Film > The Avengers
Segui la storia  |       
Autore: Sandra Prensky    12/04/2016    0 recensioni
ATTENZIONE: Non è una traduzione del libro "Black Widow: Forever Red". Avendolo letto, mi sembrava che ci fosse troppo poca attenzione su Natasha, e allora ho deciso di riscriverlo con tutta un'altra trama.
Natalia Alianovna Romanova, Natasha Romanoff, Vedova Nera. Molti sono i nomi con cui è conosciuta, molte sono le storie che girano su di lei. La verità, però, è una questione di circostanze. Solo Natasha sa cosa sia successo veramente nel suo passato ed è ciò da cui sta cercando di scappare da anni. Quando sembra finalmente essersi lasciata alle spalle tutto, ecco che scopre che la Stanza Rossa, il luogo dove l'hanno trasformata in una vera e propria macchina da guerra, esiste ancora. Solo lei, l'unica Vedova Nera traditrice rimasta in vita, può impedire che gli abomini che ha visto da bambina accadano di nuovo. Per farlo, però, dovrà immergersi nuovamente nel passato che ha tanto faticato a tenere a fondo, e sarà ancora più doloroso di una volta: tutta la vita che si è costruita allo SHIELD, tutte le persone a cui tiene sono bersagli. Natasha si ritroverà di nuovo a dover salvare il mondo, affrontando vecchi e nuovi nemici e soprattutto se stessa.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

III.

 

We are made wise

not by the recollection of our past,

but by the responsibility

for our future.

(George Bernard Shaw)

 

 

Nizhniy Novgorod, Russia

56°19’37”N 44°00’27”E

Saturday, 5th December 2015

3.40pm

 

 

Nevicava. Le strade di Nizhniy Novgorod erano deserte, lasciando così ai fiocchi di neve tutto lo spazio per esibirsi nella loro elegante danza, piroettando nell’aria e andando dolcemente a posarsi sul suolo, dando forma a un soffice mando bianco. L’unico elemento in movimento a parte la neve, una figura minuta che si aggirava per le vie a passo sostenuto. Indossava un redingote nero che faceva da contrasto con il bianco di cui tutta la città era adornata, una macchia d’inchiostro caduta per sbaglio su un foglio ancora intonso. Sul capo, come unico riparo dalla neve, portava un basco nero dal quale spuntavano dei riccioli rosso vermiglio. Un occhio particolarmente allenato, tuttavia, avrebbe potuto scorgere anche una calibro 35 spuntare da sotto il redingote. Natasha si strinse nel cappotto e accelerò. Doveva trovarsi in Piazza Minin e Pozharsky entro cinque minuti. Mentre camminava, sentiva il quasi impercettibile rumore della neve calpestata sotto i suoi stivali. Sebbene rappresentasse sempre un enorme disagio per una spia il cui lavoro era passare inosservata senza lasciare tracce, aveva sempre amato la neve. Il suo maestoso discendere, l’apparentemente inattaccabile purezza, la sua capacità di uniformare il paesaggio, il silenzioso turbinare dei fiocchi le avevano sempre dato un senso di tranquillità assoluto. Sotto sotto, sperava che avrebbe continuato a nevicare anche quando lei sarebbe tornata all’hotel, se così lo si poteva definire, in modo da godersi la vista dalla finestra, magari bevendo un tè e leggendo un libro. Ma chi voglio prendere in giro? Pensò. Non ho tempo di rilassarmi così da qualche decennio, ormai. Sospirò girò a sinistra, imboccando una strada piuttosto larga. Era arrivata: scorgeva, un centinaio di metri più in là, il tetto verde della famosa costruzione di Piazza Minin e Pozharsky. Quest’ultima era totalmente vuota, fatta eccezione per un uomo, seduto su una panchina nonostante la neve continuasse a fioccargli intorno. Doveva essere il suo contatto. A passo sostenuto, Natasha si avvicinò a lui. A prima vista sembrava un senzatetto, e per quanto ne sapeva lei avrebbe anche potuto esserlo. Portava un giubbotto nero piuttosto pesante, pieno di rattoppi, che emanava un forte odore di alcool. I pantaloni erano marroni, anch’essi pieni di toppe, e le scarpe erano logore e con la suola sul punto di staccarsi. Le mani erano protette da guanti senza le dita, la testa da un vecchio cappello nero. Aveva un accenno di barba, probabilmente non si radeva da diversi giorni, gli zigomi alti e gli occhi grigi. Non doveva avere più di cinquant’anni, ma il suo sguardo e i suoi movimenti sembravano quelli di un ottantenne.

-Hai portato ciò che ti avevo chiesto? - Disse l’uomo senza troppi convenevoli, in un inglese stiracchiato e con la voce impastata. Lei tirò fuori da sotto il cappotto una bottiglia di liquore piuttosto costosa e ormai reperibile solo sul mercato nero, in quanto fuori commercio, e gliela tese. Lui la afferrò avidamente.

-Бог благословит вас, девушка. (Dio ti benedica, ragazza.)- Mormorò, prima di stappare la bottiglia e prenderne un generoso sorso. Lei rimase pazientemente ad aspettare, mentre lui si passava un guanto sulla bocca in un tentativo poco elegante di asciugarsi le labbra.

-E perché una ragazza come te sarebbe in cerca di informazioni su una cosa terribile come la Stanza Rossa?- Biascicò lui dopo un po’, rompendo il silenzio.

-Limitati a dirmi ciò che voglio sapere. Il perché lo voglia sapere non è affar tuo.- Rispose lei, con un tono che rasentava l’impazienza.

-Sei una di loro, vero?- Disse lui, prendendo un altro sorso di liquore. -Una Vedova Nera.- Aggiunse, come se servisse specificarlo. Non sembrava nemmeno una domanda, era un’affermazione.

-Abbiamo tutti qualcosa nel passato su cui vorremmo bere per dimenticare.- Ribattè Natasha, accennando alla bottiglia.

-Mh.- Grugnì l’uomo in assenso. Fece per prendere un altro sorso, ma Natasha gli bloccò il polso con un gesto repentino e gli rivolse uno sguardo gelido. L’uomo sospirò.

-Sei sicura di volerti immegere in acque tanto pericolose, Vedova? Ne sei scappata viva una volta, non sfiderei la fortuna una seconda.- Sembrava quasi spiacente per lei, per qualche ragione pareva volesse proteggerla. Qualunque cosa avesse visto, chiunque egli fosse, era di sicuro incappato in situazioni che avrebbe volentieri dimenticato. La Stanza Rossa non perdonava. Natasha annuì.

-Devo fermarli. Qualunque sia il prezzo.- Rispose convinta. L’uomo annuì nuovamente.

-D’accordo. Siediti, prego.- Indicò un posto sulla panchina di fianco a lui. Lei scosse la testa.

-Preferisco rimanere in piedi, grazie

-Come ti pare.- Si schiarì la voce. -Qualche anno fa, mi ritrovai a girare in una città per i dintorni di Mosca, in cerca di un lavoro che mi permettesse di mettere qualcosa sotto i denti.- S’interruppe, lo sguardo perso nel nulla. Si scosse dopo qualche secondo.

-Mi ero perso per la città, avevo avuto una giornata inconcludente ed ero ubriaco fradicio. Avevo bisogno di un posto dove passare la notte, non sapevo dove andare. Trovai una villa in rovina e, pensando fosse abbandonata, vi entrai.

-Ma non era abbandonata.- Concluse lei, e l’uomo asserì con un sorriso malinconico.

-Mi trascinai su per le scale, in cerca di un letto. Trovai una bambina, accucciata nell’angolo, che piangeva, e mi ci avvicinai, per aiutarla. Tempo di abbassarmi alla sua altezza e lei aveva già tirato fuori un coltello. Anche se ero ubriaco, riuscii in qualche modo a scansarmi. Mi colpì lo stesso, ma solo di striscio.- Abbassò il colletto del cappotto, mostrando una cicatrice all’altezza della clavicola.

-Facendo pressione sulla ferita, ho tentato di scappare, ma quella bambina non era sola. Altre ragazzine, circa della sua età, sono uscite da passaggi segreti dietro ai muri. In pochi secondi ero circondato. Erano tutte armate di coltelli, e pronte a saltarmi addosso. È stato a quel punto che mi sono ricordato di avere una pistola e... - Si bloccò, abbassando la testa.

-Quante ne hai uccise?- Mormorò lei. Sapeva che lui non aveva scelta, ma le ragazzine che aveva ucciso erano come lei, una volta. Erano piccole, giovani e soprattutto non era colpa loro se si trovavano lì. Vittime innocenti.

-Non lo so, non sono rimasto a controllare chi fosse solo ferita. Almeno cinque.- Si poteva leggere il rimorso di lui in ogni singola sillaba.

-Come fai a essere sicuro che si trattasse della Stanza Rossa?- Chiese lei, anche se aveva ben pochi dubbi che si trattasse di un’altra organizzazione che rapiva bambine per farne macchine da guerra.

-Devi sapere che prima di ridurmi... Così, - Indicò i propri vestiti- ero un poliziotto, parte di una pattuglia assegnata alla periferia di Mosca. Anche se ero stato licenziato, all’epoca avevo ancora abbastanza contatti per introdurmi negli archivi o anche solo ricevere informazioni. Ho eseguito diversi controlli incrociati, letto dozzine di file e tutto ciò che ho visto coincide con le poche informazioni che abbiamo sulla Stanza Rossa. Fidati, se c’è uno spiraglio di dubbio, è molto ridotto.- Detto questo, prese finalmente un altro sorso di liquore, producendo un rumore sgradevole. Natasha si guardò intorno, pensierosa. Aveva la strana sensazione di essere osservata. Era una percezione piuttosto frequente in lei, Clint la prendeva spesso in giro chiamandola paranoica, ma il suo istinto si sbagliava ben poche volte. Ad ogni modo, scosse la testa e tornò a rivolgere la sua attenzione sull’uomo, che a quel punto aveva già raggiunto la metà della bottiglia.

-Ho bisogno di andare lì.- Sentenziò. -Mi servono le coordinate, un indirizzo.-

Lui alzò lo sguardo e sospirò profondamente. Fece per aprire la bocca, quando accadde. Fu tutto piuttosto veloce, entrambi se ne resero a mala pena conto. Uno sparo, proveniente da una postazione alta alle spalle di Natasha. I suoi riflessi agirono più veloci di lei e le ordinarono di buttarsi a terra, evitando così il proiettile. L’uomo, il suo unico informatore, non fu altrettanto fortunato. La pallottola colpì la bottiglia di liquore che lui ancora teneva in mano, e il tempo sembrò rallentare in quell’istante. La bottiglia esplose in mille frantumi di vetro, che si sparsero tutto intorno. Natasha si coprì gli occhi per evitare le schegge e quando lì riaprì l’uomo giaceva a terra, a poca distanza da lei, rantolante. Lei si fiondò con un balzo felino verso di lui, controllando con la coda dell’occhio che non arrivassero altri spari. Niente, a giudicare dall’immobilità della scena poteva anche non essere successo nulla. In men che non si dica, si tolse il redingote e, aperto il giaccone dell’uomo di cui si rese conto non conoscere nemmeno il nome, iniziò a fare pressione sulla ferita. Lui era messo piuttosto male: era controllato da spasmi e convulsioni, il sangue non accennava a smettere di sgorgare copiosamente dalla ferita, per quanto lei premesse per evitarlo. Senza lasciare la presa sulla ferita, allungò una mano insanguinata verso il collo dello sfortunato, per tenere sotto controllo i battiti. Fu difficile trovare il punto giusto, l’uomo non smetteva di dimenarsi sotto di lei. Finalmente lo trovò: giudicando dalle pulsazioni, non gli rimanevano che pochi secondi. Emise un rantolo più forte degli altri e sputò sangue. Gli spasimi cessarono, mentre i rantoli aumentavano. Ad un certo punto, produsse un grugnito simile a una parola. Natasha si tese verso di lui.

-Cosa?- Mormorò

-Железнодорожная... станция... Лобня... (Stazione... Treni... Lobnya...)- disse lui a fatica, la voce poco più di un sussurro, il fiato che portava l’odore acre del sangue. Tempo di finire l’ultima sillaba strascicata e la sua testa si riversò all’indietro. Sotto le dita insanguinate di Natasha, ancora adagiate sul collo dell’uomo, il silenzio più assoluto. Lasciò cadere la giacca zuppa di sangue a terra. Tremava, ma non era per il freddo. A quello era abituata. Era la rabbia che si impossessava di lei, cieca, indomabile. Che l’obiettivo fosse l’uomo per non farlo parlare, che l’obiettivo fosse lei e avesse avuto fortuna, non le importava. Non poteva avvicinarsi a nessuno senza fare del male. Dovunque andasse, morte e dolore la seguivano, per quanto potesse sforzarsi di isolarsi dal mondo, per quanto facesse del suo meglio per proteggere gli altri da se stessa. Non poteva fare altro che rimanere impotente, mentre il mondo intorno a lei si sgretolava per colpa sua. Strinse i pugni, estrasse la pistola dalla giacca abbandonata sulla neve. Aveva imparato a contenere la rabbia, lo aveva fatto per anni. Aveva imparato a tenere ogni sentimento dentro di sé, per proteggere gli altri, per eseguire gli ordini della Stanza Rossa, dello SHIELD, per le coperture, per tutto. Ora, però, era da sola, non rispondeva a nessuno. Si alzò in piedi, osservò le sue mani: il sangue dell’uomo si stava seccando. Certo, avrebbe potuto contenere la rabbia... Ma non ne aveva voglia. Si girò verso la direzione verso la quale era arrivato lo sparo, con lo sguardo deciso. Calcolò a grandi linee la traiettoria del proiettile e vide una figura smilza saltare da un balcone del primo piano e correre via. Bingo. Iniziò a inseguirla, veloce come una scheggia, incurante della neve che non cessava di fioccare, incurante del terreno scivoloso. Era stata addestrata in Russia, sapeva correre anche sul ghiaccio. La figura che stava inseguendo, invece, era indubbiamente abile, però non tanto quanto lei. Si accorse di Natasha solo quando erano a meno di venti metri di distanza. Non sparare, Romanoff. Hai già fatto spargere troppo sangue oggi, pensava. La figura girò per un vicolo. Lei la seguì. La vide poco più avanti di lei, arrampicarsi con destrezza inaudita su una scala anti incendio. Con un salto, vi si arrampicò anche lei. Mentre correva, udì la figura inveire sottovoce. Arrivò fino al terzo piano della scala, poi si fermò, probabilmente per sentire i passi della sua inseguitrice.

Non sparare. Anche se è un bersaglio facile, non sparare.

La figura si girò verso di lei. Cercò di identificarla, ma indossava un cappuccio e la neve non aiutava a vederci meglio. Di colpo, si lasciò cadere all’indietro. Natasha corse fino al punto dal quale si era lanciata. Sotto di lei, la figura era appesa a un tubo, e stava scendendo aggrappandosi all’intrico di condotti con l’agilità di un ragno.

Non sparare. Ormai aveva lasciato che la rabbia la comandasse, era difficile reprimere l’impulso di sparare alla figura. Si lasciò cadere anche lei, appendendosi alle stesse tubature e compiendo lo stesso percorso. Corse ancora dietro alla figura, che girò ancora una volta per una stradina. Mossa sbagliata: vicolo cieco.

Non sparare.

La neve scendeva tanto fitta da non permetterle di vedere niente, se non la figura che alzava un fucile, probabilmente lo stesso con cui aveva ucciso l’uomo. Sentì la rabbia montarle di nuovo dentro, e alzò la pistola a sua volta. Non sparare.

-Брось оружие (Abbassa l’arma.)- Disse Natasha, fredda, con tono deciso. La figura non mosse un muscolo.

-Я сказал, уронить оружие. (Ho detto, abbassa l’arma.)- Ripetè, impaziente. Non sparare.

Natasha sentì prima lo scatto del grilletto. I suoi muscoli si mossero prima che lei avesse il tempo di pensare, spinti dai riflessi e dalla rabbia. Evitò il proiettile. Non sparare. Alzò la pistola. Non sparare. E sparò. La figura cadde a terra, con un gemito. Natasha si avvicinò, piano, per poterla finalmente vedere. Si abbassò, e le tolse il cappuccio. La rabbia scemò, per essere sostituita da un’altra sensazione molto familiare: il rimorso. Non riusciva a distogliere lo sguardo dal corpo inerte, dalla macchia rossa che si andava espandendo sulla fronte, per arrivare fino ai lunghi capelli biondi. Gli occhi azzurri erano ancora aperti, e la guardavano con fare accusatore. Quella che giaceva davanti a lei con un fucile di precisione Dragunov stretto in mano era una ragazzina di non più di dieci anni.

Non avrei dovuto sparare.

 

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: Sandra Prensky