamento”, mi difesi immediatamente, “una donna così bella deve pur
ricevere dei complimenti per la sua linea!”. Mi fulminò immediatamente. Eh già,
non era affatto come le altre donne che avevo avuto.
Lei era speciale. E non era una facile.
“Le rose erano più che sufficienti”,
ringhiò minacciosa, “e ora sparisci, o il prossimo lancio sarà un centro”. Non
dava alcun segno di scherzare.
“Va bene, ma sai, come i fiori anche
la giacca non ha colpa. Guarda, cerca di fuggire poverina”, dissi con occhi da
cerbiatto. Lei la osservò per nulla impietosita.
“Cerca di fuggire o allunga le mani
come il proprietario?”, domandò retoricamente. Stavolta fui io a ridere, con il
mio solito sorrisino colpevole. “Meglio non rischiare, no? Se la tieni lì
potrebbe mostrarti il suo apprezzamento mentre ti strucchi”, commentai
speranzoso. Lei fece una smorfia, acchiappò il giaccone e me lo lanciò in malo
modo.
“Adesso sparisci”, brontolò, arrossita. Rimasi sorpreso da questo
dettaglio. Perché mai doveva sentirsi in imbarazzo? La giacca era un aggressore
così spaventoso? Sospirai, capendo che da quella serata non avrei ottenuto niente
di meglio.
“Allora ci vediamo presto”, la salutai
con un piccolo inchino. Lei mi sorrise impercettibilmente, con le sopracciglia
sollevate. Era decisamente scettica. “Addio”, pronunciò molto lentamente,
avvicinandosi alla finestra per chiuderla. Feci appena in tempo a togliere le
dita, prima che me le schiacciasse con l’anta dell’infisso.
Quella donna era sadica, cercava ogni
giorno un modo per farmi passare la notte all’ospedale. Sospirai sconsolato.
“Sigh. È
proprio vero, di tutte le perversioni
sessuali, la castità è la più strana… e la peggiore!”, aggiunsi di mio alla citazione
voltandomi verso la macchina. Peccato che davanti a me non c’era più il vicolo.
Vidi solo una maglia nera, con sopra
la preoccupante scritta bianca ‘Security’.
“Entri pure, è qui”.
Quel giorno la voce dell’infermiere
era terribilmente in contrasto con le delicate voci delle infermiere dei giorni
prima. Infermiere che si erano fatte cambiare paziente dopo aver valutato il
mio carattere.
Le donne si lamentano sempre che non
gli fai i complimenti e poi quando glieli fai… che
pazienza che ci vuole!
“Ciao Miroku”.
“Buongiorno Inuyasha”, risposi fissandolo. Era venuto
con la sua ragazza, Kagome, dalla quale mi teneva
sempre lontano con minacce di morte. “Buongiorno anche a lei divina Kagome”, la salutai, e lei sorrise onorata dal complimento,
come sempre. Inuyasha invece mi fulminò. Come sempre.
“Come stai oggi?”, domandò il mio
amico. Io fissai il gesso alla gamba, per quanto mi fosse possibile piegare il
collo con il collare che ancora tenevo. “Uhm… a vista
non saprei, direi come sempre”. “Abbiamo buone notizie!”, esclamò Kagome stordendoci entrambi, “il buttafuori che ti ha
pestato è agli arresti domiciliari e sembra che vincerai tu la causa”.
“Ci mancherebbe”, brontolai, percosso
da un brivido. Che brutti ricordi. Non avevo mai avuto tanta paura di morire in
vita mia. E adesso mi toccava stare a letto per un mese a causa di quel
pazzoide.
“Quante visite oggi. È quella stanza
in fondo”, sentii dire dall’infermiere.
“Grazie”.
Rimasi immobile. Quella voce era
inconfondibile. Kagome si affacciò felice alla porta.
“Sango, allora sei venuta!”. Fissai Kagome sconvolto, prima di fulminare Inuyasha.
Lui stava volontariamente distogliendo lo sguardo. “L’ho saputo solo ieri che
si conoscevano”, si difese, fino a darmi definitivamente le spalle.
Poi l’immagine di Sango
apparve oltre la porta, e tutto il resto divenne insignificante.
“Ciao”, mormorò lei, rossa in volto e
imbarazzatissima. Teneva in mano un mazzetto di rose color pesca, e si sforzava
di sorridere. “Buongiorno mia cara”. Mi fulminò nuovamente. Ora la riconoscevo.
Non potei evitare di ridacchiare alla su reazione.
“Noi andiamo al bar”, esclamò Kagome, prendendo Inuyasha per il
braccio. “Ma io non voglio”, replicò lui immediatamente. Kagome
lo fulminò con lo sguardo. “Andiamo al bar, tu vuoi un cappuccino, vero Inuyasha?”,
sibilò la ragazza minacciosa. Il mio amico annuì terrorizzato, prima di venir
trascinato via in malo modo. Ridacchiai davanti a quella scena.
Le donne sapevano essere spaventose.
“Sono venuta per scusarmi”, cominciò Sango, attirando nuovamente la mia attenzione, “Ecco… non volevo che finissi veramente all’ospedale”. Era
terribilmente imbarazzata, si vedeva che chiedere scusa le costava molto.
Doveva essere una donna molto orgogliosa.
“Non preoccuparti”, le dissi io, “non
sei stata certo tu a picchiarmi”. Lei sorrise, e mi mostrò i fiori.
“Ti ho portato delle rose per
ravvivare un po’ l’ambiente”, esclamò, guardandosi attorno. “C’è un vaso?”. Gli
indicai quello sul mio comodino. Si avviò per metterci i fiori. Era
terribilmente vicina. Che tentazione
Si vedeva che non aveva affatto capito
com’ero.
“DI NUOVO?!
Ma allora è una fissa!”, strillò lei saltando indietro, schiaffeggiando la mia
mano. Inutile, non riuscivo a resistere all’impulso di palparle il sedere ogni
volta.
“È una malattia inguaribile”,
commentai io sconsolato. Lei uscì dalla stanza come una furia, scontrandosi con
Inuyasha e Kagome, i quali
stavano origliando alla porta.
“Miroku, non
l’avrai palpata di nuovo?!”, mi sgridò Kagome,
sapendo benissimo che l’avevo appena fatto. Io sospirai tristemente.
“Uffa, ogni volta devo ricominciare
daccapo!”.
Il commento di Inuyasha
fu uno, e uno solo:
“Il solito maniaco”.
Incredibilmente
non ho molto da dire stavolta. Sono arrivata seconda, è sono molto soddisfatta,
ma questa storia è stato un parto che non mi ha portato granché bene. Mi ha
portato via moltissimo tempo, perché non ero abituata ad immedesimarmi in Miroku, e si è portata via anche la mia ispirazione. Come
conseguenza non riesco più a scrivere con velocità, e ci metto ore per scrivere
un terzo di pagina. Diverse persone hanno cercato di uccidermi per il mancato
aggiornamento di Neko to Inu, spero che questa shot possa
alleviare la loro ira ^^’
Giuro che
non parteciperò più ai concorsi fino alla fine di Neko
to Inu!!! XD *si inchina scusandosi profondamente*
Ne
approfitto per ringraziare Roro, che ha indetto il
concorso e si è mezza suicidata per postare i risultati nonostante il pc rotto!
Roro,
we love you! *I love Roro-chan*
P.S. Il
titolo non ha attinenza con la storia, perché deriva dal nome di una melodia al
pianoforte che mi ha molto ispirato sul ruolo di Sango.
Ringrazio Yiruma e le sue fantastiche musiche!
Aryuna