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Autore: The DogAndWolf    07/04/2016    5 recensioni
Una notte come tutte le altre alla Testa di Porco, con protagonisti Aberforth, la sua solitudine, il suo rimorso e la sua acidità.
Questa storia si è classificata seconda al contest "Mangiamorte VS Ordine, Chi vincerà la sfida?" indetto da S.Elric a.k.a. Queila.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aberforth Silente
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Guardò attraverso agli occhiali sudici, sbuffando.
Se li tolse e ci passò sopra uno straccio chiazzato d’unto, non con l’obiettivo di pulirli ma di passare gli ultimi minuti senza fissare con nervosismo l’orologio dalle sette lancette.
Li inforcò nuovamente, schioccando la lingua con impazienza.
«È inutile che mi guardi così.»
Aveva usato un tono così dolce che in vita aveva udito solo la donna a cui si era rivolto.
La fragile figura bionda lo fissò dalla propria cornice con i suoi stessi occhi azzurri, soffocando una risata silenziosa con la mano.
«Non ho mai detto che non abbiano fegato. Ritengo solo che siano degli sconsiderati.»
Ariana gli scoccò uno sguardo pieno di significato e lui continuò il loro dialogo, anche se lei non rispose e mai l’avrebbe fatto.
«Tutti a seguire i voleri di Albus anche dopo la sua morte. Ti rendi conto?»
Si alzò senza riuscire più a stare fermo e passò il suo fedele straccio sudicio sul tavolo più vicino al quadro.
Fuori una nebbia densa e malsana premeva sulle finestre della Testa di Porco e Aberforth evitò accuratamente di guardare fuori per non sentirsi soffocare dalla solitudine della propria bettola.
Quando rialzò lo sguardo sulla propria sorella minore dovette fare uno sforzo enorme perché non gli si inumidissero gli occhi.
Era così giovane, così bella, così perfetta.
Improvvisamente i ricordi del duello più importante della sua vita lo assalirono, strozzandogli il fiato in gola. Il subconscio formulò la domanda prima che lui potesse comandare a quelle parole di stare lontane dalla propria testa.
L’ho uccisa io?
Scosse la testa con un sospiro stanco, ritornando dietro al bancone, ormai dimentico dell’appuntamento che aveva, senza poter guardare Ariana in faccia.
Maledisse i Dissennatori per tutti quei ricordi non voluti e iniziò a stringersi lo straccio tra le mani, sentendosi più anziano che mai. Si chiese se il suo geniale fratello si fosse mai sentito così.
Era facile dare la colpa ad Albus di quella situazione, era maledettamente facile. Probabilmente era la principale ragione per cui credeva fermamente nella sua colpevolezza.
C’era lui dietro a tutte quelle macchinazioni, dietro a tutti quei segreti; c’era sempre e solo stato suo fratello con il suo ideale più alto, così alto da renderlo miope nei confronti dei propri cari.
Sapeva che Voldemort andava fermato, come, a suo tempo, andava fermato Grindelwald. Però si sentiva troppo vecchio perché spettasse a lui fermarlo e, sicuramente, i ragazzi di Hogwarts erano troppo giovani per farlo. Ma allora a chi toccava combattere? A quell’illuso di Harry Potter?
Lanciò lo straccio sporco nel lavello, sbuffando rumorosamente.
Harry Potter era giovane quanto gli altri ragazzini rintanati nella Stanza delle Necessità, il solo fatto che Voldemort l’avesse quasi ucciso da bambino non lo rendeva certo il Prescelto. Era un diciasettenne come tutti i diciasettenni che c’erano a Hogwarts, non era pronto al fardello che Albus gli aveva scaricato sulle spalle.
Cosa faceva suo fratello alle persone? Perché raccontava loro bugie e le aggirava, facendo creder loro di far parte di un piano più grande, dicendo loro di agire per il Bene Superiore. Come poteva la ricerca di qualcosa di così puro e importante mietere così tante vittime? Perché bastava fagocitare le persone nei propri segreti per manipolarle e far fare loro quello che si voleva? Quello che non si era riuscito a fare durante la propria vita.
Albus era sempre stato un genio, era vero, ma l’unica persona che era riuscita a resistere al fascino dei suoi segreti era proprio Aberforth. E sapeva quanto fosse difficile.
In fondo il fascino di tutte le belle cose che aveva predicato Albus era abbastanza da muovere delle persone oltre la propria morte.
Con una smorfia amara Aberforth pensò che, alla fine, suo fratello aveva raggiunto lo scopo che perseguiva da adolescente: aveva sconfitto la morte, il suo volere si era dimostrato più forte della morte.
Il ritratto di Ariana si aprì con uno scatto che colse il locandiere impreparato nelle sue elucubrazioni. La mano andò alla bacchetta, ma, vedendo il familiare viso una volta paffuto del ragazzo che gli faceva visita una volta al giorno, si tranquillizzò e afferrò nuovamente il suo caro straccio lanciato nel lavello ancora più sporco.
«Ciao Ab!»
Gli grugnì in risposta e sparì nelle cucine a recuperare il pentolone con dentro il cibo per i ragazzi che si erano messi in testa di ribellarsi a Voldemort, senza aggiungere una sillaba in più.
Neville posò il pentolone vecchio sul bancone e si girò a guardare Ariana, per niente offeso dai modi bruschi di Aberforth. In fondo aveva compreso il cuore gentile di quel mago, della stessa grandezza di quello del fratello. Neville faceva ancora fatica ad associare Aberforth ad Albus Silente: sembrava impossibile che due persone così diverse tra di loro fossero imparentate, ma allo stesso tempo aveva imparato a non farsi ingannare dall’apparenza del locandiere.
Ricambiò cortesemente il sorriso della giovane donna nel dipinto che lo accompagnava sempre oltre il passaggio segreto da Hogwarts. Non aveva idea di chi fosse, anche se gli occhi azzurri non potevano mentirgli. Aveva accuratamente evitato ogni copia della biografia di Silente scritta dalla Skeeter, ma aveva compreso l’identità della ragazza dalla prima volta che Aberforth l’aveva fatto mangiare lì alla Testa di Porco. Nonostante il rapporto tra lui e il barista, non aveva mai osato chiedere di chi fosse quel ritratto. Sua nonna gli aveva sempre insegnato a non essere invadente.
Suo malgrado lo osservò interessato mentre chiedeva ad Aberforth: «A Rudolph è passata la tosse?»
Era la prima volta che vedeva un ritratto muto. Poi la grazia nei modi della ragazza e quei sorrisi gentili che gli rivolgeva sempre cozzava quasi artisticamente con la rudezza di Aberforth; Neville fissò ipnotizzato quella dolce ragazza muoversi nel suo dipinto, felice e spensierata, senza mai rivolgergli una sola parola.
Si perse a fantasticare come doveva essere stata in vita, come quella gentilezza fosse accolta dal mondo che aveva attorno. Si chiese quanto le dovesse aver voluto bene Aberforth e si sorprese a pensare che il vecchio Preside di Hogwarts non avesse nemmeno mai accennato a quella ragazza. Non che Neville fosse abbastanza in confidenza per parlargliene, ovvio, ma era come se, tristemente, nemmeno un particolare nella vita di Albus Silente avesse mai accennato all’esistenza di quella giovane donna gentile. In quell’istante Neville credette di capire l’astio di Aberforth nei confronti di suo fratello.
«Sì, ora Rudolph sta bene e anche Gwendoline.»
Aberforth avrebbe parlato ore delle proprie capre, ma stranamente quella sera non era molto loquace nemmeno su quell’argomento. Neville spostò lo sguardo su di lui, sentendosi scrutato nel suo intimo come se fosse il vecchio Preside di Hogwarts a guardarlo. Arrossì lievemente quando prese il pentolone, certo che quella smorfia diffidente sul volto del locandiere volesse dire che l’aveva visto mentre fissava il ritratto di Ariana. Si ripromise fermamente di non chiedere mai nulla ad Aberforth riguardo a quel ritratto.
Resse lo sguardo azzurro Silente senza problemi e mormorò, con una gentilezza infinita: «Grazie, Ab.»
Neville sapeva quanto gli costava, sapeva che se i Mangiamorte o i Ghermidori fossero entrati in quel momento per Aberforth sarebbero iniziati una serie di guai che potevano terminare con la propria morte, nel migliore dei casi. E sapeva che, nonostante i suoi costanti rimproveri e brontolii, Abeforth era anche pronto a morire per quella causa. No, non tanto per la causa quanto per loro tutti.
«Siete sempre gli stessi?»
«Aumentiamo ogni giorno di più, Ab.»
«Perché rischiate così tanto? Siete giovani, dovreste preoccuparvi solo di voi stessi e della scuola.»
Neville alzò le spalle, un po’ ingobbito sotto il peso del pentolone.
«Noi ci stiamo preoccupando di noi stessi e della scuola, Ab.»
Aberforth provò la bruciante voglia di urlargli in faccia quanto fossero folli a seguire gli insegnamenti di suo fratello, quanto fosse inutile opporsi a un male così grande che poteva spazzarli via tutti in un batter d’occhio. Ma per la prima volta in tanto tempo, si morse la lingua. Lo fece perché vide qualcosa di estremamente familiare nel volto sciupato di quel diciasettenne. Aveva un fuoco nello sguardo che parlava l’antica lingua del coraggio e gli dava un aspetto maturo, quasi vecchio.
Avrebbe voluto con tutto se stesso che Neville e gli altri suoi compagni di scuola non avessero passato l’adolescenza in un tempo come quello. Non c’era alcuna giustizia in quel mondo e Aberforth era sempre stato pessimista sul fatto che il bene superiore, così tanto amato e voluto da suo fratello, potesse fare qualcosa per cambiare la situazione.
«Non fatevi uccidere», lo salutò brusco come al solito.
Neville rispose con un cenno del capo e un largo sorriso, pieno di speranza. La speranza che gli anni avevano assassinato ad Aberforth.
Lo vide sparire nel buco del ritratto, poi lo seguì sulla tela, scortato con cura da sua sorella.
Sospirò, ritrovandosi a pensare a un tempo più felice e spensierato. Un tempo in cui Grindelwald era un nome a lui sconosciuto e quando suo padre non era finito ad Azkaban. Per sua sorella c’era ancora speranza e l’amore che dava Kendra a ciascuno dei propri figli era equivalente e la bilancia di quell’amore non pendeva ora dalla parte dell’estrema genialità di Albus e ora dalla parte dell’affetto incondizionato di Aberforth per la propria famiglia.
Non era nemmeno sicuro di ricordarsi veramente quel dolce tempo, ma anche se fosse stato completamente frutto di una sua fantasia era bello perdersi in esso.
Quando finì di dare da mangiare alle proprie capre nel retrobottega, si avviò verso la sua camera da letto, ma prima scese ancora una volta a salutare Ariana.
«Io spero veramente che non muoiano, Ariana. Sono dei bravi ragazzi.»
Di colpo una luce illuminò la nebbia lattiginosa nella notte. Aberforth si precipitò alla finestra e riconobbe chiaramente la sagoma di un cervo argentato correre nella notte e dissipare un poco la nebbia attorno a lui.
Afferrò velocemente la bacchetta e si gettò nella notte gelida, certo del significato di quel Patronus, non riuscendo più a pensare a nessun’altra parola per maledire il fratello.

 
*****
Devo dire che mi sono molto divertita a scrivere dal punto di vista di Aberforth perché è l'antitesi di Albus, anche se non vuole rendersi conto di quanto simili siano. Ho scelto questo momento perché secondo me descrive alla perfezione l'ambiguità di Aberforth, diviso a metà tra il lamentarsi e il rimproverare gli altri di stare sbagliando ad andare contro Voldemort e, allo stesso tempo, combatterlo lui stesso con ogni mezzo possibile. Inoltre me lo sono sempre immaginata parlare da solo con il ritratto di Ariana, anche se lei non gli può rispondere.
Spero vi piaccia questa piccola one-shot.
P.S.: Per i miei lettori, so di essere in estremo ritardo con la pubblicazione settimanale della mia ff su HP, ma abbiate fede che entro domani riuscirò a pubblicare!
   
 
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