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Autore: princess_sarah    06/04/2016    0 recensioni
L’aria condizionata mi congelava il viso intanto che la macchina viaggiava oltre il limite di velocità. Mio padre seduto davanti a me continuava a ripetere quanto sarebbe stato bello sbarazzarsi finalmente di me e mia madre gridava felice tutti i nomi delle città che avrebbe finalmente potuto visitare. Io stavo bene, pensavo al passato e immaginavo il futuro.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Era una bella giornata di Giugno. Il 20 Giugno. Il sole batteva forte sulle pietre e gli alberi venivano mossi da una leggera brezza mattutina. Le pecore pascolavano nella cima delle colline, guidate da un pastore tedesco che faceva avanti e indietro senza sosta. Nel cielo le nuvole formavano le forme più bizzarre. L’aria condizionata mi congelava il viso intanto che la macchina viaggiava oltre il limite di velocità. Mio padre seduto davanti a me continuava a ripetere quanto sarebbe stato bello sbarazzarsi finalmente di me e mia madre gridava felice tutti i nomi delle città che avrebbe finalmente potuto visitare. Io stavo bene, pensavo al passato e immaginavo il futuro.
Il campanello suonò. Io chiusi il libro di storia e andai ad aprire controvoglia. All’uscio c’era una donna con gonna e camicia grigia, molto formale. I capelli biondi erano tenuti all’indietro in una crocchia troppo stretta che le metteva in risalto gli occhi a mandorla verdi. Mi scrutava attentamente.
-Come posso aiutarla?- le chiesi. Lei mi spinse da parte ed entrò in casa con un movimento svelto.
-Sono dei servizi sociali. Una chiamata anonima ha segnalato la situazione di questa famiglia e sono qui per assicurarmi che non sia stato uno scherzo.- ci misi qualche secondo per realizzare cosa fosse successo e per un momento ebbi paura che non trovasse la mia situazione così “disastrosa”. Ma la fortuna era dalla mia parte e proprio in quel momento uscirono dalla cucina i miei genitori ubriachi, con solo la biancheria addosso e una canna in mano.
-Chi ha suonato?- disse mia madre, ridendo. L’assistente sociale mi guardò come se si aspettasse di vedermi sconvolto a quella vista ma rimase delusa. Feci spallucce per farle capire che era sempre così. Intanto il mio battito cardiaco aumentava e richiamai tutto il contegno che avevo in corpo pe non mettermi a saltellare.
-Voi siete la famiglia…- controllò un foglio che teneva in mano da quando era entrata -…Lance?- i miei genitori annuirono ancora ridendo, tenendosi a vicenda per evitare di cadere.
-Chi ci desidera?- la signora ignorò la domanda e si rivolse a me.
-Posso farti qualche domanda?-
Presi le cuffie dalla mia borsa e misi la mia playlist di musica classica a tutto volume. Sembrerà assurdo, ma riuscì a coprire gli schiamazzi di quelli che ora potevo chiamare ex-genitori. Presi “il nome della rosa” e un dizionario di italiano dalla valigia e iniziai a leggere. Avevo passato le ultime due settimane fra lezioni di italiano e feste d’addioarrivederci da parte dei miei amici.
-Almeno non dovrai più vivere con quei due pazzi.- mi prese la sigaretta dalla mano e fece un lungo tiro.
-Però mi mancherai, mi mancheranno anche gli altri.- mi girai verso la mia migliore amica e le misi un braccio intorno alla spalla.
-Anche tu mi mancherai, ma continueremo a sentirci ogni giorno.- sapevo che stava soffrendo tantissimo, ma preferiva esporre la parte di sé che era felice per me. L’adoravo per questo. Passammo qualche minuto in silenzio, continuando a scambiarci la sigaretta. Poi riprese la parola:- In che parte dell’Italia devi andare?-
-Sardegna, in un paesino ai piedi di delle montagne.-
-Un bel cambiamento, ti mancherà la frenesia di New York?-
Quel giorno non sapevo rispondere alla domanda. Adesso, guardando quei bellissimi paesaggi, l’unica risposta che riuscivo a trovare era sì, mi sarebbe mancata la grande mela. In un posto del genere mi sarebbe piaciuto andarci in vacanza, non viverci. Mi sarei abituato, almeno non dovevo più vivere con quei due. Avevo parlato al telefono con la donna che mi avrebbe ospitato ed era sembrata molto gentile e disponibile. Ero felice di quel cambiamento. Avrei trovato difficoltà con la lingua, ad ambientarmi e ad aprirmi con nuove persone? Sicuro. Ma mi andava bene così. Ci misi mezz’ora a capire la prima pagina, così mi arresi e abbandonai il libro.
-Sicuro di voler prendere proprio questo? E’ pieno di parole che neanche la maggior parte degli italiani capisce. E’ troppo difficile per uno che sa a malapena cosa vuol dire “malapena”.- Erika mi stava davanti con uno sguardo di sfida.
-Sì, se parto da cose difficili imparerò prima. No?- Alzò un sopracciglio e mi consegnò il libro, alquanto perplessa.
-Quando arriverai lì e ti renderai conto di non riuscire a leggerlo mandami un messaggio, ti invio il libro di favole di quando ero piccola.-
Presi il telefono e le inviai un messaggio: “aspetto il libro di favole.” Dopo poco mi rispose con delle faccine che ridono e una con indice e pollice attaccati a formare “ok”. Posai il telefono e mi addormentai con una dolce melodia di violino alle orecchie.
La macchina continuava ad andare per stradine di campagna finché non si fermò. Uscii dall’auto, che ripartì. Girandomi intorno notai che dietro di me si trovava una villa gigantesca, con una grande facciata bianca e piena di finestre. Per arrivare alla porta attraversai un vialetto di sabbia circondato a destra e a sinistra da alti alberi che lo tenevano all’ombra. Oltre gli alberi c’era un giardino verde enorme, con cespugli potati nei modi più originali, in stile Edward mani di forbice. Arrivai davanti al portone e ancora prima di poter suonare mi aprì un alto signore elegante con un fazzoletto adagiato sul suo avambraccio. Feci un passo avanti e…
Mi svegliai. Sentì un dolore alla testa e mi resi conto che mio padre mi aveva appena dato uno schiaffo. Sbadigliai e aprii gli occhi.
-Buongiorno principessa, siamo arrivati. Muoviti a prendere la tua roba e sparisci.- Scesi dalla macchina e aprii il cofano per prendere le valigie che non stavano affianco a me in macchina. Chiusi il cofano e la macchina ripartì. Nessun saluto. Non mi importava. Rimasi per un po’ a occhi chiusi immaginando di riaprirli e trovarmi davanti la villa del mio sogno. Li socchiusi lentamente e rimasi molto deluso. Davanti a me c’erano delle case a schiera differenziate solo dal colore. Guardai dall’altra parte della strada ed era la stessa storia. Salii sul marciapiede per non farmi investire da una Ford che passava a tutta velocità e sfilai dalla tasca il foglio con l’indirizzo. La via era giusta, ora dovevo solo trovare il numero 45. Iniziai a camminare esaminando i volti delle poche persone che incontravo. La maggior parte mi guardavano stranite. Immaginai che spettacolo dovessi dare: un ragazzino sedicenne con quattro valigie, una per braccio, più uno zainetto in spalla, con i capelli sconvolti e gli occhi ancora assonnati. Dopo cinque minuti trovai il casa. Era identica alle altre, di un giallo scolorito. C’erano due piani divisi fra loro da una riga di pittura bianca. Mi fermai davanti alla porta e visualizzai nella mia mente un paio di frasi in italiano di senso compiuto e premetti nel campanello. Aprì la porta una donna bassa e magra con i capelli corti e rossi tinti. Gli occhi gentili erano color nocciola e la pelle chiara e curata la faceva sembrare più giovane di quello che probabilmente era. Mi sorrise e notai i denti leggermente storti.
-Benvenuto, tu devi essere Nicholas, io mi chiamo Rosalia, accomodati.- salutai e entrai. Venni accolto da un forte odore di sugo. Davanti a me c’era una grande stanza luminosa che fungeva da salotto, con tre divani di pelle verdi disposti intorno alla piccola televisione a schermo piatto, da cucina, dove il colore dominante era l’avorio, e da sala da pranzo, con un tavolo di legno già apparecchiato per tre con sei sedie disposte attorno, anch’esse di legno e con dei cuscinetti verdi sistemati sopra. Seduto davanti alla televisione c’era un uomo che appena mi vide si alzò sorridendo. Era altissimo, almeno un metro e novanta e il suo viso era reso ancora più simpatico dai capelli grigi corti che gli stavano dritti sulla testa. Era anche lui molto magro e quando mi strinse la mano notai i vari calli. Mi ricordai dei libri che avevo letto sulla popolazione sarda, che utilizzava ancora l’agricoltura come fonte di guadagno, e pensai che probabilmente lui lavorasse nei campi. Si presentò come “Ignazio” e mi fece fare un giro della casa rapidamente. Poggiai le valigie nella mia stanza. Era di grandezza media, con le pareti blu e spoglie. A un lato c’era un letto a una piazza e mezza con una coperta rossa. Al lato un comodino di legno con una lampada sopra. Dall’altra parte della stanza c’era una scrivania con affianco un armadio uguale a quello delle Cronache di Narnia che mi piacque da subito. Al centro della stanza si trovava un tappetto con una fantasia ondulata nero e grigia. Poggiai le valigie affianco al letto e uscii dalla stanza.
-Avete una casa molto bella.- sentii rimbombare nelle mie orecchie il mio accento americano e mi vergognai tantissimo. E non avevo ancora detto una parola con la erre. Potevo descrivervi un monastero medievale senza problemi ma la mia pronuncia sembrava “quella di un senegalese appena sbarcato a Lampedusa”, come mi avrebbero poi fatto notare.
-Vieni, è ora di pranzo.- stavo morendo di fame. Mangiammo pasta al sugo semplicemente buonissima. Nei ristoranti italiani di New York non avevo mai provato niente del genere. Glielo feci notare.
-Cosa ne sanno gli americani della vera cucina italiana!- risi a quella battuta che poteva sembrare offensiva a qualcuno, ma non a me. Come secondo (non avevo mai mangiato un secondo!) c’era una normale fettina impanata che io trovai comunque deliziosa. C’era anche la verdura e la frutta, e infine anche un dessert. Alla fine del pranzo mi sentivo scoppiare, ma particolarmente soddisfatto. Durante il pasto avevamo parlato della mia vita a New York, di tutte le cose diverse fra i due posti e di cosa dovevo aspettarmi per i giorni seguenti: mi avrebbero fatto visitare i posti più importanti della Sardegna durante l’estate. Dopo aiutai Rosalia a sparecchiare e lavare i piatti fingendo di non capire che stava cercando di impedirmelo. Intanto Ignazio era andato nella camera matrimoniale a fare un pisolino. In seguito la moglie lo raggiunse e io disfai le valigie, personalizzando la camera che prima era piuttosto neutra. Misi nel comodino un libro in inglese e Il nome della rosa, sopra quest’ultimo ci sistemai una foto di me con Erika. Poi passai alla scrivania dove misi i libri di grammatica italiana e gli altri cinque libri in inglese che avevo portato con me. Nel muro sopra attaccai due foto di gruppo, una insieme al mio gruppo di amici e l’altra con la mia classe di psicologia. Dopo aver messo tutti i vestiti all’interno dell’armadio attaccai  nell’anta interna il ritratto che mi aveva fatto Paul e nell’altra un calendario dove avevo segnato tutti i compleanni. Finito questo lavoro mi feci una doccia e poi bevvi il the insieme a Rosalia e scoprii che la mia deduzione era esatta, lavoravano entrambi in un loro uliveto. Ogni anno a novembre iniziavano la raccolta delle olive, le portavano in mulino dove le facevano macinare e infine ritiravano l’olio per poi venderlo. Contemporaneamente Rosalia gestiva una clinica insieme al fratello e Ignazio faceva il muratore. Parlammo per molto tempo e cenammo alle otto e mezza con gli avanzi di pranzo. Alle nove e mezza ero coricato in camera mia provando a leggere qualcosa ma ero troppo esausto, così mi addormentai poco dopo.
   
 
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