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Autore: _Frame_    17/04/2016    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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77. Inferno e Demoni

 

 

Il viso di Romano era sbiancato. Le labbra grigie, fredde e rigide come due lastre di pietra, si schiusero, lasciarono scivolare i rigagnoli di pioggia mescolati alle gocce di sudore che imperlavano la pelle. Gli angoli della bocca si torsero verso il basso, si infossarono nella carne gelida delle guance. Un sibilo di terrore nacque direttamente dal fondo dello stomaco e strisciò fra le labbra.

“Oh, cazzo.”

Le onde del Kalamas si innalzarono come le creste sulla schiena di un rettile, gonfie e cariche di acqua schiumante che si infrangeva contro le rocce. Le fauci dei cavalloni, simili ai musi lunghi e increspati di bestie feroci, si schiantavano contro i margini del fiume, andavano in frantumi come vetri che precipitano su un pavimento di marmo. Dietro le sagome scure delle onde che crescevano e si rompevano, trascinando in avanti il flusso ruggente del Kalamas, le ombre delle montagne greche si ergevano alte, si immergevano nella nebbia grigia avvolta tutta attorno ai pendii. Non se ne vedevano le cime.

Lo scrosciare del fiume copriva il suono delle fucilate a ripetizione. I lampi delle mitragliatrici scintillavano dietro la nebbia, fra le rientranze delle pareti di roccia. Spari più vicini trafissero il rumore dell’acqua che muggiva, fecero tremare il terreno di pietre sotto i piedi di Romano, e gli chiusero lo stomaco in un nodo di tremiti. Il senso di vertigini aumentò, e gli venne da vomitare.

Una ventata d’aria e pioggia dritta in faccia lo costrinse a strizzare le palpebre e ad abbassare la fronte. Romano arretrò. Portò un braccio davanti alla faccia e si riparò dalle ripetute frustate di pioggia. Gli occhi socchiusi e impregnati di acqua fra le ciglia puntarono l’altro argine del fiume.

Le onde si abbassarono sotto la doccia di pioggia che stava mitragliando le acque del Kalamas. Svelarono i profili dei cannoni impennati verso il cielo di nubi, il nero delle bocche di fuoco attorno al quale galleggiava ancora un sottile strato di fumo. I soldati greci scendevano in gruppi dai pendii delle montagne come i sassi rotolanti di una slavina, stringevano i fucili sottobraccio, si gettavano dietro le artiglierie, e svanivano coperti dai lampi delle armi che abbagliavano il muro di pioggia.

La sensazione fredda e viscida della pioggia che colava dai capelli, scivolando sulle guance e dietro le orecchie, risvegliò il viso intorpidito di Romano.

Romano scrollò il capo, schizzò via l’acqua dalla testa come un cane appena riemerso dal bagno e gettò nuovamente il braccio sul fianco. Guardò alla sua destra, nel punto in cui il profilo del Kalamas scavato fra le rocce si snodava in lontananza, finendo assorbito dalla nebbia.

Fanti avvolti nelle uniformi italiane corsero verso l’argine del fiume inferocito. I fucili sottobraccio, stretti ai fianchi, spalle chine e mano libera premuta sull’elmetto abbassato sulla fronte. La pioggia li mitragliava dall’alto e da dietro, gli schizzi del fiume li annaffiavano da davanti, accogliendoli come il muro di una cascata. Lampi bianchi saettarono dietro i nuvoloni di nebbia evaporati dal terreno sull’altra sponda. Esplosioni a ripetizione scintillavano come rami di elettricità attraverso l’aria, scoppiavano contro il suolo, sollevavano mitragliate di massi e proiettili che trafiggevano i soldati in corsa.

Due di loro si torsero, le gambe si flessero, e caddero di faccia a terra. Un altro di loro si prese il petto, gettò il capo all’indietro, e precipitò sulle ginocchia. Gli altri furono inghiottiti da un’onda del Kalamas che raccolse i loro corpi e li trascinò in mezzo alla spuma grigia e alle spire di fango che vorticavano nel fiume.

Ci fu un fischio.

Un’esplosione più violenta scoppiò nel punto in cui i soldati erano caduti e sollevò un cratere di fumo e luce che saltò in aria come la bocca di un vulcano.

La zaffata di calore investì Romano, la faccia bruciò sotto la leccata di vento rovente. Romano riportò il braccio davanti al viso e fece stridere i denti per contenere il gemito di sofferenza.

Incrociò i piedi, ingobbì le spalle sotto il peso del fucile allacciato alla schiena, e si voltò dall’altro lato.

Riaprì gli occhi, anche se bruciavano, e scavò con lo sguardo attraverso lo strato di fumo e sabbia esplosa.

A sinistra, il serpeggiare del Kalamas si perdeva dentro la nebbia di pioggia. Soldati già caduti giacevano in mezzo alle rocce tinte di rosso, dietro le ruote dei cannoni e dei mortai d’assalto che avanzavano spinti dalle braccia e dalle spalle dei fanti ancora in piedi. Grida di incitamento si perdevano nell’aria, il baccano del campo di battaglia non permetteva di riconoscere le parole.

Altri due crateri di fumo esplosero in mezzo alla divisione italiana, eruttarono un alone di fumo che si schiuse come il bocciolo di un fiore per poi evaporare contro le nubi. Grida più soffocate si sovrapposero allo scrosciare del fiume e alle mitragliate. L’odore di zolfo e di sangue riempì le narici e scese nello stomaco come un conato di bile andato di traverso. Romano strinse i denti. Si sforzò di trattenere dentro il vomito che gli contraeva la pancia.

Il vento ululò sulla valle, travolse le colonne di fumo in un abbraccio di aria e pioggia, e le spinse a chinarsi fino a toccare terra. La coltre di nebbia si abbassò e nascose il campo di battaglia.

Una spirale grigia si torse attorno al corpo di Romano, chiudendolo in un vortice che gli mozzò il respiro.

Romano si tappò la bocca con un palmo, tossì, e tutto il corpo vibrò assieme a lui. Doveva muoversi.

Flesse un ginocchio per estrarre il piede dal fango e una scossa di tremiti ingabbiò il muscolo del polpaccio. La gamba restò fra le rocce, ingessata come una radice che affonda nella terra.

Le gambe tremarono come steli di giunco nella tempesta, i muscoli deboli e molli erano pesanti sacchi di sabbia legati ai polpacci, sangue ghiacciato dal terrore fluiva attraverso il corpo e chiudeva il petto in un freddo abbraccio di artigli che strizzavano i polmoni a ogni boccata d’aria. Ogni rauco respiro che Romano prendeva tra le dita schiacciate contro le labbra era una coltellata in mezzo allo sterno.

La spirale di nebbia grigia vorticò attorno alla sua testa, distorse il paesaggio delle montagne che ondeggiarono come fossero composte di fumo, deformò il flusso del fiume che si attorcigliò come una serpe agonizzante che rotola nella sabbia. La vista si appannò. Divenne un velo di paura davanti al campo di battaglia già tinto di rosso. Il nero si espanse a macchia d’olio, trascinò con sé le immagini dei ricordi che riemersero e galleggiarono nella pozza scura.

 

Mani forti e solide stringevano attorno ai piccoli fianchi di Italia. Lo sostenevano sopra il manto d’erba, le punte dei piedini dondolavano a uno sfioro dall’erba, provavano a toccare i fiorellini che sbocciavano in mezzo ai ciuffi più alti. Le gambette scesero, i piedini aderirono all’erba, e le mani si sfilarono dai suoi fianchi. Italia divaricò le piccole braccia per tenersi in equilibrio, dondolò a destra e a sinistra, facendo oscillare la veste bianca dai polsi e attorno alle ginocchia. La croce dorata scintillava sul suo petto, era la stessa che anche Romano portava appesa al collo e che sentiva sempre dondolare quando correva.

Romano giunse le manine sul grembo, tenendosi stretto nelle spalle e abbassando leggermente la fronte. Sentì il fiato fermarsi e il broncio farsi più rosso sulle guance. Un pizzico di paura e anche di gelosia gli punse il cuoricino che batteva forte sotto la croce dorata.

Il piccolo Italia piegò la testolina di lato senza abbassare le braccia ancora divaricate, rivolse a Romano uno sguardo stupito e incuriosito. Lo sguardo di chi si guarda per la prima volta dentro il riflesso di uno specchio.

Una delle mani grandi e adulte che avevano avvolto il corpicino di Italia e che lo avevano posato sul prato tornò a scendere, e gli toccò delicatamente la spalla.

“Su,” gli disse una voce familiare. “Vagli vicino e fate amicizia. Non avere paura.”

Romano irrigidì e dovette schiacciare il peso dei piedini a terra per sforzarsi di rimanere lì e non fare un passo all’indietro.

Lo sguardo di Italia tornò a posarsi sul suo. Il vento faceva oscillare la veste bianca attorno al suo corpicino appena nato, passava attraverso i ciuffi di capelli facendo dondolare il ricciolo sopra la spalla.

Italia sorrise.

Romano provò un tuffo al cuore.

Il suo viso brillava più del sole che splendeva sull’erba smeraldina.

Italia tese le braccia lungo i fianchi, come stesse imitando il volo di un uccellino, e zampettò a passo barcollante verso Romano.

Romano sollevò anche lui un braccio, d’istinto, per bloccare la corsa del fagottino bianco che gli stava correndo incontro. Divaricò le dita, mostrò il palmo a Italia.

Italia alzò le braccine, senza avere ancora terminato la corsa, e tese le piccole dita paffutelle verso di lui. Una sottilissima e dolce risata cinguettante fu il primo suono che Romano sentì uscire dalle sue labbra.

Le mani si toccarono, le piccole dita di Italia avvolsero quelle di Romano, i palmi aderirono, caldi e morbidi come pelle di pesca baciata da un raggio di sole.

Romano sentì il cuore battere all’interno delle due mani. Un unico cuore pulsante che emanava raggi luminosi dalla corona dorata, e che teneva entrambi avvolti nel suo calore.

Romano dovette socchiudere le labbra per riprendere a respirare.

Mosse le dita irrigidite, le chiuse anche lui, le riaprì, e tornò a stringerle, avvolgendole a quelle di suo fratello.

Solo il dolce sorriso di Italia riuscì a spazzare via la paura che gli aveva avvolto il petto. Italia tornò a chinare la testolina, tenne la mano stretta alla sua, ed esibì il sorriso che raggiava fra le guanciotte rosee.

“Fratellone.” 

 

Le ombre dei soldati ripresero a scorrere dietro il banco di fumo. Erano sagome nere, piatte come ritagli di cartoncino. I proiettili tracciarono scie sottili e luminose come i tagli di una spada, trapassarono il muro di nebbia e trafissero le sagome nere dei fanti. L’impronta del loro passaggio brillava come una graffiata di artigli. I corpi crollarono, seguiti da una cascata di globi di fuoco piovuti dall’altro argine del Kalamas.

Romano sbatté le palpebre, scosse il capo liberandosi dalla nebbia nera che gli aveva avvolto la vista. Affondò una mano fra i capelli, strinse le dita e sfregò la testa, a fronte bassa. Respirò a bocca aperta, sentendo il freddo della pioggia e del vento sostituire il calore del ricordo che era arrivato e se n’era andato come la risacca del mare.

I tremiti che giungevano dal campo di battaglia lo spinsero a sollevare di nuovo gli occhi.

Le sfere di fuoco raggiarono dai colpi di cannone, tracciarono gonfie scie di fumo bitorzoluto dietro il loro passaggio e si schiantarono al suolo. I corpi dei soldati saltarono in aria, trascinati dal vapore dell’esplosione.

Artigli d’acqua emergevano dalle onde del fiume color fango. Le zampe rapaci schiudevano le dita, le punte degli artigli d’acqua affondavano nei corpi neri e sagomati dei soldati. Le zampe si chiudevano, stritolavano i corpi, e li trascinavano tra le onde, seppellendoli nel letto del Kalamas. I cadaveri alimentavano la furia del fiume e quella degli spari di sbarramento. Assieme agli artigli emersero le bocche affilate. Le fauci si aprirono verso il cielo, si chinarono disegnando un arco, e si divorarono fra loro, facendo salire il livello dell’acqua.

Romano dovette stringere i pugni contri i fianchi per resistere alla tentazione di premere le mani sugli occhi e tenersi lontano da quella visione. Scosse il capo, altra acqua schizzò dai capelli, e gli artigli e le fauci d’acqua tornarono in fondo al fiume. Le sagome dei soldati corsero fuori dall’Inferno, tornarono uomini sporchi di fango e sangue, che grondavano acqua piovana dalle armi, dagli elmetti e dai vestiti. Non erano più ritagli di cartoncino nero.

Romano socchiuse la bocca e prese il primo respiro da quando si era paralizzato dalla paura ed era entrato in apnea.    

Non posso farcela. È impossibile, è troppo...

Il fischio gli assordò i pensieri.

Qualcuno in lontananza urlò, ma Romano non capì una sola parola.

L’esplosione scosse il terreno sotto di lui, i piedi si innalzarono dalle rocce, vibrarono sospesi a uno sfioro dalla terra, e riatterrarono mentre il suolo stava ancora tremando. Le ginocchia indebolite e vacillanti cedettero, i muscoli indolenziti dal freddo non sostennero il peso del corpo e si ammosciarono. Romano cadde a terra, sbatté sulle ginocchia e sui gomiti. Schizzi di pioggia e di acqua fangosa di fiume gli entrarono in bocca, nel naso, e dentro gli occhi. Il fucile scivolò dalla schiena, cadde dalla spalla e crollò a terra in mezzo ai sassi. La cinghia raccolta attorno al polso.

L’eco vibrante dell’esplosione terminò, seguita da un’altra ondata di puzza di fumo e zolfo.

Romano gettò il braccio contro la bocca e tossì due volte. Il petto e la gola bruciavano come se avesse aspirato i vapori dalla cappa di un camino intasato.

Il suolo continuò a tremare. La corsa dei fanti alla carica in direzione del fiume, le ruote dei cannoni e dei mezzi cingolati che macinavano le rocce spremendo la terra sotto il loro peso fecero arrivare nuove vibrazioni direttamente nelle ossa di Romano.

Romano fece scattare lo sguardo in avanti. Acqua piovana gli scese dai capelli e colò davanti al viso come una tenda di freddi rigagnoli trasparenti.

Attraverso il gocciolare cristallino che sbrodolava dalla fronte, il Kalamas divenne ancora più grosso e deforme. Colonne di onde si impennavano verso gli argini, si schiantavano contro i mezzi corazzati, il terreno friabile cedeva sotto i cingoli, faceva inclinare i carri di lato, riducendoli ad animali azzoppati. L’acqua sbatteva contro le formazioni dei soldati in prima linea, si ritirava, e li trascinava sul fondo, come abbracciandoli. I muli raccolti dalla corrente finivano a pancia all’aria; musi tesi fuori dalla schiuma di fango, bocche e narici spalancate, e occhi vitrei, lucidi di panico. Un’altra ondata e il fiume finì sopra agli zoccoli scalpitanti, si divorò i muli in un sol boccone.

Altri spari trafissero l’aria. Emisero il suono metallico e secco di una secchiata di sfere di ferro gettate sul fondo di una pentola di alluminio.

Romano si prese la nuca tra le mani, piegò le spalle in avanti, accucciandosi a terra, con la fronte che sfiorava il fango. Un’esplosione colpì di nuovo, la zaffata di calore lo travolse di lato, spingendolo a spostarsi su ginocchia e gomiti, tirando la cinghia del fucile e trascinando l’arma dietro di sé. Non si sentiva più i muscoli. Romano si aggrappò a una roccia più alta e respirò grandi boccate d’aria tenendo la guancia premuta sulla pietra fredda. Tutto l’odore della terra, del ferro e della pioggia gli scivolò in gola.

Il suono pesante e gutturale del suo battito cardiaco divenne più forte di quello degli spari e dello scrosciare del fiume. Il petto scoppiava, la testa pulsava in un vortice di smarrimento, e il corpo non smetteva di tremare, annaffiato dalla pioggia battente.

Romano girò lo sguardo, tornò a inquadrare il fiume distorto dalla nebbia e dalla confusione che gli ronzava attorno al capo come un anello.   

E adesso come cazzo facciamo a passarlo?

Ingollò aria e saliva.

Continuò a respirare a bocca spalancata. La pioggia gli scivolava giù dalle labbra lucide e grigie.

Ripercorse il profilo del fiume che spariva nel fumo. Guardò oltre i profili dei mezzi corazzati, dei cannoni e dei mortai, delle sagome nere dei soldati che continuavano a correre, a cadere, a gettarsi nelle fauci del fiume.

Gli argini saltavano in aria, crateri di fuoco e fumo si aprivano uno dopo l’altro sotto le crivellate dei greci.

Nessun appiglio per le teste di ponte.

Romano fece correre una mano fra i capelli. Fermò le dita contro la fronte, nascose metà del viso.

È da pazzi, e anche se...

Un ronzio tuonò sopra la sua testa, fece tremare il cielo e il suolo.

A Romano saltò il cuore in gola, lo sentì schizzare via come il tappo che esplode da una bottiglia di spumante.

Romano si aggrappò alla roccia, sollevò lo sguardo.

Quattro scie di fumo bianco trafissero le nubi plumbee, sfrecciarono come l’artigliata di un fulmine. I caccia italiani volarono verso le montagne greche dall’altra parte del fiume. Gli aerei trafissero il muro di nebbia, i ronzii si ovattarono, divennero più deboli e lontani. Esplosioni bianche lampeggiarono fra le nubi dove i caccia erano spariti. Anche quelli sbiadirono, come le luci di un temporale che sta morendo.

Il cielo era in fiamme, alimentato dai pilastri di fumo che salivano dal suolo.

Romano sentì la vista bruciare. L’acqua gli colava dal viso, entrava fra le labbra e le palpebre, scivolava lungo gli angoli degli occhi e rigava le guance arrossate. Le dita strinsero contro la roccia a cui era abbracciato e che premeva sul petto, le unghie stridettero, la pelle scorticata bruciò come il viso.

La sua stessa voce stridette nel cranio come il pianto sottile e straziato di un bambino.

Voglio andare a casa.

“Puntate. Fuoco!”

Una bolla di calore esplose alla sua destra. Lo investì costringendolo ad aggrapparsi alla nuca e a piegarsi di lato. Romano si lasciò scivolare dalla pietra, schiacciò il viso fra le rocce bagnate che componevano il suolo, affondò le dita fra i capelli e strizzò gli occhi, lasciando che l’ondata di vento e detriti gli strisciasse sulla schiena.

Il calore si ritirò lasciando posto al freddo pungente della pioggia che picchiò contro il suo corpo rannicchiato e tremante, avvolto dai fumi galleggianti delle esplosioni.

Romano sollevò il gomito, socchiuse un occhio, sbirciò nella direzione da cui erano venute le grida di incitamento.

Il getto di pioggia divise in due la tenda di fumo, svelò il profilo liscio e lucido della canna di mortaio puntata verso il cielo. I riccioli di spuma grigia si abbassarono, scivolarono lungo il corpo del cannone, fino alle ruote, e scoprirono le figure dei tre soldati raccolti attorno all’arma. Due carri veloci rombarono dietro di loro, i cingoli macinarono il terreno, le mitragliatrici sulla cima del mezzo puntarono le montagne che si innalzavano oltre il fiume. Ombre nere dei soldati, di nuovo simili ai ritagli di cartoncino, corsero di fianco ai carri e continuarono ad avanzare verso la linea del Kalamas.

Romano spalancò gli occhi, non sapendo cosa guardare. Combattono?

Lo sguardo volò dai soldati in corsa ai carri veloci in movimento, ai lampi delle esplosioni che brillavano in prossimità del fiume e della cima alle montagne che si perdevano fra la nebbia, dove gli aerei erano svaniti.

Ma non hanno...

“Di nuovo!”

Lo sguardo di Romano schizzò verso il mortaio che aveva fatto fuoco prima. Uno dei tre soldati scese dalle punte dei piedi, ritirò le braccia dalla bocca impennata del cannone, lasciando sparire un luccichio al suo interno, e si piegò dietro una delle ruote assieme al secondo compagno. Il terzo soldato puntò il braccio verso l’altra sponda del fiume, si tenne fermo l’elmetto sulla testa, con la pioggia che gli annaffiava il viso e l’uniforme, e gonfiò il petto d’aria.

“Puntate in mezzo alle rocce e ai pendii delle montagne. Fuoco!”

Romano chiuse gli occhi e si riparò, raggomitolandosi prima di sentire l’esplosione.

Il terreno vibrò, il rimbombo del mortaio azionato tremò nelle orecchie tappate dai palmi delle mani.

Quando Romano riaprì gli occhi brucianti, c’era ancora del fumo che volteggiava davanti a lui, strisciando sul suolo come una serie di viscidi tentacoli grigi.

Romano serrò i pugni a terra, strizzò fra le dita due manciate di sassi aguzzi che gli punsero i palmi bagnati da pioggia e fango. Una fiamma crebbe nel petto, riscaldò il corpo che bruciò di determinazione.

Sono davvero intenzionati ad andare di là.

Altri tuoni esplosero dietro la coltre di nebbia, illuminarono i profili aguzzi delle montagne.

Romano trascinò le ginocchia contro la pancia, le fece strisciare fra le pietre zuppe di fango. Richiamò le braccia portando più vicino a sé il fucile appeso al gomito, che non aveva ancora toccato. Abbassò la fronte, si lasciò carezzare dal flusso dell’acqua che scivolava dai capelli, dietro le orecchie e lungo il collo, gocciolando dalle guance, e rivolse il viso a terra. La schiena dritta ma le spalle gobbe, le braccia abbandonate lungo i fianchi e le mani riverse fra fango e rocce. Respirò a bocca aperta, la gola bruciava per quell’aria che sapeva di ferro e zolfo, gelida come vapori di ghiaccio. Il petto sempre più caldo, la brace di determinazione sempre più ardente.

Se loro non sono intenzionati a fermarsi e vogliono davvero continuare a combattere gettandosi in questa pazzia...

Romano impennò lo sguardo.

Altri fiotti d’acqua colarono dai capelli, disegnarono rigagnoli trasparenti simili a radici che fluirono lungo la fronte, seguirono il profilo del naso arricciato in una smorfia di rabbia, si infossarono attorno alle pieghe nere che gli stropicciavano il viso all’altezza degli occhi furenti e fiammeggianti, si ingrossarono lungo le guance diventate rosse e calde come fuoco. Il cuore galoppava. I battiti accelerati pulsavano in ogni centimetro del suo corpo, dalla testa alle punte delle dita.

Allora li seguirò all’Inferno, cazzo!

Romano serrò i denti, grugnì un grido di autoincoraggiamento tra gli incisivi vibranti, e lasciò che il calore nato dal petto si diffondesse su tutto il corpo.

Agguantò il fucile, scaraventò a terra il calcio, piantandolo come un paletto, e si appese alla canna. Fece leva con le braccia. Si tirò in piedi, grondando acqua e fango dalle spalle e dalle ginocchia, forzando i muscoli doloranti. Le gambe non tremavano più.

Romano emerse dal fumo, scrollò il capo, si asciugò la faccia con una manica bagnata dell’uniforme, e si voltò verso i tre soldati raccolti attorno al mortaio.

“Ascoltate!”

La sua voce superò il rumore delle esplosioni che tuonavano attorno a loro.

I tre soldati si scollarono dal cannone, si irrigidirono vicino alle ruote, la cima della canna sopra le loro teste, e batterono un attenti.

“Signore!”

Romano marciò verso di loro, si riparò il viso con un braccio e puntò quello libero oltre il muro di fumo. “Suddividetevi in settori,” urlò sopra il frastuono dei carri in movimento. Prese una grossa boccata d’aria che sapeva di pioggia e fumo. “Usate l’artiglieria pesante, i mortai, e sfruttate l’armamento corazzato della Centauro per distruggere la loro difesa.” Guardò dove il suo braccio indicava, e premette due dita contro l’immagine delle montagne. “Nel frattempo spingete in avanti la fanteria di prima linea e create delle aree sicure sulla riva del fiume in modo da poter gettare le basi per le teste di ponte senza che quelli ci riempiano di piombo.”

Strinse la cinghia del fucile fra le dita, fece scivolare la bretella giù dalla spalla, stese il Carcano lungo il petto, in diagonale, e tuffò una mano in tasca. Raccolse una piastrina di caricamento. Tirò all’indietro l’anello dell’otturatore, incastrò la piastrina sotto il percussore che era scarrellato verso la culatta, e la incastrò nel dente di caricamento.

Crack!

Riaggiustò l’otturatore e caricò il fucile.

Romano strinse l’arma con entrambe le mani, si voltò verso il cuore del campo di battaglia, dove il fumo impregnava l’aria di pioggia, le sagome dei soldati si addensavano, i rombi dei carri e i tuoni delle esplosioni si facevano più forti e assordanti.

“Io vado in prima linea. Voi continuate a massacrarli.”

Romano scoccò un’ultima occhiata ai suoi soldati da sopra la spalla e corrugò la fronte. Ombre nere ramificarono attorno agli occhi pulsanti di fuoco come due lanterne accese.

“Non dategli tregua! Mi sono spiegato?

I tre soldati rinnovarono l’attenti. Spinsero i petti all’infuori, guadagnarono profonde sorsate d’aria.

“Agli ordini, signore!”

Romano si voltò. Si tenne abbracciato al suo fucile, serrò le dita attorno all’arma, premendola al petto, e trattenne il fiato.

Aspettò tre secondi. L’eco di due esplosioni si abbassò, Romano sentì l’aria farsi più limpida e umida attorno a lui, e tutto il fumo scivolò via. Emise un ringhio fra i denti sigillati, inspirò dal naso, e si gettò in mezzo al campo senza pensarci.

Le gambe si mossero da sole, sprofondando nel terreno cedevole, squagliando fango e dividendo i grumi di pietre che si sfaldavano, trasportati dal flusso di pioggia che non aveva ancora cessato di cadere. Il diluvio gli veniva addosso sputando gocce grosse e gelide come cubetti di ghiaccio. L’acqua gli batteva sulle guance, fra le ciglia, sulla fronte, grondava dai capelli e scivolava sul collo, scendendo nel petto e lungo la schiena, tenendogli l’uniforme incollata alla pelle. Il fango schizzava fra le gambe, impregnava gli stivali sempre più rigidi e pesanti da trascinare, i guizzi di pantano saltavano fino ai fianchi, tingendo la divisa di sporco e incrostandosi tra le dita chiuse attorno al fucile.

Romano schivò una roccia, affondò il piede in un punto più molle. Abbassò le spalle, piegò il capo, un fischio gli schizzò vicino all’orecchio – un proiettile vagante – e sbatté la spalla su uno spuntone di roccia più alta. Non si fece nulla, l’adrenalina gli impedì di sentire la scarica di dolore. Romano resse il fucile con un braccio solo, se lo caricò sulla spalla, si aggrappò alla pietra con la mano libera, spinse sulle gambe per liberarsi dal fango, e scavalcò le rocce.

Altri due spari.

Due fischi saettarono di fianco a lui. Uno creò una scia di calore vicino al braccio, l’altro sventolò una ciocca di capelli contro la guancia. Altri due proiettili schivati.

Romano atterrò. Riagguantò il fucile con entrambe le mani, rivolse la punta della canna verso il basso, e continuò a correre con la pioggia che gli batteva in faccia. Scrollò il capo, schizzò via l’acqua dalle ciglia, batté le palpebre, e la vista si allargò.

Due dei carri veloci italiani che Romano stava raggiungendo rombarono, pietre e fango saltarono da sotto i loro cingoli dentati, come gli spruzzi di una fontana, e le loro ombre si spostarono lungo il terreno.

Fosse nere nascoste da sacchi di stoffa si aprirono sul suolo, rotoli di filo spinato si attorcigliavano attorno alle trincee come i rovi di un cespuglio di rose. Romano trasse un sospiro. La sensazione di sicurezza arrivò come una ventata di aria tiepida in mezzo a quel gelo. 

Trincee!

“Cecchino! State giù!”

Il grido del soldato gettò una secchiata di ghiaccio sull’aria calda.

Gli spari arrivarono prima che Romano potesse sollevare gli occhi. Linee bianche trafissero l’aria, alcune sagome in corsa si piegarono, si torsero all’indietro e crollarono, inghiottite dal fango e dal fumo.

Romano scattò di lato, i piedi si incrociarono, allontanandosi dall’ultimo corpo abbattuto sul campo. Gli spari di una mitragliatrice lo colsero alle spalle, il vibrare della raffica di colpi gli fece tremare le orecchie. Romano strinse i denti, tenne il fucile abbracciato al petto, abbassò la fronte, e continuò a correre. Il vento soffiò in faccia, scostò due ciocche di capelli bagnati dalla fronte e dagli occhi. Romano socchiuse le palpebre. Dietro il fumo galleggiante, inquadrò di nuovo l’immagine infossata della trincea. Inspirò a lungo, si riempì i polmoni di aria acre e soffocante. I piedi accelerarono, volarono sopra il suolo, le gambe erano in fiamme.

Un secondo grido lacerò l’aria.

“Granata!”

Senza smettere di correre, Romano gettò lo sguardo all’indietro da sopra la spalla.

La granata esplose in una cupola di fumo e detriti che rotolò lungo il terreno, inghiottendo sassi e altre sagome di soldati che svanirono nel grigio. Il calore pulsò sulla sua schiena, gli bruciò il collo bagnato e scoperto.

Il terrore di finire scaraventato via dall’esplosione gli fece precipitare il cuore in fondo allo stomaco.

Romano spinse sul piede che aveva appena allungato la falcata, gettò le spalle in avanti, strizzò gli occhi, allacciò le braccia attorno al fucile e lasciò che la canna della volata premesse contro la guancia. Allungò l’ultimo passo, con la speranza di sprofondare nella rientranza della trincea.

L’ondata dell’esplosione arrivò e premette contro la sua schiena. Il calore si gonfiò, abbrustolendo le punte dei capelli, e lo sbalzò in avanti.

Romano cadde di petto. Una spalla sbatté su una roccia, la scossa di dolore penetrò nell’osso, e l’altra spalla sprofondò nel vuoto. Romano schiacciò i gomiti incrociati contro il fucile, sbatté i fianchi, e il peso cedette, fece avanzare le spalle dentro lo scavo della trincea. Scivolò giù, spinto dall’onda della bomba che avanzò come un panno di fumo nero.

Il terreno bagnato si sciolse sotto il suo corpo. Romano cadde nel vuoto, lo spavento gli aprì un buco nello stomaco che gli strappò il fiato dai polmoni con un gemito. “Guah!” Le spalle si ribaltarono e toccarono il fondo della trincea, le gambe volarono in avanti, fecero inarcare la schiena, e Romano ruzzolò.

Batté la testa, schiacciò la faccia contro la terra e ingoiò una sorsata di acqua fangosa, più alcuni sassolini che rimasero incastrati fra i denti. Il collo e la nuca bruciavano ancora per i vapori dell’esplosione, gli impedirono di sentire subito il dolore degli spuntoni di roccia che lo colpirono sull’anca, contro lo stomaco, e sulla spalla.

Romano completò il ruzzolone, scivolò sul fianco, petto all’aria, una gamba ancora impennata contro la parete della trincea, e l’altra stesa sul fondo. Braccia spalancate, mani slanciate sopra la testa, il fucile raccolto nella piega del gomito.

Gli ultimi detriti finirono di crollargli in faccia. Briciole di sassi e fango gli piovvero sulle guance e sulle palpebre. Romano tossì due volte, raschiò via la maschera di sporcizia, e riuscì ad aprire gli occhi.

Il diluvio forò il tappeto di fumo che volteggiava sulla cima della trincea. Le gocce di pioggia gli picchiettarono sul viso e sul corpo disteso a pancia insù. Sciacquarono via le ultime tracce della caduta dalle guance e dai capelli. Romano fece strisciare un braccio in mezzo al fango e si toccò la testa. Fu come darsi una martellata alla tempia con la punta acuminata di un cacciavite. La testa girò, il viso formicolò, e davanti alla vista si stese un panno di nebbia nera.

 

Romano spelacchiava i petali di una margheritina che stringeva fra le dita. Stringeva i polpastrelli e li sbriciolava fino a inumidirsi la pelle con il loro profumo. Sedeva a gambe incrociate sul prato, da solo, distante dall’ombra dell’albero che apriva i suoi rami sopra il piccolo Italia, seduto sulle ginocchia del nonno e stretto dalle sue braccia.

Nonno Roma gli posò la punta dell’indice sul piccolo nasino che si era appena sollevato per osservare la fuga di un uccellino.

Gli stava raccontando qualcosa, ma Romano non aveva seguito.

“Dovete sempre ricordarlo,” gli disse il nonno con voce dolce.

Romano staccò l’ultimo petalo dalla corolla della margherita, e guardò entrambi da sopra la spalla, girandosi per la prima volta.

Nonno Roma continuò a parlare. Romano non riusciva a vederne lo sguardo, anche se sapeva che lui e Italia si stavano fissando negli occhi.

“Voi due siete la stessa nazione, ma rimanete lo stesso due bimbi diversi che un giorno diventeranno grandi. Questo non dovrete mai dimenticarlo, perché sarà importante dare valore sia alla vostra individualità sia all’unione che voi due formate.” La mano del nonno strofinò i soffici capelli di Italia.Gli sorrise teneramente.“La vera Italia può esistere solo se voi due restate uniti, ma senza dimenticarvi che siete entrambi importanti alla stessa maniera per il vostro paese.”

Romano si lasciò sfuggire un flebile sospiro. Pur non capendo il significato di quelle parole, sentì una fitta al cuore, una piccola scossetta alla testa che gli ordinava di ricordarle per sempre.

Italia batté le manine e fece un piccolo saltello sulle ginocchia di Nonno Roma. “Io resterò per sempre affianco al fratellone, te lo prometto, nonnino.” Sollevò una piccola mano e stese il sorriso, divaricando le dita. “Diventeremo la nazione più grande e forte di tutte e staremo sempre assieme.”

Romano fece roteare lo sguardo al cielo e sbuffò. Gettò via la margherita in mezzo al prato, raccolse le gambe contro il petto, abbracciandole, e posò il mento fra le ginocchia. Il viso paffutello si gonfiò in un broncio.

Romano continuò a domandarsi quale fosse lo scopo della loro esistenza. In ogni caso, ci sarebbe sempre stato Nonno Roma a guidare il paese.

 

Romano sbatacchiò un occhio alla volta, lasciando che i lampi di luce sbiadissero poco alla volta. Una smorfia di dolore rantolò fuori dalle labbra contorte e incrostate di fango e sassi. “Urgh.” Il dolore al fianco, all’anca e alla spalla cominciò a pulsare. Tante martellate di pietra battevano sulle sue ossa, lampi di sofferenza scintillavano davanti agli occhi nascondendo il cielo grigio che rivestiva lo sbocco della trincea.

Romano socchiuse la bocca e prese la prima sorsata d’aria. Il petto si gonfiò, le mani strette alla terra si contrassero, i lampi bianchi svanirono davanti alla vista.

I suoni delle esplosioni riempirono la trincea, fecero vibrare le pareti, e altri sassi accompagnati da zolle di terra rotolarono contro il corpo di Romano.

Romano guadagnò una seconda, sofferta e sibilante boccata d’aria, e si voltò sul fianco aggrappandosi a una delle rocce sulla quale aveva battuto l’anca. Le unghie graffiarono la pietra per sostenere il peso, la gamba che era rimasta sollevata alla parete scivolò giù, spinse assieme all’altro piede, e Romano raccolse le ginocchia contro il petto. Si accucciò contro il muro di fango e sassi, poggiò la fronte contro una roccia, e riprese a respirare a grandi boccate rantolanti. La parete vibrò contro la sua testa e contro le sue mani spalancate, una cascata di detriti gli piovve addosso senza fargli niente.

Qualcuno urlò. Le esplosioni successive nascosero la voce dell’uomo.

Romano chiuse gli occhi, trattenne il respiro. La pioggia infangata fluiva dai suoi capelli e gli colava lungo le guance, giù fino alla punta del mento.

Il fiume.

Nel buio delle palpebre abbassate, isolò i rumori circostanti. Separò le esplosioni dalle urla, dai rombi dei carri e dal clangore che cigolava a scatti dei mortai che si innalzavano al cielo. Cercava qualcos’altro.

È solo su quello che devo concentrarmi.

Uno scroscio familiare tornò a rintronargli nelle orecchie. Decine di bestie galoppanti fra le acque del Kalamas componevano le onde del fiume, ruggivano, ne ribaltavano la schiuma e si schiantavano contro le rocce, rompendosi e riformandosi, cavallone dopo cavallone.

L’immagine del Kalamas in piena, gonfio di acqua e di terra sciolta, tornò a scorrere nella mente di Romano. Lo inquadrò. Un gigantesco serpentone di fango circondato da uno spazio nero.

Romano aggrottò la fronte, restrinse le sopracciglia e si concentrò.

Sei lì.

Le dita scavarono la terra della trincea, i sassi entrarono sotto le unghie e punsero la carne dei polpastrelli.

Romano strizzò le palpebre fino a che il nero attorno al fiume non divenne un cielo bianco. In mezzo al bianco, tra le onde e gli schizzi del fiume che rovesciava le sue acque contro le rocce, una sagoma nera e sfocata, come una figura di fumo, attendeva paziente.

Lo so che sei lì da qualche parte e io ti troverò.

Romano riaprì gli occhi. Scollò le dita dalla terra, raccolse il fucile, lo strinse fra i gomiti, e lo schiacciò al petto. La guancia premeva contro la canna fredda e bagnata. La pelle graffiata dalla caduta bruciò come il sangue che gli fluiva in corpo.

Prima o poi dovrai saltare fuori per venire ad ammazzarmi.

Tornò a chiudere gli occhi. Inspirò dal naso fino a sentire i polmoni bruciare per lo sforzo, e strinse le mani attorno al suo Carcano come a volerlo spezzare in due.

Aspettò un’esplosione.

Whoom!

Ci fu il botto, la trincea tremò, la cascata di detriti sostituì la pioggia che tornò subito a innaffiargli i capelli.

Romano attese il silenzio del vuoto d’aria e slanciò le spalle in avanti, spingendosi sulle ginocchia. Si aggrappò alla parete, incastrò i piedi tra i sassi, schiacciò il petto e il viso contro la terra, e scalò a larghe bracciate la parete della trincea. Tese la mano sporca e bagnata verso il velo di fumo che rivestiva il suolo, si aggrappò a uno dei sacchi di stoffa gonfi di sabbia, e fece salire l’altra mano. Si appese ai sacchi, spinse tutto il peso sulle gambe, forzò gli addominali. Strinse i denti e divenne rosso in viso per lo sforzo.

L’esplosione che scoppiò alla sua sinistra, assieme al ruzzolare dei soldati che correvano sul campo, gli diede la carica.

Ultima spinta.

“Gnh!”

Romano fece strisciare le ginocchia contro l’orlo della trincea, stando lontano dal rotolo di filo spinato, ed emerse dal buco.

Si mise gattoni, il fucile lungo la schiena, le mani nel fango, le ginocchia in mezzo alle pietre, e i capelli gocciolanti sul viso. Nuvole di fiato grigio si gonfiavano uscendo dalle labbra, volteggiavano in aria come gli sbuffi rigettati da un grosso sigaro, e si univano alla nebbia che ricopriva il campo di battaglia.

Romano prese un’ultima boccata di fiato, si asciugò le labbra con la manica bagnata di pioggia della divisa, e si tirò in piedi.

Un capogiro lo colpì alla tempia, fece turbinare il vortice di nebbia che si strinse attorno a lui in una spirale. Romano esalò un altro respiro, e il fiato si condensò nell’aria ghiacciata che gli stringeva le ossa. I suoni attorno a lui divennero striduli, i rombi dei carri gracchiavano contro le rocce, gli spari si indebolirono, più fiochi e ovattati, le urla dei soldati si trasformarono in grida lunghe e acute: i versi di bestie selvatiche a cui stanno lacerando lo stomaco.

Il fumo si innalzò davanti a Romano. Scariche elettriche rosse arpionarono i cumuli della nebbia e si arrampicarono verso il cielo, dove il fumo si univa alle nuvole.

Le sagome nere dietro la tenda di vapore si assottigliarono. Non più forme di uomini abbracciati ai fucili e ai cannoni, ma esseri dalle gambe lunghe e scheletriche, ginocchia nodose e flesse in avanti, corpi alti e sottili da cui ricadevano braccia secche e contorte come rami spogli. Una radice di luce rossa brillò nel mezzo del fumo, accese il cielo dietro alle figure nere, brillando sui teschi che componevano i loro volti. Tre di loro si voltarono. Sotto il lampo scarlatto che aveva attraversato il cielo, gli occhi tondi e profondi si illuminarono, fossette d’ombra scavarono gli zigomi, evidenziarono i denti aguzzi che curvavano fin sotto il mento, e lungo le corna ad arco che sbucavano dalle tempie. Uno di loro schiuse i denti affilati, un getto di vapore uscì dalla sua bocca, avvolse il teschio demoniaco, e accompagnò la fuoriuscita di una lingua biforcuta, da serpe, che leccò le guance pallide e scheletriche.

Romano capì di aver smesso di respirare solo quando sentì il petto bruciare, gli arti farsi deboli, la vista vacillare, e la bocca seccarsi nonostante la pioggia che continuava a scivolare sulle labbra.

Il demone lo guardava negli occhi. Quei due buchi rossi che brillavano nel cranio gli trapassarono la fronte, raggelandogli il sangue e il respiro.

Fu un’esplosione a scuoterlo.

Scrash!

Penetrò come un fulmine nel cervello.

Romano gettò saltò sul posto e gridò per lo spavento. “Ah!”

Il fumo attorno a lui si sciolse, si squagliò a terra tornando a strisciare ai suoi piedi. Fu come se si fosse spalancata una tenda.

Soldati in corsa, scoppi che brillavano dalle artiglierie, scie di proiettili vomitati dai fucili, scrosci di onde color fango che si schiantavano contro le rive del fiume, inghiottendo rocce e uomini.

Niente demoni, niente Inferno.

Romano scrollò la testa e si diede un pugno alla tempia.

Riprese a correre in mezzo alla pioggia, tenendo le spalle chine e lo sguardo basso.

Non è il momento di mandare il cervello a farsi fottere, pensò a denti stretti, mentre il cuore decelerava il battito.

Una pozzanghera più profonda delle altre scoppiò in un’esplosione di spruzzi sotto i suoi piedi. Sciaf! Romano inciampò, agguantò il fucile che gli stava scivolando dalla spalla, e non smise di correre. Il fumo dei cannoni e il vapore della pioggia tornarono ad addensarsi attorno a lui, le ombre sfocate dei carri che avanzavano assieme alle sagome dei soldati divennero sbiadite e lontane. Gli spari sempre più ovattati, le grida sempre più flebili, le esplosioni sempre più deboli.

Romano socchiuse gli occhi, la pioggia scivolò giù dalle ciglia e dai capelli, e tornò a isolare solo lo scroscio del Kalamas che ruggiva feroce.

Devo raggiungere la riva del fiume e far gettare –

La barriera di fumo davanti a lui si divise come se si fosse sciolta.

Un’ombra nera si gonfiò davanti a Romano, i vapori scivolarono lungo il suo corpo, discesero i fianchi, le gambe, e crollarono ai suoi piedi, assorbiti da fango e rocce.

Romano piantò gli stivali inzaccherati nel fango, fermò la corsa trascinando due scie dietro di sé, e piegò le spalle per attutire la frenata e non cadere. Innalzò lo sguardo verso l’ombra, raggelò, il fiato creò un nodo in gola spesso come una sfera di ghiaccio. Romano impallidì, il fiato lo soffocò.

L’ombra si voltò di profilo.

Il teschio che sorgeva dalle spalle nere e scheletriche come ossa carbonizzate schiuse la dentatura aguzza. Fumo grigio evaporò dalla lingua biforcuta, creò un alone di vapore che circondò il cranio del demone fino alla punta delle corna a mezzaluna. Gli occhi tondi e rossi come tizzoni scavati nell’osso si accesero, si abbassarono verso Romano, la loro luce trafisse la nebbia in due spesse scie del colore del fuoco, e incontrarono il suo sguardo.

Il demone fece scendere il braccio dalla spalla scheletrica. Le tre punte a triangolo del forcone scivolarono verso il basso, e il manico di ferro nero si incastrò nel gomito della creatura.

Gli occhi di Romano, larghi e vitrei, seguirono i movimenti del forcone, senza sbattere le palpebre che già bruciavano per il fumo assorbito.

Le punte del forcone scavarono tre spazi vuoti nello strato di fumo. Il demone piegò il braccio, sollevò la spalla, inclinò la sua arma, e scie di acqua piovana grondarono dalle punte a triangolo, crollando davanti agli occhi di Romano. Un fascio di luce nacque dalla punta centrale, quella più lunga. La lama di riverbero bianco risalì il forcone. Vi scivolò sopra cancellando l’immagine dell’arma demoniaca. La sostituì un fucile. Due mani guantate reggevano il calcio e la canna umidi di pioggia, braccia tremanti fasciate dall’uniforme militare erano piegate contro i fianchi del soldato in piedi davanti a Romano. Un viso scuro e affaticato, nascosto dall’ombra dell’elmetto sporco e ammaccato, guadagnò tre sorsate d’aria dalla bocca sanguinante e incrostata di terra.

Nella confusione che ronzava in testa, violenta e scrosciante come il flusso del Kalamas, Romano calò di nuovo gli occhi sulle mani dell’uomo che aveva sostituito la presenza del demone.

L’indice entrò nell’anello del grilletto, il pollice si impennò, raggiunse la levetta del cane.

Romano sentì il fiato sbloccarsi, il sangue tornare a fluire in un’esplosione di calore.

Spalancò la bocca.

“Ah!”

Scivolò di un passo all’indietro, di scatto, mollò il fucile e gettò entrambe le mani sulla cinta nascosta dalla giacca della divisa. Incontrò il fodero della pistola.

Spara, cazzo.

Afferrò la beretta con entrambe le mani, diede uno strattone alla pistola e la sfilò dall’astuccio. Gettò le braccia in avanti, sollevò la canna. Un indice già sul grilletto, l’altra mano sotto il calcio. Spara! Romano infilò entrambi gli indici nell’anello e schiacciò il grilletto. Un lampo bianco esplose davanti a lui, e il carrello tornò a gracchiare, riportandosi in posizione di carica. Il bossolo vuoto schizzò via dalla beretta, emanando una scintilla d’argento, e finì immerso nel fango.

Quando il lampo bianco si ritirò, Romano vide il corpo del soldato torcersi all’indietro e crollare nell’abbraccio della nebbia. Un getto di sangue esplose dal suo petto, si aprì a forma di corona e schizzò accompagnando la caduta dell’uomo.

Il getto di sangue frustò la guancia di Romano, lasciò una scia rossa sullo zigomo, sotto la palpebra inferiore, che lo fece sobbalzare. Una riga di sangue colò dallo schizzo e rigò la pelle fino all’angolo della bocca. Romano mosse le labbra. Un sapore di fumo, di pioggia e di fango gli riempì le guance.

Le braccia che reggevano ancora la beretta erano flesse e ferme. Le mani salde stringevano attorno alla pistola, non tremavano, il respiro di Romano entrava e usciva dal petto a ritmo regolare, i battiti del cuore pulsavano calmi, stendevano un piacevole tepore fra le costole.

Qualcosa a terra, ai piedi di Romano, si mosse, e un rantolio basso e profondo infranse il silenzio ovattato dal fumo.

Romano ruotò gli occhi vuoti e opachi verso il basso senza muovere la testa. Il corpo del soldato si torse di lato, un braccio scavalcò il busto sanguinante e si aggrappò al fucile che era caduto accanto a lui. L’uomo schiuse le labbra, rantolò un secondo guaito, e una colata di sangue gli fuoriuscì dai denti.

Romano premette un passo in avanti, stese la sua ombra sul soldato. Calò la punta della beretta, mirò alla tempia del nemico, tornò a far scivolare un solo indice contro la leva del grilletto, e sparò alla testa.

Il lampo esplose, la beretta espulse il bossolo che disegnò una parabola e cadde tintinnando contro una roccia.

La luce dello sparo si ritirò. Lasciò solo uno strato di nebbia che volteggiava sopra il terreno di fango, e nient’altro.

Quando il fumo si dissolse, il corpo del soldato ferito era scomparso.

Romano storse un sopracciglio, una scarica di confusione spazzò via la luce appannata dagli occhi, li fece tornare lucidi e attenti, smarriti in quello sguardo che si era irrigidito più della pietra.

Sentendo la guancia ancora bagnata e appiccicosa, Romano la toccò. Portò le dita davanti al viso, e due gocce di fango colarono dai polpastrelli. Fango, non sangue.

Romano trattenne il respiro, fece un passo all’indietro, sgranò le palpebre. Il senso di paura e smarrimento fece sciogliere il terreno sotto i piedi che guadavano nel fango.

Cosa mi è successo?

L’esplosione lo colse di lato, una ventata di calore lo travolse schizzandogli addosso una cascata di sassi aguzzi e fumanti.

Romano strinse i denti, incrociò le braccia dietro la nuca – aveva ancora la pistola in mano – e corse lontano dalla ventata dello scoppio.

Scrollò il capo, si liberò dalla confusione, sentì di nuovo la pioggia martellargli la faccia e la schiena, e si fece spazio tra la coltre di fumo seguendo il rumore del fiume in piena.

Rinfoderò la beretta, sistemò il fucile sulla scapola, e raschiò via il fumo con ampi movimenti del braccio. Le sagome dei carri, dei soldati e dei cannoni puntati al cielo comparvero e sparirono, come lampeggiando. Romano si stropicciò gli occhi ma non smise di correre.

Così non riesco a vedere niente.

Un rombo più forte macinò il terreno e gli passò di fianco.

Romano voltò lo sguardo. Un carro veloce gli corse vicino a passo d’uomo, il fango teneva intrappolati i cingoli come tentacoli di colla.

Romano abbassò le spalle, piegò le ginocchia e corse stando semiaccovacciato, riparato dalla sagoma del carro che gli schizzava il fango e i detriti fino alla spalla. Romano socchiuse gli occhi e resistette a denti stretti.

Tastò di nuovo il busto, affianco all’astuccio della beretta. Cercò il manico di una bomba a mano.

Devo creare dei vuoti d’aria per scacciare via il fumo e –

Lo stivale sprofondò fino al ginocchio. Il terreno intrappolò la gamba come due labbra molli e ghiacciate che si chiudevano attorno al polpaccio.

Romano tese il ginocchio di lato, la caviglia sommersa nel pantano si flesse, e una violenta scarica di dolore trafisse l’osso, schioccando come un ramo secco che si spezza in due.

Romano si aggrappò alla gamba e cacciò un grido che fece vibrare la pioggia attorno a lui.

Aaargh!

Il dolore stridette in testa, divenne un fulmine bianco che gli accecò la vista come un pugno di ferro sbattuto in mezzo al naso.

Romano scivolò sull’altro piede, l’ombra sfocata del carro veloce dietro il quale si era nascosto si ribaltò sottosopra, e la vista si riempì del grigio del cielo.

Il terreno cedette trascinandolo in una frana di sassi e acqua che si accumulò sul fondo di un’altra trincea.

Romano vide il mondo catapultarsi davanti ai suoi occhi. Cadde di schiena, le spalle scivolarono in basso, le gambe si sollevarono spingendo il peso dei piedi verso la testa, la spina dorsale si curvò facendogli compiere una capriola all’indietro. Romano sbatté la tempia due volte su una roccia, il fango gli entrò in bocca e nel naso, il fucile scivolò dalla spalla e si ribaltò assieme a lui.

Quando Romano toccò il fondo della trincea, il mondo non aveva ancora smesso di girare, e il lampo bianco di dolore scintillava davanti agli occhi in uno sciame di lucciole impazzite.

Romano gemette. “Argh.” Una botta di nero premette il pugno contro la sua vista. Turbini di scintille bianche inghiottirono l’immagine del cielo capovolto.

 

“Devi farmi una promessa, Romano.”

Un altro paio di mani era avvolto attorno alle sue. Due paia di mani entrambe adulte strette le une nelle altre, dita deboli che gli carezzavano le nocche e la pelle del dorso.

Il viso triste di Spagna rimase basso, velato dall’ombra che gli rabbuiava gli occhi avviliti e preoccupati. La sua presa si fece più forte, Romano avvertì sottili vibrazioni passare attraverso le dita.

“Che qualunque cosa vi possa accadere, che anche se vi ritroverete un giorno separati, dalle parti opposte del campo, tu non smetterai mai di volere bene a tuo fratello.”

Gli occhi incrociavano i suoi. Profondi occhi verdi immersi nel dolore che aveva già travolto lui e che Spagna non voleva vedere riverso anche su loro due.

“Non lasciare che la guerra ti porti via la cosa più preziosa che hai,” gli disse. “Non permettere che l’odio che stiamo generando diventi così forte da strappare via l’amore che provate l’uno per l’altro.” Sollevò una mano, sciogliendola dall’abbraccio di dita, e gliela posò sulla guancia. La pelle era fredda, ma il tocco riuscì comunque a intiepidirgli il viso. “È vostro compito proteggervi a vicenda e preservare il legame che vi unisce, come vi hanno insegnato.”

Spagna tornò a chinare lo sguardo, e avvicinò la fronte all’intreccio delle loro mani che non si erano ancora divise.

“Nessuno di noi sa perché voi due continuate a vivere come un’unica nazione, senza che le vostre individualità entrino in conflitto. Nessuno di noi sa e saprà mai come facciate a esistere entrambi. Ma tu non rompere questa magia, Romano. Dimostra di essere più forte di ciò che è possibile.”

 

Romano scrollò il capo immerso nel fango e fece dondolare le gambe ancora sollevate verso lo sbuco della trincea. Acqua e terra scivolarono fra le labbra aperte, portate dentro dal respiro affaticato. La pressione sul petto si intensificò, il cuore gli faceva male a ogni battito, gli occhi bruciavano e le palpebre si fecero gonfie e nere.

“Fra... tel...”

Qualcuno rimestò il fango vicino a lui, disse qualcosa che Romano non capì. Gli spari continuavano a esplodere nascondendo le parole. Romano sbatté un occhio, guardò attraverso lo strato di fango che gocciolava dal mento – era ancora a testa ingiù – e da dietro i capelli che erano rimasti incollati al viso.

Un’ombra di demone si separò dal secondo diavolo che occupava la trincea. L’immagine distorta del teschio nero si ingrandì, i canini arcuati che spingevano sul labbro inferiore scintillavano come gli occhi tondi e rossi scavati fra le orbite del cranio.

“Oh, mio Dio, signore!”

Il nodo di paura che stringeva attorno al cuore di Romano allentò la presa, rilasciò il calore che si espanse lungo il petto.

L’ombra scivolò via dalla figura demoniaca, svelò un volto umano scurito dall’elmetto da fante, gambe e braccia gattonavano nel fango, fasciate dalla divisa italiana, e occhi in allarme che cercavano lo sguardo di Romano.

“Sta bene? Si è fatto male?”

Romano storse un sopracciglio e socchiuse la bocca per rispondere. Non ce la fece.

Il soldato si girò verso il compagno che era rimasto indietro, chino su un apparecchio portatile. Gli rivolse un cenno di mano.

“Resta alla radio, non perdere il segnale.”

L’altro annuì e rimase al suo posto, con il ricevitore a cornetta premuto contro l’orecchio.

Romano diede uno slancio con le gambe all’aria, spinse tutto il peso verso la pancia, piegandosi come un riccio, e riuscì a toccare terra con le punte dei piedi. Si ribaltò di lato, cadde di fianco e sbatté il corpo sul fucile. Non si fece male. Estrasse un braccio dal fango e si massaggiò la testa pulsante, arruffando i capelli sporchi e bagnati. Sopra di loro, le continue esplosioni fecero tremare le pareti della trincea e fecero piovere altri detriti contro la schiena di Romano.

“È ferito, signore?”

Romano si massaggiò la tempia. Una smorfia di dolore gli stropicciò il viso.

“N... no, ho solo...” Mosse la gamba che aveva ceduto prima, e il dolore alla caviglia arrivò come un morso di tagliola. Romano strinse i denti, ingoiò il dolore, e si massaggiò il cuoio dello stivale ricoperto di fango. Sollevò gli occhi, seguì le vibrazioni delle esplosioni che facevano brillare il cielo. La rabbia si sostituì al dolore. “Che cazzo stanno combinando lassù, si può sapere?” Mollò la caviglia e strisciò in avanti con le ginocchia. “Quanto potrà volerci per buttare giù le prime linee?”

Il soldato affianco a lui deglutì pesantemente. “Signore, abbiamo un problema.”

Romano gli rivolse lo sguardo.

Gli occhi del soldato si ingrigirono, la pelle sporca di fango e pioggia impallidì. “Non riusciamo a gettare le teste di ponte.”

Romano sgranò le palpebre, gli occhi si restrinsero, le pupille vacillanti vibrarono, piccole come punte di spillo. “Cosa?”

Un’esplosione stese una coperta di fumo sopra di loro che rabbuiò l’ambiente della trincea.

Romano saltò in avanti e si aggrappò al bavero del soldato, tirandolo verso di sé. Pieghe di rabbia incresparono il viso già rosso e fumante.

“State fottutamente scherzando, forse?” urlò. “È solo per quello che ci stiamo ammazzando!”

Il soldato resse l’elmetto sulla testa con una mano, e abbassò la fronte. Il timore e la soggezione gli scossero la voce. “Il guaio, signore, è che c’è troppa pioggia, e il fiume è incontrollabile, per di più i greci fanno subito saltare tutto in aria.” Ruotò gli occhi da sotto l’ombra dell’elmetto, inquadrò la coltre di fumo che galleggiava sopra di loro. Schioccò la lingua. “Continuano a distruggere ogni nostro tentativo, ed è impossibile continuare il lavoro.”

Romano serrò la mandibola, ringhiò facendo vibrare i denti e gli angoli della bocca inarcata verso il basso. Gettò il capo in disparte e mollò il bavero del soldato, facendolo sbilanciare all’indietro. “Merda!” Richiamò un pugno sul fianco, strinse fino a sentire il palmo bruciare, e scaraventò le nocche contro la parete di terra bagnata. “Porca puttana!” urlò. Schizzi di sassolini e di pioggia esplosero attorno al suo pugno.

Il soldato riprese una boccata di fiato, aggiustò il colletto della giacca tirandolo con due dita, e scoccò un’occhiata al compagno ancora chino sulla radio riparata da un telo di stoffa. Si guardarono negli occhi, annuirono entrambi.

Il soldato tornò a voltare lo sguardo e si rivolse a Romano. “Ci...” La voce tremò, l’uomo dovette ingollare un grumo di saliva per riuscire a parlare. “Ci ritiriamo, signore?”

Romano lo fulminò. “No!” Gettò il pugno in disparte – quello che aveva scaraventato contro il muro della trincea – e le nocche arrossate si sciacquarono sotto il getto della pioggia. Romano inasprì il tono, secco e feroce. “No, non me ne vado da qui fino a che non incontro quel dannato bastardo e mi faccio dire dov’è mio fratello!”

“Ma, signore, quanto...”

Un’altra esplosione lo interruppe.

Sia il soldato che Romano strizzarono gli occhi e si strinsero nelle spalle, aspettando che l’eco terminasse. La frana di detriti accompagnò la morte dello scoppio.

Il soldato strisciò sulle ginocchia, avvicinandosi a Romano. Gli mostrò sguardo umile e sincero, un palmo rivolto al cielo. “Per quanto dovremo continuare in queste condizioni? Ormai è...”

Il viso di Romano irrigidì come marmo, le guance presero fuoco, gli occhi si accesero come lampi. “Fino a quando lo decido io!” esplose, peggio di una granata.

I due soldati tornarono a guardarsi. Occhi sbarrati, affogati nello sconcerto, e visi pallidi e perplessi. L’uomo alla radio fu scosso da un brivido di terrore.

Romano squadrò entrambi con quegli occhi di fuoco. Gettò il braccio verso l’uscita della trincea, restrinse le sopracciglia infossando fini pieghe di rabbia sotto la fronte, attorno alle palpebre e alla radice del naso, e tornò a digrignare i denti. L’indice teso e annaffiato dalla pioggia battente puntava il campo di battaglia.

“Adesso voi portate il culo fuori da qui e –”

Fu come se il cielo gli fosse crollato addosso.

L’esplosione arrivata dall’alto investì tutti e tre. Romano schiacciò la nuca fra le mani e si gettò a terra, con le ginocchia rannicchiate alla pancia e il viso sommerso dal fango, a respirare l’odore di ferro e polvere.

Il boato ruggì come il tuono di un temporale, la slavina di massi e terra crollò lungo le pareti, portandosi dietro qualcosa di più grosso e pesante.

Quando i due soldati precipitarono vicino a lui, Romano sentì l’aria vibrare contro il suo orecchio.

Uno di loro gemette. “Cristo, che male!”

Qualcuno tossì.

L’eco dello scoppio stava già svanendo lontano, stava tornando il suono scrosciante del fiume e della corsa dei carri.

Romano sollevò il braccio, sbirciò da sotto il gomito piegato contro il viso, per proteggersi. Uno dei due soldati caduti si stava massaggiando il fianco poggiato al muro di terra, un’espressione di dolore gli stropicciava il volto. Il secondo soldato precipitato nella trincea strisciò verso il compagno. Non si era fatto niente, era solo sporco e bagnato, con l’elmetto scivolato di lato.

“Ferito?”

Il soldato sollevò la schiena e si guardò il fianco. Emise una smorfia. “Non lo so, forse sanguino.”

“A che punto siete con le teste di ponte?” chiese il soldato che era stato affianco a Romano. Non perse tempo.

Il soldato ferito sollevò le spalle e scosse il capo. Continuò a massaggiarsi l’anca. “Non c’è niente da fare, non stanno su.” Innalzò gli occhi verso il cielo di fumo. Schioccò la lingua fra i denti, frustrato. “Il Kalamas è un inferno. È impossibile anche far attraversare la fanteria, figuriamoci i mezzi corazzati, o i muli, o l’artiglieria.”

Romano si tirò seduto. La pioggia fluì sul suo viso che era impallidito, grigio di paura. Gli mancò il fiato.

No, non può essere finita così. Strinse i pugni. Non dopo tutto quello che ho già passato. Mi rifiuto di credere che sia stata tutta fatica vana.

Il soldato si girò verso di lui. “Signore, dobbiamo ripiegare le forze,” disse. “Ormai è impensabile distruggere la difesa greca.”

Il respiro di Romano accelerò. Romano guardò in disparte, si passò due volte la mano fra i capelli fradici e sporchi, e la tenne ferma sul capo, quasi sperando di bloccare il flusso dei pensieri che frullavano nel cranio.

Il soldato tornò ad avvicinarsi a lui strisciando sulle ginocchia. “E non possiamo nemmeno contare sul fatto che la pioggia finisca per facilitare le operazioni di costruzione dei ponti.” L’uomo guadagnò un respiro. La sua voce si fece bassa, ma più seria. “Mi dia ascolto, signore, la prego.”

Romano si girò a guardarlo.

Gli occhi dell’uomo che lo fissavano da sotto l’elmetto grondante di pioggia non mentivano, e non erano gli occhi di un uomo assalito dal panico.

“Ripieghiamoci,” insistette il soldato. “Congiungiamoci con il resto della Divisione Julia e aspettiamo i rinforzi dall’Albania.” Scosse il capo, consapevole e avvilito. “Da soli non possiamo farcela.”

Romano strinse i denti, strizzò maggiormente i pugni a terra facendo vibrare le braccia. Il petto e lo stomaco erano in subbuglio. Il cuore urlava ordinandogli di fare l’esatto contrario di quello che gli gridava la testa.

Romano chinò la fronte. Parlò a bassa voce, fra i denti ancora stretti. “No.” Scosse il capo, gettò via la voce dalla testa, ascoltando solo i battiti del cuore. “No, no, maledizione, non possiamo tornare indietro.” Sollevò gli occhi, guardò il cielo cinereo. “Potrebbe essere...”

Potrebbe essere già troppo tardi, cazzo! Non posso andare a cercare Veneziano senza nemmeno sapere dove sia stato l’ultima volta, non ho idea di dove si possa trovare. La mia unica speranza è di trovare Grecia e farmelo dire da lui.

Romano richiuse gli occhi. Rilassò i muscoli che si erano irrigiditi sotto la tensione del corpo ferito e infreddolito, riprese a respirare regolarmente, a udire i battiti calmi e profondi del cuore che scaldavano il petto.

 

Il sorriso sul viso da bambino che brillava come il sole che riscaldava il prato. Le manine tese verso di lui e il calore sprigionato dalle dita che si intrecciavano, sigillando il legame.“Fratellone.”

Le parole lontane ma sempre forti di Nonno Roma, che erano sempre rimaste chiuse al sicuro nel cuore di Romano. “La vera Italia può esistere solo se voi due restate uniti, ma senza dimenticarvi che siete entrambi importanti alla stessa maniera per il vostro paese.”

E lo sguardo dell’unica persona che riusciva a guardare negli occhi, senza sentire il bisogno di nascondersi. “Non lasciare che la guerra ti porti via la cosa più preziosa che hai. Non permettere che l’odio che stiamo generando diventi così forte da strappare via l’amore che provate l’uno per l’altro.”

 

Romano guadagnò un lungo respiro bruciante. Lo sentì fluire lungo la gola, i polmoni, e giù verso lo stomaco.

“Va bene.”

I quattro soldati nella trincea si scambiarono mutui sguardi sollevati.

Romano si tirò sulle ginocchia, raccolse il fucile, lo sistemò dietro la spalla, e guardò già in alto, verso il suo obiettivo.

“Va bene. Se devo farmi seguire da degli smidollati senza palle come voi, allora preferisco andarci da solo.”

Uno dei soldati, quello che aveva cercato di fermarlo, scosse il capo, come se avesse capito male.

“Signore, ma cosa...”

“Sono venuto fino a qui solo per trovare Grecia e spaccargli la testa,” esclamò Romano. Guardò tutti e quattro, li squadrò con un’occhiata gelida. “Attraverserò quel fiume del cazzo anche a piedi, pur di mettergli le mani addosso di persona.” Fece uno scatto verso la parete, incastrò i piedi tra le rientranze di roccia, e cominciò ad arrampicarsi.

Il soldato balzò verso di lui. “Signore, la prego, sia ragionevole. Non è possibile che –”

Lo scoppio di fumo fece arretrare il soldato. L’uomo tossì contro il braccio, strizzò le palpebre.

Quando aprì gli occhi e guardò in alto, Romano era sparito. L’uomo trattenne un gemito di frustrazione fra i denti.

“Oh, no,” mormorò uno dei soldati alle sue spalle.

Uno di loro si avvicinò, quello ferito all’anca. “Se n’è andato davvero?”

“Che...” Il soldato alla radio si era allontanato dall’apparecchio. Anche lui guardava il cielo con occhi preoccupati. “Che facciamo?”

Il soldato che aveva provato a trattenere Romano scosse il capo, sospirò. “Non abbiamo molte alternative.” Agguantò il suo fucile che era rimasto poggiato su un angolo della trincea, e borbottò fra i denti. “Dannato moccioso,” sibilò.  

Solo uno degli altri soldati lo sentì, ma non disse nulla, limitandosi a lanciargli un’occhiata perplessa.

Il soldato sistemò il suo fucile sulla schiena, strinse la cinghia contro la spalla, e guardò in alto. “Andiamo a prenderlo.” Calò l’elmetto davanti alla fronte. “Non possiamo permettere che corra pericoli.”

Gli altri annuirono all’unisono. Raccolsero le loro armi, la radio portatile, e si gettarono sul campo di battaglia, all’inseguimento di Romano.

 

   
 
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