Seconda
classificata al contest “Maternità e Guerra” di Aya88 e Urdi.
Ringrazio
molto le giudici e accludo ancora il mio apprezzamento per questa bella
iniziativa.
Accidentalmente,
questa storia tratta una tematica molto simile all’ultima che ho
pubblicato, ma è perfettamente casuale poiché sono state scritte
in periodi diversi.
Comunque
sia, buona lettura.
(Ulteriori
chiarificazioni a fondostoria.)
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A mia madre, l’occhio più
acuto e intuitivo del mondo nel cogliere la finzione, anche la più
sopraffina, quando si tratta di me; porto sicuro e accogliente nelle peggiori
tempeste.
Dust of my dust
C’era il moccioso, solo, sulla riva del lago. L’idea
subitanea e forse folle che lo colse fu che sarebbe bastato un istante, un
momento soltanto: nessuno avrebbe visto nulla, non un’anima viva se ne
sarebbe accorta. Quanto poteva impiegare a liberarsi di quello scricciolo alto
un metro e uno sputo? Pochi secondi, con una forza come la sua. Sarebbe bastato
tenergli la testa sott’acqua per qualche istante e la realtà non
sarebbe mai venuta a galla –
sorrise tra di sé di quel macabro gioco di parole, avvicinandosi al
bambino.
Una manciata di attimi e l’ultimo ostacolo che poteva
oscurare i suoi piani per l’avvenire sarebbe stato distrutto per sempre,
cancellato, e la strada per il potere aperta davanti a lui. Soltanto il tempo
di qualche respiro e addio, prezioso pupattolo. Fine
del problema.
Lo sciocchino continuava a giocherellare con dei sassi,
proprio sulla riva dello specchio d’acqua. Borbottava tra sé
– era davvero un moccioso – e non si accorgeva di nulla, preso
com’era dal suo gioco immaginario. Lui continuò ad avvicinarsi con
cautela, dissimulando la propria attenzione: poteva arrivare qualcuno,
dopotutto. Si mosse silenziosamente tra gli ultimi rami che lo separavano dal
declivio spoglio che conduceva all’acqua, e anche avanzò in modo
impercettibile – il fesso che diceva che uno zoppo non può
muoversi come chiunque altro, avrebbe voluto fosse lì in qual momento
per ingoiarsi le proprie sentenze.
E poi si bloccò di soprassalto, con un tuffo al
cuore.
Non era più solo.
L’altro fratello, il comandante, era ritto e immobile a pochi metri di distanza,
seminascosto dalle fronde delle piante. Sapeva spostarsi in un tale perfetto
silenzio che persino lui faticava a percepirlo. Difatti si fece cogliere di
sorpresa e per un istante infinitesimale non gli riuscì di mascherare la
contrarietà. Anche Itachi, comunque, non fu del tutto capace di
dominarsi. Nei suoi occhi passò fulmineo un bagliore di furia omicida,
poi ciascuno dei due rimise a posto la propria maschera di rispetto e
cooperazione.
“Itachi-san,”
salutò sussiegoso.
A quelle parole il marmocchio rizzò la testa di
scatto e sgranò gli occhi. Sussultò tanto da finire chiappe a
terra traballando comicamente, preso alla sprovvista da ben due presenze di cui
non s’era avveduto. Ma poi sorrise giulivo.
“Nii-san!”
invocò radioso, senza degnare invece lo sconosciuto di particolare
attenzione.
Itachi si voltò verso il bambino mormorando semplicemente
“Danzo sama,” in un saluto rispettoso che suonava più come
una minaccia di morte e non gli badò oltre; si buttò sul
fratellino come un falco sulla preda.
“Cosa stai facendo qui da solo, Sas’ke?”
esclamò, collerico. “Vieni subito a casa,” intimò truce,
imperioso, ed afferrò il polso del bambino dandogli un tale strattone da
fargli spiccare un balzo da terra.
Sasuke, evidentemente non abituato a quel trattamento da
parte del placido e compassato fratellone paziente, lanciò un urletto che pareva un raglio, indignato.
“Sto giocando!” si lagnò divincolandosi.
“Nii-san! Lasciami, non sono stupido!”
“Muoviti,” ringhiò Itachi, e quello
puntava i piedini in terra, facendo resistenza con tutte le proprie energie, il
viso deformato per lo sforzo, mentre Itachi non tendeva nemmeno i muscoli del
braccio per tenerlo. Danzo avrebbe quasi riso, non fosse stato consapevole di
come quell’attimo di debolezza poteva costargli la distruzione di
progetti messi a punto in mesi di accurata strategia. Non poteva essere sicuro
che Itachi avrebbe ucciso tutti finché non l’avesse fatto davvero, e al momento gli Uchiha erano
ancora ben vivi. Farsi beccare a puntare il moccioso poteva spingerlo a
boicottare l’incarico.
“Lasciami!” strillò Sasuke con un
singhiozzo di frustrazione. “Niii-san!” E
scoppiò in lacrime rabbiose nel momento in cui il suo corpo volava di
nuovo in aria per uno strattone più deciso, sconfitto. Itachi se lo
trascinò via così, in singhiozzi e furioso.
“Danzo sama,” ripeté con un cenno del
capo, anche se lui non udì la sua voce – coperta dal pianto del
pidocchio – ma vide solo il movimento delle sue labbra. Poi stava
già sparendo nella boscaglia, con quella zavorra inutile appesa alla
mano e impegnata nel fare il possibile per ostacolarlo. Danzo serrò le
labbra, irritato: era tutto vano, finché Itachi fosse stato vivo,
ovunque, suo fratello Sasuke sarebbe rimasto terreno inviolabile.
Non lo invidiava, comunque: gli strilli si sentivano ancora
da lì.
Difatti Sasuke piangeva forte, lanciando urla decisamente
inopportune: ma Itachi non lo trattava mai così e lui mica poteva sapere
che s’era preoccupato, che aveva capito cosa stava passando per la mente
di Danzo e che la sua reazione rabbiosa era stata semplicemente dettata da uno
sbocco di panico che, diversamente dal solito, non aveva potuto contenere.
Sasuke non sapeva nemmeno chi fosse, Danzo. Per lui la realtà era una
sola.
“Lasciami!” strillava tra le lacrime.
“Sei cattivo, non vuoi che mi diverta! Tu vuoi che io faccia sempre
quello che dici tu, ti odio! Lasciamiiii!” E
giù un’altra sessione di singhiozzi disperati, quasi strisciando
sul sentiero.
“Itachi!”
Il ragazzo si bloccò di scatto, immobile, colto in
flagrante da quell’allibita voce femminile a lui fin troppo nota. Sasuke
si abbandonò a peso morto, con un afflato di tragicità
decisamente teatrale, prima di tendere la mano libera in cerca d’aiuto.
“Mamma!” singhiozzò indignato.
Mikoto aveva mollato in mezzo al prato il
cesto dei panni, si stava avvicinando a loro con passo deciso.
“Ma cosa state combinando?” li apostrofò
poi esterrefatta, raccogliendo automaticamente il figlioletto da terra. Itachi
lasciò andare istantaneamente il suo polso come se fosse stato
ustionante, chinando lo sguardo con espressione grave.
“Era lì che cincischiava sulla riva del lago,”
annunciò atono. “Poteva caderci dentro,” aggiunse con tono
basso e quasi dolente.
Mikoto guardò il figlio maggiore
come se fosse stato un animale a due teste, spalancando gli eleganti occhi
neri. Sasuke, nelle sue braccia, continuava a trascinare il pianto senza troppa
convinzione, ma voltò comunque il muso corrucciato e umidiccio verso il nemico.
“Io non stavo cadendo!”
“Sei sicuro di stare bene, Itachi?”
commentò leggera Mikoto, storcendo il naso
molto poco persuasa. Lanciò un sospiro paziente, scrollando dolcemente
il secondogenito. “Finiscila, tu. Non ti ha mica accoltellato,”
ordinò, con affettuosa ironia.
Itachi scosse la testa con noncuranza, raddrizzando le
spalle.
“Sì. È che sono anche in ritardo. Al
quartier generale…” iniziò, con un che di marziale.
Mikoto gli sorrise benevola.
“Vai, allora,” suggerì, mentre si
chinava per rimettere a terra Sasuke. “E tu resta a giocare qui vicino a
me, così a tuo fratello non verrà un attacco di nervi,”
ridacchiò soave.
Sasuke storse ancora il viso in una smorfia torva e
altezzosa, lanciando al fratello maggiore uno sguardo che già suggeriva
una certa propensione di spirito vendicativa, poi zampettò via
impettito.
Mikoto sospirò, sconcertata.
“Ho generato due matti,” borbottò
scherzosamente tra sé, placida, prima di girare i tacchi e ritornare ai
suoi panni da stendere.
Alle sue spalle Itachi serrò i pugni con amarezza,
voltò la testa celando una smorfia insopprimibile di impotente
disappunto. Non lo poteva sapere, ma il viso di sua madre tradiva le stesse emozioni.
Era quasi mezzanotte quando finalmente ritornò a
casa, perciò fu estremamente stupito, avanzando silenziosamente
nell’ingresso per non disturbare i familiari, di intravedere la luce
ancora accesa in cucina. Siccome aveva comunque intenzione di mangiare
qualcosa, visto che non aveva cenato, socchiuse la porta e fece discretamente
capolino.
Mikoto era inginocchiata al tavolo della
cucina, sorrise dolcemente nella sua direzione piegando appena la testa di
lato. Gli sembrò bellissima, più di qualunque cosa avesse mai
visto, e il suo stomaco si serrò dolorosamente.
“Ti ho tenuto qualcosa in caldo,”
sussurrò lei amorevole, facendogli segno di chiudersi l’uscio alle
spalle. Itachi rimase impassibile ad annuì, facendo scattare
silenziosamente la porta prima di avanzare verso il piatto coperto.
“Grazie,” rispose sintetico, accucciandosi a
terra. “Come mai sei sveglia?” aggiunse distaccato.
Mikoto si strinse nelle spalle,
noncurante.
“Devo aver mangiato troppo a cena, non riesco a
prendere sonno,” rispose svagata. “Tuo padre invece russa
bellamente,” aggiunse, ma il suo sorriso non si allargò agli
occhi, perché suo marito e suo figlio avevano litigato e stentavano a
rivolgersi la parola.
Difatti Itachi non fece commenti, limitandosi a impugnare
le bacchette. Iniziò a mangiare composto, mentre sua madre lo osservava
con un sorriso aleggiante. La sua mano bianca ed esile, però, era
stretta a pugno sopra il tavolo e Itachi sapeva benissimo che quel gesto
significava che era inquieta per qualcosa. Non si stupì, perciò,
quando Mikoto ruppe quel familiare silenzio.
“Io vi amo tutti e due nello stesso modo,”
affermò senza riuscire a nascondere oltre il nervosismo.
Itachi sgranò gli occhi con un sussulto di sorpresa
che mascherò portando il boccone alle labbra.
“Lo so,” rispose rassicurante.
“Non potrei mai fare preferenze tra di voi,”
aggiunse lei, accorata. “Io non
ti trascuro, ma lui è più piccolo e…”
Il figlio continuò meccanicamente a mangiare,
annuendo condiscendente.
“Lo so. Perché me lo dici?”
Mikoto sospirò leggermente,
mordendosi le labbra. Il suo viso aveva un che di fremente, addolorato.
“Allora sono una cattiva madre?”
Questa volta Itachi non poté impedire a se stesso di
sollevare la testa di scatto, sferzato da quella domanda che gli fece quasi
male per il solo fatto che lei l’avesse potuta pensare. Perché se
c’era un a cosa di cui era certo era che sua madre era straordinaria,
impareggiabile e quasi divina.
“N-no,”
mormorò, la sicurezza che andava incrinandosi. “Come ti viene in
me…?”
“E allora perché non parli più con me,
Itachi? Perché non mi dici cosa ti sta succedendo?”
Lei pronunciò quelle parole con autentica angoscia –
lei, che di solito era così serena e di buonumore - e i polmoni di
Itachi si compressero, bloccandogli il respiro. Sforzò con uno spasmo
tutto il proprio viso perché restasse neutro, semplicemente sconcertato,
poi si strinse nelle spalle con una stilettata di malessere pungente.
“Assolutamente nulla,” osservò sicuro.
“Sono solo un po’ stanco, e nervoso per le responsabilità...
Lo sai,” concluse vago, aggrottando la fronte.
Il volto di Mikoto ebbe un
fremito che gli parve ancor più desolato, nel suo sguardo si
palesò schietta la delusione, ma poi annuì con le labbra serrate,
passando ripetutamente la mano sul tavolo per liberarlo da briciole
inesistenti.
“Certo,” mormorò, sforzando un sorriso
consenziente. “Lo so. E sono fiera di come ti stai comportando,”
commentò orgogliosa – a Itachi sembrò che gli desse un
pugno, anche se lei non sapeva – mentre si alzava in piedi delicata. All’ultimo
si trattenne, sporse il busto ancora piegato verso di lui fino ad avere la
testa a pochi centimetri dalla sua, parlando verso il suo orecchio.
“Comunque, sai che puoi sempre contare su di me per qualunque cosa.
Qualunque,” sussurrò.
Itachi si irrigidì, mordendo l’interno delle
proprie guance con tanta forza da sentire il sapore del sangue, ma annuì
spiccio e disegnò sulle proprie labbra un sorriso maturo e
condiscendente, un sorriso da tredicenne normale che vuole sentirsi
indipendente dalla propria mamma.
“Lo so.”
Mikoto annuì in risposta, prima di
posare sulla sua tempia un leggerissimo bacio.
“Buonanotte, mio grande,” sussurrò con
la sua adorabile smorfia d’intesa.
“Anche a te,” rispose lui, riportando gli occhi
sul piatto.
Non la guardò mentre scivolava fuori dalla porta e
continuò a fissare il piatto, perfettamente immobile, la guance come
pietra, finché i passi di lei non divennero silenzio e l’intera
casa restò muta. Il riso che andava freddandosi diventò una
macchia confusa, sempre più appannata e poi invisibile mentre una
lacrima vigliacca oltrepassava il confine della sua palpebra e scivolava lungo
la guancia, senza che ancora lui cambiasse espressione.
Poi tirò rabbiosamente un pugno al tavolo, di
scatto. Il piatto tintinnò e ad Itachi sfuggì un singhiozzo
rauco, di collera e sconfitta. Sciocca, mamma, come se non avesse potuto
parlare per una colpa di lei. Sciocca mamma che si caricava addosso la
responsabilità dei segreti di suo figlio. Gli sembrò tutto
inaccettabile, tutto quanto, Danzo e Fugaku e Madara e anche Sasuke – perché doveva avere un
fratello? Sarebbe stato tutto così semplice, se non ci fosse stato lui.
E pensandolo gli scappò un altro singhiozzo, perché non era vero.
Fuori dalla porta Mikoto si
premette la mano sulla bocca, mentre il suo corpo scosso dai sussulti si
lasciava scivolare a terra finché non rimase rannicchiata contro la
parete. Era rimasta immobile ad ascoltare, in silenzio, come se avesse saputo
che suo figlio avrebbe reagito realmente soltanto in sua assenza, e sentendolo
piangere fu tanta la pena da far scoppiare anche lei in un pianto squassante.
Restò a terra inerme, continuando a premere il palmo contro le labbra
semiaperte con ogni forza – una mano schiacciava l’altra -
perché nessun suono la tradisse. Il secondo singhiozzo di Itachi le fece
così male che, nonostante tutto il suo impegno, le sfuggì un
lamento come se fosse stata fisicamente colpita: e la sensazione era
esattamente quella.
La porta si spalancò di scatto.
“Mamma?” mormorò Itachi, e lei si
nascose il viso contro le ginocchia e si impose di rimanere immobile senza
tremare, anche se accucciata sul pavimento com’era risultava logico che
stesse piangendo. “Mamma, perché piangi?”
Mikoto dondolò leggermente avanti
e indietro, più volte, con i lunghi capelli neri come solo riparo. Non
parlò, perché non voleva che suo figlio sentisse la sua voce
spezzata, ma lo sentì chinarsi accanto a lei e poi poggiarle la mano
sulla spalla.
“Mamma,” ripeté sordo, ma a lei parve di
intuire la sua afflizione e non poté sopportare oltre.
“Che cos’hai?” rantolò. “Che
cos’hai, Itachi? Che cos’è che ti tormenta?”
singhiozzò, annichilita da una paura primordiale, istintiva e senza
nome. Tutto poteva sopportare, ma non la sofferenza dei suoi figli.
Itachi non rispose. L’unica cosa che riuscì a
fare, devastato, fu appoggiare la testa contro la sua spalla, vicino al suo
collo, e rimanere lì fermo con le labbra tra i denti e un groppo
infinito che pesava nella gola.
“E’ per…è per l’incarico di
spia, non è così?” gemette Mikoto
alzando il viso rigato di lacrime. “Sei troppo giovane per un peso
simile. Dirò a tuo padre che…”
“No!” la interruppe il ragazzo di getto,
odiandosi e odiandola per quella prospettiva salvifica che non poteva cogliere.
“No, io lo posso fare. Sono all’altezza,” continuò, soffocando
le parole risolute contro il tessuto.
Mikoto strizzò forte le palpebre.
La pelle del suo collo e il kimono erano umidi, bagnati delle lacrime di suo
figlio, ma finse di non accorgersene perché sapeva che così
voleva Itachi. Era orgoglioso, il suo ragazzo grande.
“Va bene,” sussurrò, accarezzandogli i
capelli. “Va bene, come vuoi tu.”
Non parlarono per qualche momento, ciascuno annegato nella
propria pena. Poi Itachi sollevò la testa e Mikoto
si asciugò le lacrime dal viso con il dorso della mano.
“Come siamo stupidi,” commentò, con una
melodiosa risatina sussurrata, che si fingeva priva di ansia.
Itachi resse la finzione - era un maestro, i quel campo - e
accennò un sorriso paziente.
“Tu di più,” osservò mansueto.
Mikoto ridacchiò ancora, piano, intanto
che lui si rizzava in piedi e le tendeva la mano. La madre intrecciò le
dita con le sue e si sollevò decisa, la debolezza ormai come
dimenticata. Mikoto, fragile forza.
“Adesso vado a dormire davvero,”
osservò, sbuffando ironica. Poi esitò. “Il tuo riso
è freddo. Vuoi che…?”
“Lo scaldo io. Vai, riposati,” intimò
lui, fermo e bonario.
Mikoto sorrise ancora una volta,
incamminandosi per la scale. Lui si richiuse in cucina e per prima cosa, senza
nemmeno rallentare il passo, prese il piatto e lo svuotò nella
spazzatura, mettendosi metodicamente a rimestarla con una bacchetta
perché la madre l’indomani mattina non vedesse che non aveva
finito di cenare. Si inginocchiò di nuovo davanti al tavolo e socchiuse
gli occhi stancamente, aspettando di poter di nuovo respirare.
Un piano più in alto, sostenendosi con una mano alla
parete, sua madre attendeva la stessa cosa. Incapace di dominare la
preoccupazione finì per avanzare di qualche altro passo e socchiudere
l’ultima porta. Vi si insinuò senza provocare il minimo suono, si
avvicinò al letto e benedisse il fatto che Sasuke avesse ancora un
po’ paura del buio – anche se lui sosteneva fermamente che si
trattava di un’illanazione,
senza avere la più vaga idea di cosa quella parola storpiata
significasse, ma guai a contraddirlo. Così, infatti, i pallidi raggi
lunari penetrati dalla finestra illuminavano delicatamente il suo cuscino.
Mikoto si perse nella contemplazione di
quel viso tanto simile e diverso dal suo, abbandonato pacificamente al sonno.
Lo guardò e lo studiò e ringraziò per la serenità
che sembrava emanare, almeno lui, inginocchiandosi per annusarlo. Sorrise,
rasserenata da quel mucchietto di innocenza. Che gli dei lo conservassero
sempre così, tutto capricci, sorrisi e candore.
Rimase lì per qualche minuto, beandosi della quieta
visione del figlioletto, finché non si sentì completamente
intorpidita. Soltanto a quel punto, spossata, si rimise in piedi per tornare al
talamo nuziale, dove Fugaku dormiva ignaro.
Passandovi accento trattenne lo sguardo sulla porta della stanza di Itachi, che
forse era già andato a dormire, e sperò con tutta se stessa di
poter presto ritrovare la spensieratezza anche sul bel volto del suo figlio
maggiore, sebbene l’avvenire fosse incerto – ma lei non sapeva quanto.
Si era appena chiusa l’uscio alle spalle quando
Itachi sgusciò fuori dalla cucina. Salì le scale come volando,
inudibile, e percorse senza esitare il suo stesso tragitto, varcò la
medesima soglia e ringraziò gli stessi raggi di luna. Sorrise
schiettamente dell’immagine del fratellino addormento.
Almeno tu, Sas’ke,
almeno tu devi viverla, la vita. Mi capirai.
Mikoto soffocò una risatina molto
poco opportuna nell’intravedere suo figlio scendere a balzelli le scale e
rischiare di capottarsi al penultimo gradino. Sasuke afferrò
all’ultimo il corrimano e si riassestò sulle gambe con una fugace
occhiata alla stanza deserta, arrossendo leggermente. Raddrizzò fiero le
spalle nella convinzione che l’inciampo fosse passato inosservato e zompettò beato verso la porta della cucina, oltre la
quale lei si mordeva le labbra per non ridergli in faccia.
“Vieni Sas’ke,” trillò ilare,
mascherando il divertimento con affettuosa accoglienza. “La colazione
è in tavola. Che bravo, sei il primo che arriva, oggi.”
Sasuke sorrise con aperto entusiasmo, accogliendo
distrattamente il rituale bacio mattutino della mamma sulla sua testolina
corvina – un giorno gli sarebbe dispiaciuto, di averlo ricambiato tanto
raramente – prima di avanzare orgoglioso verso la tavola imbandita.
“Sono il più veloce,” sentenziò
soddisfatto.
Mikoto annuì, ammirata.
Fugaku era uscito da più di
un’ora per andare a parlare col fratello, affermando che avrebbe mangiato
dopo aver sbrigato quell’incombenza, e Itachi era scappato prestissimo
con Shisui per un allenamento poco dopo il sorgere
del sole. Ma non era necessario che Sasuke lo sapesse. Finché la quiete
rimaneva, finché l’insurrezione non fosse scoppiata, voleva che
almeno l’innocenza gioiosa del suo bambino più piccolo fosse
preservata, visto che per il maggiore purtroppo questo non era possibile. Poi,
quando fosse stato il momento, li avrebbe difesi entrambi con le unghie e coi
denti.
“Sei proprio un ometto in gamba. Adesso mangia, ci
sono i biscotti al cioccolato,” lo blandì, pulendosi le mani nel
grembiule.
Sasuke non se lo fece ripetere: con la voracità
mattutina dei suoi otto anni si avventò sul piatto dei dolcetti,
cominciando a sgranocchiare di gusto – le briciole rimbalzavano
all’altro capo del tavolo. Fugaku sicuramente
non avrebbe apprezzato quel comportamento del suo preziosissimo secondogenito,
ma non era presente e lei voleva che suo figlio vivesse la sua infanzia, per
quanto possibile. Soltanto questo. Già troppe volte lo vedeva
malinconico, influenzato inconsapevolmente dalle tensione opprimente che regnava
in casa.
“Sas’ke…mangia composto,” lo
ammonì dolcemente.
Lui s’imbronciò istantaneamente, infossandosi
sulla tazza di tè caldo.
Fugaku scelse quel momento per entrare in
casa, fosco e spedito. Registrò con un’occhiata severa la presenza
del figlio minore, che agguantò nervosamente la bevanda calda con
entrambe le mani, quindi si sedette con espressione austera.
“Itachi?” chiese piatto.
“E’ fuori con Shisui,”
rispose lei solerte. Ma il risuonare leggero della porta che si apriva la
contraddisse istantaneamente mentre anche il suo figlio primogenito rientrava,
attirato forse dalla fame.
“Buongiorno a tutti,” esordì apatico,
prendendo posto senza guardare il padre.
“Credevo dormissi, nii-san,”
commentò Sasuke bizzoso, chiaramente contrariato dall’evidenza dei
fatti: s’era alzato per ultimo. Omaggiò il fratello grande di
un’occhiata particolarmente offesa. Era sempre il più bravo, lui,
e si era pure era alzato per primo. Era quasi caduto dalle scale per scendere
in cucina più in fretta e il nii-san
l’aveva fregato con ore di anticipo.
“Io non sono un ghiro come certi mocciosi,” lo
riprese Itachi condiscendente, agguantando svogliatamente un biscotto.
Sasuke mise su un broncio da manuale, risentito.
“Stai dritto con la schiena,”
gl’intimò il padre, grave. “Itachi, hai sistemato quella cosa
di cui avevamo parlato, ieri sera?” aggiunse freddamente.
“Sì,” rispose il figlio con lo stesso
tono impersonale.
Mikoto riuscì a non smettere di
sembrare serena, nonostante il groppo alla gola: la conversazione notturna le
risuonava ancora in mente, dolorosa, e qualunque cosa voleva tranne che Itachi
dovesse pensare tutto il tempo alla sua missione. Sapeva che ne era
all’altezza – era un portento, quel suo ragazzo – ma avrebbe
tanto voluto vederlo sorridere, solo ogni tanto.
“Mangiate, adesso,” suggerì armoniosa.
“Siamo a tavola,” precisò, con un leggerissimo cenno del
capo verso Sasuke.
Fugaku le lanciò un’occhiata
privata, ironicamente condiscendente – non sei più la guerriera
sedicenne che sembrava un maschiaccio, bella signora, sembravano dire i suoi
occhi – mentre Itachi riprendeva a mangiare.
“Sì,” confermò questi, neutro.
Lei prese posto a tavola a sua volta, soffocando un
sospiro. Desiderò accarezzargli la testa e stringerlo di nuovo a
sé, ma non era più il momento. Tutto quello che poteva fare era
sostenerlo silenziosamente, e non avrebbe mancato. Sarebbe stata dalla sua
parte, sempre.
Qualunque cosa fosse successa.
“I-Itachi,” singhiozzò.
“Itachi…perché?”
Fugaku, a terra, non si muoveva
più. Non si muoveva e anche lei non riusciva a muoversi, raggelata
dall’orrore e dall’incapacità di alzare la mano contro suo
figlio.
“Per
Sas’ke,” mormorò roco il ragazzo, senza guardarla.
“Per il suo futuro a Konoha.”
Mikoto trattenne il fiato, per appena un
secondo. Poi tutto le fu chiaro e abbandonò le braccia lungo i fianchi, consegnandosi
inerme, si lasciò cadere sulle ginocchia chiudendo gli occhi mentre la
mano di Itachi calava il kunai verso di lei.
Dalla loro parte,
sempre.
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L’ANGOLINO DELLA SUNI
Allora, partiamo dall’inizio.
Questa shot forse (di certo)
è OOC e non concorda col canon. Ma era molto
tempo che l’avevo in mente, cosi com’è – perché
la mia mente, avrete notato, pullula di immagini allegre e per niente angst.
L’idea da cui sono partita è un pensiero che
sono giunta a sviluppare col passare degli anni e che via via
si è consolidato fino a diventare una delle poche grandi certezze della
mia vita: c’è qualcosa di estremamente particolare nello status di
madre, una specie di scintilla che differenzia questo da qualunque altro
legame. E nessun figlio, nemmeno il più sagace del mondo, può
ambire ad ingannare la propria madre fino in fondo. Loro lo sentono, quando abbiamo qualcosa che non
va, è una specie di settimo o ottavo senso innato che si sviluppa con la
rottura delle acque. Spesso fanno finta di nulla per lasciarci la nostra beata
illusione di averle prese per il naso e si tengono dentro l’ansia –
tendenzialmente, infatti, sono animate da grande abnegazione nei confronti dei
pargoli – ma a volte, quando la pena è troppa, trabocca.
Da cui, questa storia.
La scena iniziale può lasciare perplessi: lascia
perplessa anche me. Ma avevo bisogno di un pretesto per far fare ad Itachi un
gesto inconsulto – la scusa necessaria a Mikoto
per affrontarlo faccia a faccia – e non mi è venuto in mente nulla
di più calzante che fargli vedere Sasuke minacciato. Sappiamo tutti che
il bene del pargolo ha portato il nostro comandante
di ghiaccio a comportamenti vagamente eccessivi, tipo massacrare tutti gli
altri membri della loro famiglia. Da quel che si è capito, comunque,
Itachi ha posto la condizione che Sasuke non venisse sfiorato nemmeno dopo la
sua partenza, quindi pare logico pensare che farlo fuori, a Danzo, non sarebbe
dispiaciuto già allora.
Due parole, infine, sulla “mia” Mikoto. Di lei sappiamo pochissimo, ma da quel poco che
s’è visto mi sono fatta di lei l’idea di una creatura dolce
e luminosa, piena di premure e al contempo un po’ pepata. Ha sposato Fugaku, quindi deve avere un bel caratterino per tenergli
testa, ed è la madre di Sasuke che non è proprio la
personificazione della misura e della razionalità. Non lo è
nemmeno Itachi, del resto. E non riesco ad immaginarla se non perdutamente
innamorata dei suoi figli. La vedo come quel genere di donna morbida che
nasconde in realtà una forza interiore impressionante, quella forza che
rende capaci di gesti che lasciano semplicemente a bocca aperta, e che al tempo
stesso sembra emanare un’allegria diffusa, discreta, anche quando magari è
triste: una donna come mia madre.
E questo è quanto.
Già che ci sono, per finire, vi faccio la lezioncina
di letteratura. Il titolo di questa one-shot, Dust of my dust (Polvere della mia
polvere), è il primo verso di una delle poesie dell’Antologia di Spoon
River di Edgar Lee Masters, Elizabeth Childers: a mio modesto parere,
La Madre in poesia. Non leggetela se
non vi piacciono le cose tristi visto che è mostruosamente drammatica.
Altrimenti ve la consiglio caldamente, perché ritengo sia un gioiello di
rara bellezza.
Come sempre, non sono affatto prolissa. Le note sono lunghe
quasi quanto la storia per puro caso.
Sayonara, gente.
[Eventuali commenti, come sempre, rallegreranno il mio
spirito di scribacchina e lo colmeranno di sincera riconoscenza.]
suni