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Autore: Alphabet Loser    16/04/2016    1 recensioni
[Callisto x Artemide]
Dall'alto del cielo in cui ora dimora, Callisto guarda verso il basso, verso la Terra che non è più la sua casa. Guarda, e cerca con gli occhi, invano, il volto della dea che ancora continua ad amare.
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Storia partecipante al concorso "Shall I compare thee to a summer's day?" indetto da A r y a_ sul forum.
Citazione scelta: "È tutta colpa della Luna, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti."
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Artemide
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È tutta colpa della Luna, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti.



 
Dove sei, amore mio? Non ti vedo da quassù. Brillo alta nel cielo e ogni notte, quando gli uomini giocano a sfidarsi a riconoscerci, sono sempre la prima che trovano. Ma tu non mi guardi, amore mio, e io nemmeno, perché non ti vedo. A volte scorgo Selene brillare e penso a te, penso a te quando la falce cala, bianca e scintillante, pronta a sorgere di nuovo più bella che mai, ma quella falce non sei mai tu.
Ho infinite sorelle, ora. Infiniti fratelli. Tremulano pallidi accanto a me e mi paiono immagini bidimensionali. Disegni su carta nera che di una passata umanità non hanno più nulla. È questo che sono anch'io, amore? Sono certa che mi vedi talvolta. Non mi cerchi ma mi vedi. È impossibile non farlo, sono qui davanti a te, così semplice da identificare, quasi banale. Se mi vedi mi pensi? Capita che io mi senta trafiggere dal dubbio, che mi spezza e mi lascia senza fiato dal dolore, e quel dubbio è una voce sorda e muta che è parte integrante della mia persona e mi parla dicendomi che non ricordi nemmeno il mio nome. La più bella, così mi chiamavano. Ma so che la più bella sei sempre stata tu.



La notte ti senti mai sola? No, cosa dico?, la notte ti appartiene. Di giorno ti senti mai sola? Tuo fratello splende come un astro e tu ti rinfreschi all'ombra degli alberi dalle folte chiome con le tue ancelle. La troppa luce ti dà fastidio, non è vero? La tua pelle è delicata e i tuoi occhi anche, i tuoi occhi di Luna, nei miei occhi di stella. Tu non sei la luce abbagliante del sole che asciuga e provoca sete. Sei la placida brezza della sera che spira dal mare e di esso si porta il profumo lungo i più stretti sentieri boschivi, la stessa che sentivo sul viso in quei mesi in cui l'inverno cedeva il passo all'estate, dopo che il rosso del tramonto e il lilla del crepuscolo se n'erano già andati, per lasciare il posto al manto oscuro della notte, che ci spiava con i suoi mille occhi splendenti. Vorrei sapere quanto hai impiegato a dimenticare, o perlomeno a relegare il pensiero di me -del mio tradimento, del mio peccato- in uno degli angoli più insignificanti della tua memoria. Sei stata davvero indignata, o hai eseguito con freddezza senza alcun coinvolgimento personale? Ti ho delusa, o semplicemente non nutrivi verso di me alcuna aspettativa? In fondo, altro non ero che una tua ancella. Una delle tante. Molte probabilmente assolvevano questo compito meglio di me. Eppure, sappi che solo per amor tuo ho ceduto.



Ho un ricordo vivo di quel giorno. Era in quel periodo dell'anno in cui le ore di luce sono torride e quelle di buio gelate. La battuta di caccia avvenuta nel primo pomeriggio era finita da tempo, e io mi stavo godendo il refrigerio di una roccia posta nell'ombra bluastra di un giovane salice. Le fronde mi coprivano in parte la visuale, ma ciò non mi dava alcun fastidio. Ero lì soltanto per riposarmi, per trovare conforto dall'abbraccio soffocante di quel sole. Le mie frecce giacevano nella faretra al mio fianco, abbandonate, addormentate. Non avevano bisogno di alcuna preda da trafiggere. Ero sola. Sola, senza le mie compagne né la mia Signora. Godevo silenziosamente di quel ritaglio di tempo tutto per me stessa. È arrivato e come sua unica presentazione ha portato il leggero frusciar di foglie mosse da piedi tanto aggraziati, perché erano i tuoi. Me lo ricordo. Mi ricordo di come le uniche parole pronunciate siano uscite dalla mia bocca; "Mia Signora" dissi, nel veder quella creatura adorna delle tue splendide fattezze comparire dinanzi a me. E poi null'altro. I suoni che seguirono non furono mai parole.



Posso essere perdonata? Per essermi così facilmente lasciata andare alla tentazione? Ho tradito con così tanta leggerezza. Ho sentito il mio grembo sporco per ogni istante, dopo quel momento. Quando ho visto il mio ventre iniziare a gonfiarsi ho temuto di dare alla luce un figlio avvelenato, o velenoso. Vorrei poter dire di essere stata insidiata, ingannata. Potrei almeno conservare una parvenza di dignità. Ma la verità non è quella. La verità è che la colpa è soltanto mia. Si è seduto accanto a me e ha sorriso, ha soffiato una risata che sapeva della tua voce, e, sì, per quell'istante ci ho creduto. Aveva i tuoi stessi occhi grigi del colore della luna, la tua treccia sfatta ed elegante che ricadeva su quel manichino che era il suo corpo nello stesso modo in cui ricadeva sulla tua spalla bianca. Le tue spalle le accarezzavo con gli occhi mentre ti vedevo camminare avanti a me a passo spedito. I tuoi fianchi stretti ondeggiavano leggermente, sembravi un fiore cullato dal mare mosso. Mi sono lasciata possedere da quel corpo che era il surrogato, la perfetta brutta copia del tuo. Lui mi accarezzò il volto e subito sentii nelle sue mani dalla delicatissima figura la tipica ruvidezza della pelle degli uomini. Non mi è piaciuto, Artemide, non mi è piaciuto affatto. E ti chiederai perché allora io mi sia data a lui così facilmente. Me lo chiedo anch'io. Semplicemente ho deciso di illudermi. Questo lo giuro, ho peccato di quella superbia che ai miei occhi mi avrebbe resa degna delle tue carezze per non più di un secondo. In nessun altro modo, tranne forse sognando, avrei potuto ottenere da te ciò che in quell'unico giorno ho avuto. Un'ora al massimo, mia Dea, nulla più, e in quell'ora ho respirato la brezza marina che spira sulle Isole dei Beati e ho sofferto nei Campi della Pena lo scotto adatto al mio peccato, appositamente scelto per me dal Signore dei Morti. Le sue vesti si gonfiavano sotto l’aria sottile e beffarda, che mi scompigliava i capelli. Sfiorai con la punta delle dita la corona di fiori che portava sul capo, così simile a quella che indossavi tu, che talvolta avevo il privilegio di intrecciare con le mie stesse mani. Erano foglie di artemisia e gracili boccioli di belle di notte che aspettavano il tramonto per schiudersi. Con il dorso della mano accarezzai il suo viso, dal quale dolcemente mi sorrideva, e decisi che non era niente di così grave.



Artemide, luce di ogni mio giorno e di ogni mia notte, se tu sapessi cos’ho provato in quel tanto breve lasso di tempo mi potresti perdonare. La sua presa su di me era salda, a volte quasi ferrea, ma mai ho protestato al suo tocco, mai ho rifiutato le sue lascive carezze. Le nostre vesti erano tanto sottili che a malapena ci accorgemmo di quando caddero morbidamente su quel prato. Erano solo veli lunari, intessuti di luce e devozione, e caddero. Riuscii finalmente a poter vedere da vicino quei fianchi che tanto spesso avevo sognato, riuscii a sentirli sotto le mia mani aperte, tese verso ogni centimetro di quel corpo, mendicanti di un po’ di quel peccaminoso calore che avrei dovuto rifuggere. All’inizio, ci fu addirittura una punta di dolore, diluita in una matassa di sensazioni indefinibili come una goccia di sangue nel mare. Non fu paziente né delicato. Si stufò presto della sua messinscena. Deve essersi chiesto, tuo padre, quanto fosse sciocca quella tua ancella, sciocca o forse accecata dal piacere. Non gli feci capire che sapevo. Ci stavamo ingannando a vicenda, ma lui per quell’inganno non pagherà mai.
Ma come poteva importarmi, in quel momento? Riuscivo solo a sentire le sue dita che letteralmente si muovevano dentro al mio corpo, instancabili. Nemmeno feci caso alla mia mano che gli stringeva il polso per costringerlo a spingere ancora un po’ più forte. Con  i polpastrelli bagnati della mia vergogna mi solleticava i fianchi, e conobbi la debolezza di un corpo che si rifiuta di opporre resistenza.
Per gli Dei, Artemide, merito una punizione anche peggiore di questa! Perché nei suoi baci più languidi vagavo alla ricerca di pelle più morbida da stringere, ma in quelli più casti mi preoccupavo solo di assicurarmi che il suo ginocchio fosse saldamente stretto tra le mie gambe chiuse.



Quanto è gretta, l'umanità, quanto è inutile quando non hai tra le ginocchia un ruvido dio che ti tocca con le sembianze del tuo amore.
 



Speravo di provare sollievo, quando fui costretta a spogliarmi del mio abito davanti a quel lago. Eravate tutte così belle, nude e immerse nell'acqua algosa fino alla vita, con i lunghi capelli bagnati sulle punte che vi ricoprivano la schiena dall'andamento arcuato. Erano incantevoli giovani donne, eppure anche solo un'occhiata fugace al tuo viso -maculato dalle fronde degli alberi il cui corpo nudo era languidamente accarezzato da quello della luce del Sole- riusciva a renderli niente più che insignificanti. Quanto dovevo sembrare sciocca, lì in piedi a guardarvi, indecisa sul da farsi. Tenevo le mani unite poco sotto il ventre. Di fronte alla mia ritrosia mi ordinasti di far cadere la veste. Ed ecco, sotto i vostri occhi, la prova tangibile del peccato che con pieghe e drappeggi di tessuto ero riuscita abilmente a nascondere. Provai sollievo perché speravo nella vostra comprensione. Eravate le mie compagne, oserei dire le mie amiche, e avevo immaginato che poteste capire i miei sentimenti, indovinarli. Finalmente stavo per sgravarmi di quel fardello che era il mio segreto. Rinchiuderlo nella bocca di quel bambino non ancora nato era diventato insopportabile. Niente mi aveva preparata all'orrore che vidi sfigurarti i lineamenti. Ti vidi indietreggiare, poi uscire dall'acqua -mi persi a guardare le gocce colare sulle tue braccia- e afferrare con forza i veli che avevi lasciati sulla riva, ricoprirti con la dignità di una regina. La voce che uscì dalle tue labbra di pesca era aspra e dura. Mi portai le mani sul ventre. Che pessima madre. Il figlio a cui avrei dato luce era così innocente, così puro. Non ne poteva niente. Rivolsi il mio pensiero a tuo padre, sulle cui ginocchia ti eri seduta bambina, elencandogli i doni che più desideravi (io, in fondo, ero tra quelli), e desiderai maledirlo.
 
Ti ho amata come solo gli sciocchi sanno amare. E, come una sciocca, ho distrutto con le mie stesse mani quel divino privilegio che mi era stato concesso, quello di poter stare al tuo fianco. E non posso, del resto, biasimarti per avermi ridotta a belva silvestre, capisco la gravità della mia colpa, riconosco il mio peccato. Spero solo di non averti resa zimbello dell’Olimpo. Ma so, e su questo nessuno potrà mai farmi cambiare idea, che è solo a causa di Era se hai scelto di porre fine così presto alla mia vita. So che era la vergogna, l’imbarazzo, la rabbia, e il dolore che ti guidavano. Era, come te, non può essere incolpata. Solo Zeus, il più potente e intoccabile, è responsabile di tutto questo.



Scusami. Scusa la mia insolenza. La notte mi fa pensare. E quando penso penso sempre a te, a quello che saremmo potute essere semplicemente se la natura ci avesse create uomini. Di chi è la colpa? Di nessuno, di tutti? Della notte che mi fa pensare? Che mi fa pensare a te? È tutta colpa della Luna, Artemide, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti. E quella volta aveva scelto di prendersela con me. Spero di non peccare di vittimismo, questo cielo è puntellato di piccole stelle che hanno avuto sorte simile alla mia. Potessimo almeno consolarci a vicenda, ma le nostre voci sono mute. E da qui posso solo volgere il mio sguardo verso il basso, in mezzo a questo buio che non mi dà riposo.

Ma il Sole sorge, Artemide. Tuo fratello non vuole che io ti cerchi più su questa Terra infausta. Eccolo che col suo carro tutti vi ridesta. E mi assopisce.

 
  
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