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Autore: Hermione Weasley    09/04/2016    1 recensioni
“Non siete il primo che è venuto a vedere la strega,” alluse, il sospetto vivissimo.
“Io non credo alle streghe,” non poté fare a meno di sottolineare, vagamente risentito dall'essere stato accomunato ai superstiziosi babbei del villaggio.
“Però siete venuto a vederla comunque,” la ragazza non voleva proprio mollare il colpo. Si sentì messo alle strette, innaturalmente indispettito.
“Ero curioso.”
“Quindi ci credete.”
“No, che non ci credo. Questo posto è piccolo e gli estranei sono sempre fonte di curiosità, non vi pare abbastanza?”
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XVIII secolo. La vita di Clint Barton, figlio adottivo dell'eccentrico lord Phillip Coulson, cambia radicalmente quando una presunta strega viene ad abitare nel bosco vicino alla villa della famiglia. Clint dovrà fare i conti con la superstizione, gli obblighi, le responsabilità e forze in gioco molto più grandi di lui.
[1700 AU] [Clint/Natasha] [apparizioni di tutti gli Avengers + alcuni personaggi di Agents of Shield] [COMPLETA]
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 28
~

 

Quando si fermò per far riposare il cavallo e sostituirlo con uno fresco alla stazione di posta, il sole era ormai calato. Si concesse di guardarsi alle spalle solo quando fu smontata; nelle orecchie il respiro affannoso dell'animale esausto che si mescolava alla musica sguaiata che proveniva dall'osteria adiacente alla stalla.

L'intrico delle colline aveva cancellato qualsiasi segno della capitale, delle sue cinta murarie, del campanile della cattedrale, della facciata elegante e semidistrutta del palazzo reale. Adesso c'erano solo le curve sinuose del paesaggio a disegnarsi contro il cielo arancione e tendente ormai verso il violetto che preludeva alla notte.

Si era impedita di voltarsi perché una vocina dentro di lei l'aveva messa in guardia: non era sicura che la voglia di tornare indietro non sarebbe stata tanto schiacciante da convincerla ad obbedirle. Era una debolezza che non si sarebbe potuta permettere: per questo aveva spronato il cavallo a sfrecciare rapido come il vento lungo la via principale.

In altre circostanze avrebbe preso strade meno in vista, scorciatoie e sentieri sterrati che si tuffavano nei boschi che chiazzavano le terre del re; ma gli avvenimenti degli ultimi giorni avevano bruscamente interrotto gli arrivi nella città principale del regno e la via maestra era pressoché deserta. Aveva incontrato solo qualche gruppo di commercianti, ribelli e persino soldati allo sbando, accampati sui prati o all'ombra di alberi frondosi per sfuggire alla canicola di un'estate ormai agli sgoccioli.

Conosceva a memoria i pericoli in agguato dietro la decisione di incamminarsi su vie tanto trafficate, ma non le importava. Anzi, per una sorta di paradossale e insensato desiderio, avrebbe voluto che qualcuno le tagliasse la strada, che le dessero un motivo per mettere in moto i muscoli, per permetterle di fare ciò che sapeva fare meglio: mentire, combattere, uccidere.

Ma il destino non sembrava essere intenzionato ad accontentarla. Non si era fermata che una volta per abbeverare e rifocillare l'animale e poi era ripartita finché non aveva dovuto arrendersi all'evidenza che la bestia aveva bisogno di riposare e lei – pur non volendolo ammettere – anche.

Un uomo le venne incontro emergendo dalle ombre che l'unica lanterna accesa proiettava sul fondo della stalla. La luce calda del tramonto si era fatta grigiastra, segno che l'oscurità avrebbe inondato il mondo da un momento all'altro.

“Quanto per un altro cavallo?” Gli chiese prima che potesse essere lui a rivolgerle la parola.

I tratti del volto dello sconosciuto si corrugarono in una smorfia confusa; Natasha lo guardò mentre lanciava un'occhiata alle proprie spalle, come se il buio da cui era appena uscito potesse dargli una qualche risposta.

“Dovreste chiedere al guardiano,” rispose infine.

Era alto e ben piazzato, i vestiti un po' troppo stretti per le sue spalle ampie e muscolose, per le braccia possenti e gonfie sotto le maniche della camicia spiegazzata. I capelli di un biondo sporco gli sfioravano le spalle, tirati indietro sulla fronte con un pezzo di spago.

“Sapete dove posso trovarlo?” Domandò allora, cominciando a spazientirsi. Sapeva che non era colpa dello sconosciuto se non era lui che si occupava di scambiare e rifocillare i cavalli, ma l'ostilità le era uscita comunque spontanea.

“Probabilmente là dentro a bere,” le indicò l'osteria con un pollice. L'insegna scolorita che ritraeva un doppio calderone ondeggiava tristemente nel venticello della sera, producendo un sinistro cigolio ad ogni oscillazione.

Natasha seguì la direzione indicatale dall'uomo: non aveva intenzione di mettersi a discutere con un ubriacone per farsi dare un cavallo fresco e pagare perché quello che lasciava avesse abbastanza acqua e biada.

“Dove siete diretta?” Lo sconosciuto la stava studiando e sebbene la cosa non le piacesse, non percepì nessuna minaccia nella sua persona. Solo una fastidiosa curiosità.

Gli scoccò un'occhiata indecifrabile e decise di non rispondere; al tempo stesso deliberò che avrebbe scambiato personalmente il cavallo con quello più in forma che avrebbe trovato nella stalla, tenendosi il denaro per il disturbo di dover fare da sola.

“I gendarmi vi saranno addosso prima dell'alba,” la mise in guardia l'uomo, del tutto non richiesto.

“I gendarmi hanno cose più importanti a cui pensare,” lo corresse mentre si addentrava nella stalla e l'odore di fieno ed escrementi si faceva più forte.

“Quindi venite dalla capitale. Sapete cos'è successo?”

Passava in rassegna i cavalli rinchiusi nei loro spazi e intanto si impegnava a non rispondere e a non sentirsi in colpa di dover abbandonare in un posto tanto squallido l'animale che l'aveva portata fin lì.

“Non avete voglia di parlare,” constatò l'uomo.

Natasha gli lanciò una rapida occhiata – visto contro quel poco di luce che ancora resisteva nel cielo, la sua sagoma appariva ancora più massiccia – prima di condurre il cavallo in quello che, tra i posti ancora liberi, le sembrava il migliore.

“E voi avete voglia di fare troppe domande,” gli ritorse contro. I respiri pesanti delle bestie che si riposavano o mangiavano tre le due pareti del capannone sembrarono intensificarsi per concordare con lei.

“Sto cercando mio fratello,” le rivelò, facendosi avanti per aiutarla a liberare il cavallo del morso, delle redini, della sella.

“Tutti stanno cercando qualcuno,” si sentì rispondere mentre tratteneva a stento il fastidio che quell'offerta d'aiuto non richiesta le procurava.

“Ditemi soltanto se la città è di nuovo sicura.” Lo guardò afferrare la sella e caricarsi le sue bisacce in spalla come se non pesassero che poche libbre.

“Lo è,” confermò, già stanca della conversazione. “State attento con quelle,” lo mise in guardia alludendo alle borse.

Si sentì in colpa perché era chiaro che l'uomo non voleva farle del male, ma non significava che avesse voglia di scambiare inutili informazioni con uno sconosciuto che non avrebbe più rivisto.

L'uomo annuì una sola volta, sovrappensiero, come registrando le sue parole. Riaprì bocca per consigliarle quello che secondo lui era il cavallo migliore; Natasha decise di fidarsi e si tenne alla larga mentre lo sconosciuto risistemava sella e finimenti sull'animale che si muoveva irrequieto, gli zoccoli che scalpicciavano sul pavimento ricoperto di paglia e fieno.

“Che è successo a vostro fratello?” Si odiò per aver sentito il bisogno di tener vivo quell'inutile scambio di circostanza. Probabilmente stava perdendo il lume della ragione.

“E' scappato di casa,” rispose semplicemente l'altro, completando il lavoro assicurando con cautela il bagaglio di Natasha all'animale che poi si curò di condurre all'esterno. “Ho promesso ai miei genitori che l'avrei ritrovato.”

“Magari non vuole essere ritrovato,” obiettò. La situazione era fin troppo familiare per i suoi gusti. Si chiese se non ci fosse qualcuno, da qualche parte in quel regno sterminato, che la stesse cercando per riportarla a casa. Dovunque casa fosse.

“Magari no,” convenne con lei, abbozzando un mesto sorriso in sua direzione. “Potrei sempre trovare un posto come fabbro e lavorare per il re,” aveva aggiunto come se non potesse credere lui stesso all'improbabilità dell'assunto. “Se l'avete conosciuto saprete dirmi se ha bisogno del mio martello e della mia incudine.” La stava prendendo in giro.

“Tentate,” lo invitò mortalmente seria, riappropriandosi delle redini. Le sembrava di avvertire la voglia di correre del cavallo fin nel proprio stomaco. “C'è molto da fare in città.” Si issò sulla sella, pronta a cavalcare per tutta la notte – per riposare avrebbe trovato un luogo più appartato e meno esposto ai pericoli della strada, più tardi. “Grazie dell'aiuto, signor...”

“Thor,” completò per lei.

Natasha annuì per prenderne atto e non attese altro prima di spronare il cavallo ad un serrato galoppo. Non si voltò per guardare la sagoma massiccia dell'uomo diminuire fino a ridursi ad un puntino distante.

 

***

 

La grata si aprì con uno schiocco scordo.

“Perdonatemi, padre, perché ho peccato.” Le parole rimasero sospese nello spazio ristretto e angusto del confessionale.

Selvig trattenne il fiato e Natasha riuscì quasi a percepire la botta d'ansia e agitazione che gli aveva chiuso la gola nel riconoscere la sua voce.

“N-Natasha? Dove... dove sei stata?” La preoccupazione per la sua incolumità, però, quella non se l'era aspettata. “Ti hanno seguita?” Quella per se stesso invece sì.

“No, sono stata attenta,” lo rassicurò.

“Cos'è successo? Gira voce che gli Stark siano stati uccisi. Ammazzati nel sonno.”

Oltre l'intrico della grata, indovinò il frettoloso segno della croce disegnato a mezz'aria dalla mano pallida dell'uomo. Aveva finto talmente tanto a lungo di essere un prete, che alla fine aveva finito per crederci lui stesso. Si chiese se se ne fosse accorto, se anche per lui la linea di demarcazione che divideva l'inganno dalla realtà si fosse confusa a tal punto da non poterla più individuare.

“La lega dell'Idra ha congiurato per ucciderli entrambi,” spiegò in tono asciutto, “ma il principe Anthony è sopravvissuto. Re Anthony.”

Ripensare agli eventi della capitale le faceva uno strano effetto. Era ormai passato un mese intero da quando si era lasciata la città alle spalle; l'estate aveva ceduto il passo all'autunno e il sole si era fatto meno violento col suo calore. I ricordi erano retrocessi in un angolo opaco della sua memoria e adesso le apparivano distanti, quasi irreali. Come se si fosse inventata tutto per una sorta di bizzarra malattia della mente.

“Re Anthony? Dio... Dio ci salvi,” balbettò Selvig dall'altra parte del divisorio. “E il ragazzo? Che ne è stato del ragazzo?”

“Credo sia tornato a casa,” capì che si riferiva a Clint. Anche i contorni della breve sosta che si erano concessi nel magazzino della chiesetta diroccata di Selvig, tanto tempo prima, le risultavano sfocati.

“Ho visto dei gendarmi ritirare i manifesti della sua taglia, in paese,” sospirò il prete prima di prorompere in un raschiante colpo di tosse.

“Le cose si sono sistemate.” Lo Scudo doveva essersi assicurato di far rientrare la situazione nella normalità, togliendo di mezzo gli avvisi che promettevano duemilacinquecento denari per la cattura di Clint Barton. Vivo o morto.

“Hai risparmiato anche lui?” Selvig stava fronteggiando la grata e cercando il suo sguardo attraverso la barriera che li separava.

Tra tutti i pensieri che le vorticavano costantemente davanti agli occhi, giorno e notte, quello di essersi rifiutata di uccidere Selvig per un ridicolo regolamento di conti, tra lui e uno dei capi della Stanza Rossa, era uno dei pochi che le avevano permesso di rimanere aggrappata alla realtà, di restare lucida, di non lasciarsi trascinare dalla piena impietosa che rischiava di travolgerla ogni volta che portava a termine una missione. Le pareva che tutta la sua umanità fosse racchiusa là dentro, che tutta la speranza per un futuro diverso – per una vita diversa – si concentrasse in quell'unico punto della sua esistenza in cui non era stata capace di uccidere.

Conosceva a memoria lo spazio dei giardini di vetro in cui aveva sorpreso a nascondersi l'ultimo membro di una nobile famiglia ormai decaduta, mangiato dai debiti, corroso dal ricordo della gloria passata, abbandonato da parenti ormai troppo distanti, da amici alienati dalla sua imbarazzante povertà, persino dai mobili che aveva dovuto pignorare o vendere o mettere all'asta per ridurre il cumulo di cambiali non pagate che stavano cominciando a schiacciarlo sotto la loro mole.

Un essere abietto, forse, ignobile. Ma, se si concentrava, riusciva a far riaffiorare la sensazione che le aveva provocato, della stranita solidarietà che gliel'aveva reso simpatico contro ogni pronostico. Non le era mai capitato di sentirsi così davanti ad una delle sue vittime, eppure era sicura di aver ammazzato gente ben più virtuosa di Selvig, persone che avrebbero meritato di vivere più a lungo di quanto Natasha non avesse loro concesso.

Era stato inspiegabile e lo era tutt'ora, ma aveva imparato a non cercare una giustificazione ad ogni costo, ad accettare l'irrazionale perché era l'insensatezza a fare gli esseri umani. Aveva voluto conservare quel frammento della sua vita come il ricordo della propria appartenenza al mondo degli uomini, come un amuleto a cui conferire il ridicolo potere di ricordarle che poteva essere altro.

Però quando aveva deciso di nasconderlo, quando Selvig l'aveva supplicata di non tornare indietro, di tentare la fortuna insieme a lui, non aveva avuto il coraggio di compiere quel salto nel vuoto. I nodi che la legavano alla Stanza Rossa erano ancora troppo forti e in fin dei conti dell'idea di poter cambiare vita, se ne serviva come di un balsamo, un sollievo temporaneo e precario, utile finché rimaneva quello che era: una fantasticheria inapplicabile alla realtà.

“Non dovevo ucciderlo,” finì per rispondere, indecisa.

Era stato proprio il pensiero di Clint a condurla fin lì, ad imporre una brusca deviazione al viaggio che avrebbe dovuto riportarla al monastero sulle montagne orientali del regno.

Forse era solo questione di paura, forse non aveva ancora trovato il coraggio per affrontare i propri fantasmi, i propri demoni. Magari era stata solo una scusa per prolungare il tragitto e strappare a se stessa altro tempo prezioso.

Abbassò lo sguardo sul libro rilegato che teneva stretto tra le mani. Qualche giorno prima si era svegliata in preda ad un'ansia paralizzante, ancora intrappolata ai confini dell'ennesimo incubo. Il terrore di sparire dalla faccia della terra senza che ci fosse anche un solo segno tangibile a ricordare la sua presenza, il suo passaggio, le aveva messo il panico addosso. L'idea di poter abbandonare il mondo lasciando a chi l'aveva conosciuta il sospetto che non fosse mai realmente esistita, perché di prove concrete non ce n'erano, le aveva pietrificato il respiro in gola.

Al fatto che la sua identità non fosse per lei che un'illusione, c'era abituata. Ma per gli altri? La Stanza Rossa aveva obliterato la sua individualità per trasformarla in un'arma a loro disposizione: a questo si era rassegnata. Ma non si era mai soffermata a pensare che poteva essere così anche per gli altri, che alla lunga nessuno sarebbe più stato in grado di vederla. Si poteva corrompersi, compromettersi, perdersi e confondersi fino a sbiadire del tutto? Fino a diventare solo il ricordo impalpabile di una persona che c'era e allo stesso tempo non c'era più? Un'ombra. Un fantasma. Il simbolo della morte.

La furia che aveva provato quando si era sentita ridurre ad uno stereotipo, ad un'idea preconfezionata di donna, di persona, se la sentiva ancora nelle ossa. Aveva sperato irrazionalmente che Clint fosse diverso e invece, in quel momento, si era dovuta ricredere. Anche lui l'aveva vista come un concetto in relazione a se stesso e nient'altro. Poi però le cose erano cambiate e sfociate in territori per Natasha del tutto sconosciuti. A quel punto tutte le nozioni che credeva di avere sul mondo e sugli uomini le erano risultato completamente inutili: aveva dovuto ricominciare da zero.

“Volevo che gli dessi questo,” si costrinse a dire, alludendo al libro di racconti stretto tra le dita.

“Perché?” Carpì immediatamente il sospetto e la preoccupazione nella sua voce. “Che hai intenzione di fare?”

“Perché voglio che l'abbia,” ribadì. Rivelargli che avrebbe voluto lasciargli un pezzo di sé, in qualche modo, le suonava stupido.

“Natasha... non starai pensando di...”

“Devo farlo, Selvig. Per l'ultima volta.”

“Dannata, ragazzina!” Sbottò il sacerdote, sobbalzando sul suo seggio come punto da un forcone appuntito. “E' una follia! Non puoi rientrare, ti...”

“Hanno già cercato di uccidermi,” decretò seccamente, forse nell'inutile tentativo di rassicurarlo con un'informazione tanto grave e macabra.

“C-Che cosa? Che-”

“Devo capire.”

“Capire c-cosa? Come ci si sente a morire? Cosa si prova ad e-essere torturati da dei m-maledetti psicopatici?”

“Sono una di loro, Selvig.”

“No, no che non lo sei. Mi hai salvato, ricordi? Mi hai risparmiato la vita.” Dopo tanti anni non era ancora riuscita a capire perché Selvig si ostinasse tanto.

“E poi ho ucciso e torturato e mentito e ingannato di nuovo.”

“L-Loro ti hanno obbligata.”

“Forse. Non lo so.” Troncò di netto la conversazione: non era lì per farsi convincere a non tornare alle montagne. “Glielo farai avere?” Insisté, mostrandogli il libro.

“No, glielo darai tu stessa. Non sono un messaggero dei morti, perdio,” imprecò, “sono solo un fottuto prete.”

“Non credo che dovresti invocare il nome di dio invano, allora,” finse di rimproverarlo anche se il suo rifiuto non le faceva piacere.

“Torna indietro sana e salva e portagli quel maledetto libro personalmente.”

Lo guardò mentre faceva saettare lo sguardo tutt'intorno; dei passi in avvicinamento l'avevano distratto.

“Dieci Ave Marie e venti Pater Nostri,” si affrettò a snocciolare. “Io ti assolvo dai tuoi peccati.” La stava mandando via, c'erano altri fedeli nella chiesetta e non aveva intenzione di lasciarsi cogliere in conversazioni compromettenti con un'assassina.

“Me la cavo con così poco?”

“Sei tu l'unica che ti può assolvere dai tuoi peccati,” stabilì, più sferzante e serio di quanto non l'avesse mai udito. I suoi occhi celesti, chiarissimi, sembrarono perforare i suoi per ficcarle in testa quel concetto impossibile. “Perdonati e va' avanti.”

“Non posso.”

“Allora non perdonarti,” blaterò spazientito, “ma va' avanti. Ti senti in colpa? Fa' del bene, salva la gente che non può salvarsi da sola, fallo anche quando sembra un'impresa da folli. Scegli di migliorare il mondo, scegli di essere l'eroe di un maledetto romanzo. Scegli di non essere più un prodotto di quei fottuti tiranni, Natasha.”

Non aspettò di ricevere una risposta prima di uscire dal confessionale.

“Oooh, signora Robbins, che piacere rivedervi.” La sua voce, di nuovo gentile e affabile, le arrivava ovattata adesso. Aveva ricominciato a mentire.

Natasha, invece, nel buio soffocante di quella scatola di legno, tremava.

 

***

 

La luce pallida della luna riverberava e si moltiplicava sul manto bianco che avvolgeva il paesaggio, conferendogli l'aspetto di un mondo impossibile e solo immaginato. Il silenzio innaturale rafforzava quell'impressione, accrescendo il senso di totale estraneità che la circondava. La neve era una coltre diafana che strangolava ogni singolo rumore, che disperdeva asetticamente i raggi lunari.

Per lei era quello l'inferno. Gelido, immobile, silenzioso e crudele.

Nessuno gridava nel monastero incastonato tra le montagne, nessuno faceva rumore, nessuno osava interrompere il continuo, infinito fluire di vite mutilate, le uniche possibili in un ambiente tanto ostile.

Ed era all'ostilità che Natasha, come i suoi compagni e le sue compagne, era stata addestrata. Alla violenza, al dolore, alla resistenza e alla persecuzione. All'abiezione e all'ignomia. Ad un'esistenza in cui la pietà non trovava posto, né per se stessa né per le altre.

Non aveva mai capito se l'edificio stritolato tra le rocce fosse stato costruito col preciso intento di ospitare il sistematico smantellamento di tante piccole vite da cui poter forgiare armi precise, infallibili, letali; o se fosse solo il frutto di menti particolarmente solitarie, di uomini e donne che avevano cercato la solitudine per sentirsi più vicini al cielo o qualsiasi fosse la divinità che invocavano, inginocchiati ai piedi del letto ogni notte.

Quand'era più piccola era solita fantasticare sul gigante che aveva abbandonato il mondo degli uomini, per lui troppo ostile, per rifugiarsi sulla montagna. Si era immaginata tutto di quella poderosa creatura dall'aspetto imponente e spaventoso, ma con un animo placido e innocuo. Quand'era morto gli uomini si erano pentiti della cattiveria con cui l'avevano respinto e avevano deciso di costruire un'enorme tomba in suo onore, nel ventre freddo della montagna.

Erano solo le stupide macchinazioni oniriche di una bambina tutt'altro che impressionabile, eppure l'idea di essere stata partorita da quel luogo invalicabile e gelido le risuonava vera fin nelle ossa. In fin dei conti nessuno dei bambini che scendevano fino al monastero avevano madri, padri, fratelli, sorelle, parenti o persone che si prendessero cura di loro. Al massimo restavano i fantasmi di una vita dimenticata e ormai inservibile, che avrebbe perso di colore e consistenza fino a sparire del tutto.

Avanzava attraverso l'infida coperta candida, Natasha, avvolta in un mantello di pelo bianchissimo che le impacciava i movimenti e le permetteva di nascondersi in tutto quel fulgore abbacinante, alieno. Avanzava e cancellava le proprie tracce come le avevano insegnato alla Stanza Rossa, rendeva i propri passi impalpabili e leggeri. Inesistenti.

Conosceva almeno tre passaggi segreti che le avrebbero concesso di accedere all'interno dell'impervio monastero. Scelse il più arduo di tutti, quello più lontano dal punto in cui si trovava, perché voleva mettersi alla prova, voleva convincere se stessa di poter tutto, di poterli ingannare con strumenti che loro stessi le avevano fornito.

Il vento gelido e tagliente le sferzava il viso e i capelli coperti dal pesante cappuccio: la chioma rossa sarebbe stata troppo visibile in quel deserto invernale; un fiore sbocciato nell'assenza di vita più totale e completa o sangue che stillava da una ferita inflitta al dorso della montagna.

Le guance bruciavano per il bacio violento del freddo, le labbra erano secche e minacciavano di spaccarsi, le mani guantate e comunque intorpidite, i piedi come pezzi di ghiaccio che si ostinava a mettere l'uno dietro l'altro.

Provò piacere alla difficoltà, provò piacere nel sentirsi parte integrante della montagna nemica, fredda e mortale proprio come quella. Provò piacere e si maledì con tutta la forza che aveva in corpo perché non voleva essere un'idea, non voleva sentirsi come un'idea.

Voleva essere solo Natasha e il pensiero di non sapere come fare ad esserlo le raggelava l'angoscia in petto.

 

*

 

Il silenzio, all'interno, era ancora più completo. Adesso che era passato così tanto tempo dall'ultima volta che era stata al monastero, la sensazione di aver appena messo piede in un enorme sarcofago fu ancora più vivida e reale.

Si fermò davanti alla parete delle croci che aveva il fiato grosso e i piedi in fiamme. Il buio all'interno dell'edificio era totale e soffocante come il silenzio. Ma conosceva quel posto a memoria, sapeva come non fare rumore, come evitare i punti sorvegliati: la sua mappa le era stata inscritta negli occhi tanti anni prima. Avrebbe potuto ridisegnarla a memoria in qualsiasi momento, accurata in ogni dettaglio.

Quindi non si stupì quando, allungando le mani nude, si ritrovò a premere i palmi sulla pietra fredda e inerte, sui solchi regolari e costanti che la segnavano in lungo e in largo, seguendo ordini precisi e lineari di croci. Ogni segno rappresentava un fallimento: questo le avevano insegnato. Tutte le volte che qualcuno non ce la faceva – uomini, donne, ragazzini o bambini che fossero – diventava una croce su quel muro. Di loro non rimaneva nient'altro che quelle. Non importava se fossero morti in missione, di stenti, stramazzati al suolo durante un allenamento particolarmente intenso, per mano propria o altrui. Morire significava fallire e i fallimenti andavano a finire su quel muro sterminato su cui mani ferme avevano disseminato centinaia di segni.

Era vietato ricordare chi era morto; neppure esisteva un concetto di morte in tal senso, sulla montagna. Era vero solo il fallimento e chi vi incappava veniva semplicemente cancellato e dimenticato come se non avesse mai calcato la terra.

Quello era l'unico ultimo riposo loro concesso, quello era il loro cimitero, una parete di pietra liscia davanti alla quale non ci si poteva fermare in raccoglimento o per pregare. Solo la contemplazione del fallimento era possibile e Natasha provò vergogna nel constatare che anche adesso che le cose erano cambiate, anche adesso che si considerava ormai sul punto di abbandonare quel luogo infernale per sempre – anche adesso nel trovarsi al cospetto di tutte quelle croci, la prima reazione era fatta di disgusto e superbia, dell'altezzosa convinzione che non sarebbe mai finita là sopra.

Perché era troppo brava, troppo abile, troppo rapida. Era lei la gemma più rara e preziosa ad essere stata rinvenuta nei fianchi sterili della montagna.

Forse era per quello che decidere di andarsene per sempre era stato così difficile. Perché la consapevolezza di essere la migliore l'aveva ancorata a quel luogo, a quella gente, a quegli ideali, come se il virtuosismo fosse la prova inconfutabile che il suo destino era quello, che era nata per quello. E tuttavia aveva capito che, per quello, non voleva morire.

Mentre seguiva le file di croci con le mani e scendeva sempre più in basso verso quelle più recenti, Natasha trattenne il fiato. Tentò di figurarsi le facce di chi era stato ridotto ad uno sfregio nella pietra, di richiamare alla memoria le compagne che lei stessa aveva visto morire con un misto di superiorità, turbamento e disprezzo per la loro plateale debolezza. Non le tornarono in mente che volti vaghi e cancellati dal tempo e dalla sua stessa volontà e provò l'irrefrenabile bisogno di vendicarle tutte, una per una, di invocare il loro perdono, di chiedere scusa per la propria complicità in quello sterminio indiscriminato.

Le croci si fecero sempre meno levigate, finché la pietra acuminata non le aprì un taglio sul polpastrello del pollice sinistro. Si soffermò sul segno più nuovo di tutti; doveva risalire al giorno prima, un paio al massimo. Tornò un po' indietro e per un desiderio ridicolo e insensato si provò a individuare la croce che rappresentava Marina, la compagna con cui aveva inutilmente tentato di condividere la fuga, con cui non era riuscita a spartire la morte.

Ne scelse una a caso, quella che le aveva stretto una morsa fredda allo stomaco quando l'aveva toccata. Ci spinse il dito ferito fino a sentire il sangue che sgorgava e colmava il piccolo solco, finché il fastidio non divenne vero e proprio dolore.

Restò immobile, ad occhi chiusi, schiacciata contro il muro per un lunghissimo istante. Forse si aspettava di sentire le voci di tutti quei morti, ma sapeva che era impossibile. Promise a se stessa che sarebbe tornata per distruggere tutto, per cancellare il monastero dalla montagna, per farlo sprofondare nelle viscere di quella terra ostile che non li aveva mai voluti.

Si scostò e prese a rovistare nella sua bisaccia finché non trovò una scatola quadrata di legno. L'appoggiò a terra e l'aprì, tastando delicatamente il globo che vi era racchiuso all'interno. Era fatto di ferro e aveva all'estremità una miccia lunga almeno quattro piedi... non avrebbe avuto molto tempo per andarsene dopo averla innescata. O almeno così aveva spiegato il principe Anthony quando l'aveva sentito parlare con Fury nei suoi laboratori a battaglia conclusa.

A detta del suo inventore si trattava di un prototipo molto più stabile di quello utilizzato durante lo scontro, e doveva aver avuto ragione perché il viaggio non ne aveva mutato lo stato. Gliel'aveva sottratta di nascosto neanche lei sapeva bene perché e aveva sfidato il destino portandosela dietro col pericolo che esplodesse da un momento all'altro. Ma non l'aveva fatto e quella semplice verità le infondeva sicurezza e coraggio, come se il mondo le stesse dimostrando il proprio accordo, il proprio sostegno.

La piazzò proprio in prossimità della croce che rappresentava Marina – non importava che fosse accurata o meno – e cercò l'acciarino nella borsa. Il fuoco sembrò bruciarle gli occhi per il troppo contrasto con l'oscurità circostante. L'avvicinò alla miccia e aspettò che la lambisse.

Si rimise dritta e la osservò per qualche istante, assicurandosi che non si spengesse sul più bello. Il cuore aveva preso a batterle più rapido e insistente nel petto, incantandola in fissa della fiammella che rosicchiava il cordoncino, un palmo alla volta.

Si trattenne troppo a lungo, probabilmente per lo stesso motivo per cui aveva giocato d'azzardo con la propria vita portando la bomba con sé. Voleva dare al fato ogni possibilità per toglierla di mezzo, per punirla per quello che aveva fatto, per farle capire che vivere sarebbe stata una colpa imperdonabile.

Scivolò nel buio – adesso più intenso, fitto e denso di prima – senza fretta, muovendosi nuovamente verso il passaggio segreto che l'aveva portata fin lì. Dei passi felpati, distanti, sembrarono rimbombare per i lunghi, stretti corridoi.

Quando l'esplosione scosse la montagna era ormai impegnata nella sua discesa lungo il fianco innevato.

Sentì qualcosa spezzarsi all'altezza del petto mentre tentava di figurarsi il muro che si infrangeva in mille frammenti, spargendo le croci della vergogna sul pavimento, travolgendo gli agenti accorsi sul posto troppo tardi per potervi porre rimedio.

Nessuno di loro aveva fallito. Erano solo stati inghiottiti e resi parte di un male troppo più grande di loro.

 

*

 

Il fuoco ardeva nel camino e illuminava la piccola camera che Natasha aveva affittato per la notte. Il mantello bianco come la neve era abbandonato sul letto scheletrico, gli stivali erano ad asciugarsi lì accanto a lei, e la lama del suo coltello migliore, appoggiata sulla fiamma, si faceva man mano più incandescente.

Si rimise in piedi e si spogliò della casacca, del gilet, della camicia. Prese tempo e si concesse un lungo sorso del liquore trasparente che aveva comprato in un paese vicino quella mattina stessa, di ritorno dalla montagna, con la ridicola speranza di poter placare il fastidioso rimestare allo stomaco che non l'aveva lasciata un istante.

Slacciò i pantaloni e li abbassò quel tanto che le fu sufficiente per esporre il marchio a forma di clessidra dietro il fianco. Ne disegnò il contorno con le dita, sentendo la pelle liscia, coi suoi rilievi familiari e provò un odio che avrebbe rischiato di accecarla se non avesse trovato il modo di incanalarlo in qualcos'altro.

Si chinò a prendere il pugnale bollente e il pezzo di legno ricoperto di stoffa che aveva preparato non appena aveva messo piede nella stanza. Si posizionò davanti allo specchio sistemato tra il vecchio scrittoio a cui mancava una gamba – tenuto in equilibrio perché incastrato nell'angolo – e la parete. Il riflesso del marchio ne risultò perfettamente incorniciato.

Infilò il pezzo di legno rivestito tra i denti e strinse forte mentre avvicina lama calda alla pelle tenera e scoperta del fianco. Una stilettata dolorosa la riempì quasi timidamente quando incise la carne, moltiplicandosi in infinite onde concentriche che andarono aumentando di intensità man mano che procedeva.

Si impedì di farlo troppo velocemente perché voleva un lavoro fatto per bene, preciso: non aveva intenzione di lasciare neanche una traccia del marchio che le avevano impresso a fuoco quando aveva superato la prova d'iniziazione.

Il legno scricchiolò nella morsa dei denti mentre il coltello tagliava e si faceva strada nella sua pelle; le sfuggì un gemito soffocato e poi un altro e un altro ancora. Il dolore si fece sempre più forte, sempre più accecante, finché non le parve di essere sul punto di svenire, di vedere tutto nero e di perdere il controllo di se stessa.

Ma il solco circolare cui aveva dato inizio raggiunse inaspettatamente il punto d'origine. Il cerchio di carne marchiata cadde a terra con un rumore grottesco, subito accompagnato dal rettangolo di legno che aveva lasciato andare senza neanche accorgersene.

Permise che il dolore la riempisse, che la liberasse una volta per tutte dalla schiavitù fisica e mentale che il marchio simboleggiava, come se la sofferenza potesse purificarla... ma sapeva che era solo un'illusione, che dei propri crimini e dei propri peccati non si sarebbe mai sbarazzata del tutto.

Il cerchio rosso sanguinante che le si apriva su un fianco, però, racchiuso nella cornice sgangherata dello specchietto, rappresentava un nuovo inizio. Portava in sé la possibilità di ricominciare secondo regole inedite, seguendo un codice che lei stessa si sarebbe data.

Selvig aveva ragione. Poteva fare del bene e anche se quel bene non avrebbe cancellato il male che lo aveva preceduto, non ne avrebbe neanche aggravato il carico.

Poteva essere un'altra persona; anzi – realizzò mentre il respiro le usciva disarticolato e affannato dalle labbra – poteva essere se stessa.

Si sentì sollevata.

Si sentì libera.






Note: il cameo di Thor è infilato un po' così, in extremis, ma mi dispiaceva averli messi proprio tutti tranne il nostro difensore asgardiano preferito :P
Per il resto, questo capitolo mi serviva per portare a compimento la storia di Natasha, il suo cambiamento, le sue decisioni, ecc. Per capire cos'avrà deciso di fare della sua vita, toccherà aspettare l'ultimissimo capitolo. Il prossimo invece avrà una funzione simile a questo, ma per Clint.
Finisco di blaterare e ringrazio tutti! Chi legge, commenta, e la sociabeta Eli :)
Al prossimo capitolo!
(◡‿◡✿)
  
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