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Autore: Mead    12/04/2016    0 recensioni
Non pensavo davvero di riuscire a cacciarmi così tanto nei guai, sì insomma non che ci si sia mai potuti riferire a me come a uno stinco di santo e penso che chi mi conosce direbbe che una fine del genere poteva aspettarsela solo da me in tutta la sua “cerchia sociale”.[...]Non so spiegarti quale sia il mio problema, qualunque esso sia so solo che è stato mio fedele compagno di viaggio fino a qui, dove sto per morire senza che nessuno conosca la mia storia
né il mio nome.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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1. 

Ero ricco sapete?  Nato in una di quelle famiglie benestanti che litigano appena vieni al mondo per decidere se diventerai un medico o un avvocato. Si aspettano che tu sia all’altezza delle aspettative fin da quando cominci a gattonare e che, come tutti gli altri prima di te, tu segua per filo e per segno il disegno di vita che hanno tracciato per te.

Se pensi che lo sfondo è fatto di scalinate di marmo, campi da tennis e camicie di cashmere pensi anche che non sia così tanto male quel genere di vita. Ma per quanto mi riguarda avevo capito di essere allergico a quell’ambiente fin troppo presto, mi veniva la nausea a vedere gli amici dei miei genitori o ad incontrare la gente del ‘circolo del golf’. Mi sembrava che fosse tutta una grossa e grassa recita, in tutti quegli anni non ero riuscito a vedere un solo sorriso sincero da parte di quelle persone, nemmeno una frase detta con competa spontaneità. Tutto, dalla macchina, ai fiori del vialetto, dalla camicia, alla stretta di mano era stato costruito ad arte per apparire e conformarsi, tutto era un modo per definire il proprio ruolo nella società.

Così cominciai a disprezzare il lusso in tutte le sue sfaccettature, scostandomi dal credo della mia famiglia e dando da mangiare all’ira di mio padre nei miei confronti. Avevo capito che i miei genitori non erano affatto diversi da quelle persone e questo aveva fatto in modo che li considerassi nella stessa ottica.

Non vedo la mia famiglia da tanti anni e ad essere sincero non ho mai avuto voglia di rivederli.

Me ne andai in un pomeriggio di giugno. Avevo finito l’ennesimo anno scolastico nella prestigiosa scuola privata che mia madre aveva scelto per me e sarei dovuto salire sulla macchina che mi stava aspettando dall’altro lato della strada con tanto di autista col cappellino, invece per la prima volta nella mia vita feci io una scelta per me.

Riuscii a confondermi in mezzo alla massa di giacche, cravatte e valigie che stava scendendo le gradinate dell’ingresso girando a sinistra e continuando a camminare. Temevo che l’autista riuscisse a riconoscermi, ma visto che girare la testa indietro per controllare nella mia mente era uguale                      ad un ‘ammissione di colpevolezza’ continuai dritto per la mia strada. Ero euforico.

Mi voltai solamente quando, parecchio tempo dopo, raggiunsi la stazione dei taxi. Salii sul primo che riuscii a raggiungere e chiesi un passaggio fino alla stazione. Quando scesi lasciai la cravatta sul sedile, non avrei mai più indossata una.                                                                                                                                                         

Non avevo idee sulla mia destinazione, l’unica cosa che pensavo era ‘il più lontano possibile’, così scelsi il treno che mi avrebbe portato nel posto più lontano e più diverso da dove ero cresciuto. Lungo il viaggio pensai alle reazioni che avrebbero scosso i miei genitori una volta capito che me ne ero andato. Ovviamente sarebbero stati sgomenti, ma non per la perdita del loro unico figlio maschio certo che no, lo sarebbero stati per ciò che i loro cari amici avrebbero potuto pensare. Si sarebbero susseguiti pettegolezzi di ogni genere e colore e di certo non sarebbe stato semplice ignorarli. Non so dire perché ma a quel pensiero fui invaso da uno strano senso di orgoglio verso me stesso.

Quando scesi mi ritrovai in una piccola cittadina dove, ne ero certo, nessuno avrebbe riconosciuto il mio nome.

Era un agglomerato di casupole circondato da distese di campi coltivati, sembrava di essersi svegliati in un’altra epoca, l’unico accenno di modernità era dato dalla stazione e dal suo unico binario. Alloggiai in una delle due stanze sopra l’unica tavola calda del paese per un paio di giorni, prima di scoprire che in una delle fattorie vicine stavano cercando un aiutante. Mi presentai quasi all’alba per dare l’impressione giusta, da quelle parti la vita cominciava appena cantava il gallo. Il fattore era un uomo corpulento, con una barba incolta che strideva in maniera grottesca con la sua voce sottile. Trattenni a stento una risata quando cominciò a parlarmi. Mi insegnò tutto quello che c’era da sapere, la mia voglia di fare per lui era il miglior curriculum. Diceva di non fidarsi di chi diceva di ‘saper fare’, che chi si presentava dicendo di saper fare tutto in realtà non sapeva far niente e di conseguenza preferiva quelli che ammettevano subito di non aver mai fatto quel lavoro.

Dovevo alzarmi davvero molto presto tutte le mattine e lavorare tutto il giorno per una paga ridicola ma non mi lamentavo, mi sentivo soddisfatto in certo senso. Vivevo nella baracca vicino al fienile insieme ad altri tre ‘aiutanti’ come me, ognuno con una storia diversa. Un ex-comandante dell’esercito che non riusciva a tornare alla vita prima della guerra, un pescatore a cui era affondata la nave e un ragazzo del posto, rassegnato al fatto che quello sarebbe stato il suo unico modo per vivere. Insomma sembrava il luogo dove vanno tutti quelli che hanno perso il brivido della vita, una discarica per vivi. Ma dal mio punto di vista quello era il periodo della mia rinascita, dove finalmente tutto quello che vedevo era spontaneo, triste o felice che fosse. Nessuno sorrideva perché le leggi sociali glielo imponevano, se qualcuno rideva di gusto nessuno lo guardava male e persino le sveglie che ci venivano imposte dal comandante un’ora prima del dovuto, accompagnate dallo spettacolo di quel sorprendente uomo di mezza età che giurava fedeltà alla patria in mutande, in piedi sopra la sua branda, erano dettate dalla spontaneità della sua follia. Potevo essere chi ero, senza sé e senza ma.

A volte pensavo alla mia famiglia e sorridevo pensando alla faccia che avrebbe fatto mio padre se avesse saputo che suo figlio in quel momento stava spalando letame nelle stalle di una fattoria di terz’ordine.

Inoltre fu lì che incontrai Maida. La prima volta che la vidi stava passeggiando in mezzo al campo del grano, pensando a chissà cosa. Mi faceva strano pensare che fosse la figlia del fattore, la più giovane per esattezza, non gli somigliava per niente. Era come dire che da un cavolfiore era nata una primula.

La moglie del fattore era morta quando Maida aveva nove anni, di una strana influenza che i medici non erano riusciti a curare, lasciando quell’uomo a dover badare a tre figlie femmine. Da quello che ho capito dai brevi discorsi sull’argomento, il fattore avrebbe preferito avere tre figli maschi per tutta una serie di questioni relative al lavoro, ma non lo ammetteva facilmente. In fondo voleva bene alle sue figlie e dopo la morte della moglie erano l’unica famiglia che gli era rimasta.

Sapete bene che non ho mai avuto un grande attaccamento alla famiglia, insomma eravamo ricchi e mia madre non doveva lavorare ma non si è mai occupata di me da bambino. Erano le tate che a turno mi facevano giocare o mi spingevano sull’altalena mentre lei prendeva il sole in giardino o chiacchierava con le amiche del club. Diceva che prendersi cura dei figli personalmente era usanza dei ceti inferiori. Posso affermare quindi che la mia fuga anche se da un lato poteva sembrare incomprensibile, era fondata su una base che nessuno avrebbe potuto criticare.

Maida aveva il mio stesso istinto di fuga, ma io non riuscivo a capirne i motivi. In fondo nel suo piccolo ritaglio di mondo era stata amata fin da bambina da suo padre e dalle sue sorelle. Forse le sue ragioni erano l’opposto delle mie. Mentre io cercavo un mondo senza artifici o sfarzo senza badare alle dimensioni che potesse avere, lei si sentiva soffocare dalle strade che aveva percorso per tutta la vita. Cercava orizzonti diversi da quello che vedeva dalla finestra della sua stanza. Forse è stato perché la vedevo simile a me, forse è stato perché la vedevo diversa da me, fatto sta che quando decise di fuggire

 

 io andai con lei.

   
 
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