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Autore: Jules_Black    14/04/2016    1 recensioni
Dodici mesi per scrivere questa sorta di pagina di diario e fare a pugni con ciò che stava tentando di rovinarmi.
"Mi rivedo con le lacrime davanti al finestrone del primo piano, con la consapevolezza di essere malata e le parole incastrate in gola, perché avrei preferito scomparire piuttosto che ammettere la mia colpa.
Sarebbe bastato abbassare lo sguardo e guardarmi le gambe. Quelle fottute gambe che mi angosciavano davanti lo specchio, nemmeno fossero stati mostri a quattro teste."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il lungo Tevere dell’Acqua Acetosa
 
Ti scrivo questa lettera partendo da lontano, per dirti “grazie” per una storia che sarebbe finita nel lungo Tevere dell’Acqua Acetosa se un giorno non mi avessi fatto aprire gli occhi.
Che poi, tutto sommato, non ho aperto solo gli occhi, ma anche il cuore e tutti quei pezzi di me che avevo perso negli anni e che ho raccolto, incollato sommariamente.
Non so se sia stato più difficile fare a pugni con la parte malata di me stessa oppure con i giorni che passavano senza che io me ne accorgersi.
Combattere con un numero che scendeva, scendeva, e svegliarsi la mattina con quei due o tre pensieri fissi che mi saturavano il sangue (venoso, arterioso, poco importa… erano ovunque).
Ripetermi che stavo bene, mentire a me stessa in una maniera subdola e sconsiderata. Scegliere il modo peggiore di morire, un’auto-distruzione lenta e malata.
La testa troppo piena di numeri, di calcoli. Di momenti che scivolavano via dalle mie mani…
E io dov’ero, eh? Dov’ero in tutto questo?
Ti scrivo questa lettera con il libro di Fisiologia che mi guarda, appoggiato accanto a me. Sto scoprendo i sottili meccanismi che ci fanno funzionare, l’impetuosa dinamica del cuore e il sottile gioco d’aria del polmone.
Ti scrivo in questa sera di metà Aprile, con il vento che soffia appena qui davanti alla stazione di Monte Mario, con la Roma bella delle cartoline che sembra lontanissima.
Non si vedono bene le stelle, ma ci sono troppe luci accese e troppi sogni lasciati in sospeso.
Mi rivedo con le lacrime davanti al finestrone del primo piano, con la consapevolezza di essere malata e le parole incastrate in gola, perché avrei preferito scomparire piuttosto che ammettere la mia colpa.
Sarebbe bastato abbassare lo sguardo e guardarmi le gambe. Quelle fottute gambe che mi angosciavano davanti lo specchio, nemmeno fossero stati mostri a quattro teste.
Mai troppo magre. Mai troppo toniche. Mai troppo. Come me.
Rialzo lo sguardo sul libro di Fisiologia e sorrido.
Ti scrivo questa lettera per dirti che ho preso consapevolezza di me stessa.
E non mi interessa se mi sento pesante, se ho buttato i pantaloni taglia 34, se ogni tanto ho ancora qualche pensiero strano e a Pasqua non ho assaggiato l’uovo Kinder che mi hai regalato.
Non importa, non mi importa.
Posso essere migliore di quello che volevo diventare, di quello che un cervello che non riconoscevo più mi diceva di essere.
Sono sempre stata un casino di persona, con un casino di vita e uno schifo di modi di fare e di pormi.
E ho scoperto, magicamente, che non mi importa.
Non mi importa del passato, del mio purgatorio personale. Che non posso punirmi per una vita di errori perché guardo quello che ho costruito negli ultimi dodici mesi e mi sento forte.
Gli esami che proseguono, le giornate che passano tra un tirocinio e un altro. Il primo striscio di sangue, il primo ECG. Le lezioni di biochimica e i pomeriggi a ripetere le vitamine. Il sole che tramonta su Roma. Il vialetto con i ciottoli. Il 980 preso al volo.
Io che ti scrivo.
Io che apro una pagina bianca e, finalmente, rovescio su questo foglio virtuale le parole che mi erano rimaste dentro.
E scrivo.
E mi riscopro.
 
“It's like I'm leaving all my past in silhouettes up on the wall.”
 
 
   
 
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