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Autore: suni    05/04/2009    13 recensioni
Seconda classificata al contest "Maternità e guerra" di Aya88 e Urdi.
Sasuke storse ancora il viso in una smorfia torva e altezzosa, lanciando al fratello maggiore uno sguardo che già suggeriva una certa propensione di spirito vendicativa, poi zampettò via impettito.
Mikoto sospirò, sconcertata.
“Ho generato due matti,” borbottò scherzosamente tra sé, placida, prima di girare i tacchi e ritornare ai suoi panni da stendere.
Alle sue spalle Itachi serrò i pugni con amarezza, voltò la testa celando una smorfia insopprimibile di impotente disappunto. Non lo poteva sapere, ma il viso di sua madre tradiva le stesse emozioni.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Itachi, Altri, Sasuke Uchiha
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Dust of my dust, and dust with my dust

Seconda classificata al contest “Maternità e Guerra” di Aya88 e Urdi.

Ringrazio molto le giudici e accludo ancora il mio apprezzamento per questa bella iniziativa.

Accidentalmente, questa storia tratta una tematica molto simile all’ultima che ho pubblicato, ma è perfettamente casuale poiché sono state scritte in periodi diversi.

Comunque sia, buona lettura.

(Ulteriori chiarificazioni a fondostoria.)

 

 

 

 

____________________________

 

 

A mia madre, l’occhio più acuto e intuitivo del mondo nel cogliere la finzione, anche la più sopraffina, quando si tratta di me; porto sicuro e accogliente nelle peggiori tempeste.

 

 

 

Dust of my dust

 

 

 

C’era il moccioso, solo, sulla riva del lago. L’idea subitanea e forse folle che lo colse fu che sarebbe bastato un istante, un momento soltanto: nessuno avrebbe visto nulla, non un’anima viva se ne sarebbe accorta. Quanto poteva impiegare a liberarsi di quello scricciolo alto un metro e uno sputo? Pochi secondi, con una forza come la sua. Sarebbe bastato tenergli la testa sott’acqua per qualche istante e la realtà non sarebbe mai venuta a galla – sorrise tra di sé di quel macabro gioco di parole, avvicinandosi al bambino.

Una manciata di attimi e l’ultimo ostacolo che poteva oscurare i suoi piani per l’avvenire sarebbe stato distrutto per sempre, cancellato, e la strada per il potere aperta davanti a lui. Soltanto il tempo di qualche respiro e addio, prezioso pupattolo. Fine del problema.

Lo sciocchino continuava a giocherellare con dei sassi, proprio sulla riva dello specchio d’acqua. Borbottava tra sé – era davvero un moccioso – e non si accorgeva di nulla, preso com’era dal suo gioco immaginario. Lui continuò ad avvicinarsi con cautela, dissimulando la propria attenzione: poteva arrivare qualcuno, dopotutto. Si mosse silenziosamente tra gli ultimi rami che lo separavano dal declivio spoglio che conduceva all’acqua, e anche avanzò in modo impercettibile – il fesso che diceva che uno zoppo non può muoversi come chiunque altro, avrebbe voluto fosse lì in qual momento per ingoiarsi le proprie sentenze.

E poi si bloccò di soprassalto, con un tuffo al cuore.

Non era più solo.

L’altro fratello, il comandante, era ritto e immobile a pochi metri di distanza, seminascosto dalle fronde delle piante. Sapeva spostarsi in un tale perfetto silenzio che persino lui faticava a percepirlo. Difatti si fece cogliere di sorpresa e per un istante infinitesimale non gli riuscì di mascherare la contrarietà. Anche Itachi, comunque, non fu del tutto capace di dominarsi. Nei suoi occhi passò fulmineo un bagliore di furia omicida, poi ciascuno dei due rimise a posto la propria maschera di rispetto e cooperazione.

Itachi-san,” salutò sussiegoso.

A quelle parole il marmocchio rizzò la testa di scatto e sgranò gli occhi. Sussultò tanto da finire chiappe a terra traballando comicamente, preso alla sprovvista da ben due presenze di cui non s’era avveduto. Ma poi sorrise giulivo.

Nii-san!” invocò radioso, senza degnare invece lo sconosciuto di particolare attenzione.

Itachi si voltò verso il bambino mormorando semplicemente “Danzo sama,” in un saluto rispettoso che suonava più come una minaccia di morte e non gli badò oltre; si buttò sul fratellino come un falco sulla preda.

“Cosa stai facendo qui da solo, Sas’ke?” esclamò, collerico. “Vieni subito a casa,” intimò truce, imperioso, ed afferrò il polso del bambino dandogli un tale strattone da fargli spiccare un balzo da terra.

Sasuke, evidentemente non abituato a quel trattamento da parte del placido e compassato fratellone paziente, lanciò un urletto che pareva un raglio, indignato.

“Sto giocando!” si lagnò divincolandosi. “Nii-san! Lasciami, non sono stupido!”

“Muoviti,” ringhiò Itachi, e quello puntava i piedini in terra, facendo resistenza con tutte le proprie energie, il viso deformato per lo sforzo, mentre Itachi non tendeva nemmeno i muscoli del braccio per tenerlo. Danzo avrebbe quasi riso, non fosse stato consapevole di come quell’attimo di debolezza poteva costargli la distruzione di progetti messi a punto in mesi di accurata strategia. Non poteva essere sicuro che Itachi avrebbe ucciso tutti finché non l’avesse fatto davvero, e al momento gli Uchiha erano ancora ben vivi. Farsi beccare a puntare il moccioso poteva spingerlo a boicottare l’incarico.

“Lasciami!” strillò Sasuke con un singhiozzo di frustrazione. “Niii-san!” E scoppiò in lacrime rabbiose nel momento in cui il suo corpo volava di nuovo in aria per uno strattone più deciso, sconfitto. Itachi se lo trascinò via così, in singhiozzi e furioso.

“Danzo sama,” ripeté con un cenno del capo, anche se lui non udì la sua voce – coperta dal pianto del pidocchio – ma vide solo il movimento delle sue labbra. Poi stava già sparendo nella boscaglia, con quella zavorra inutile appesa alla mano e impegnata nel fare il possibile per ostacolarlo. Danzo serrò le labbra, irritato: era tutto vano, finché Itachi fosse stato vivo, ovunque, suo fratello Sasuke sarebbe rimasto terreno inviolabile.

Non lo invidiava, comunque: gli strilli si sentivano ancora da lì.

Difatti Sasuke piangeva forte, lanciando urla decisamente inopportune: ma Itachi non lo trattava mai così e lui mica poteva sapere che s’era preoccupato, che aveva capito cosa stava passando per la mente di Danzo e che la sua reazione rabbiosa era stata semplicemente dettata da uno sbocco di panico che, diversamente dal solito, non aveva potuto contenere. Sasuke non sapeva nemmeno chi fosse, Danzo. Per lui la realtà era una sola.

“Lasciami!” strillava tra le lacrime. “Sei cattivo, non vuoi che mi diverta! Tu vuoi che io faccia sempre quello che dici tu, ti odio! Lasciamiiii!” E giù un’altra sessione di singhiozzi disperati, quasi strisciando sul sentiero.

“Itachi!”

Il ragazzo si bloccò di scatto, immobile, colto in flagrante da quell’allibita voce femminile a lui fin troppo nota. Sasuke si abbandonò a peso morto, con un afflato di tragicità decisamente teatrale, prima di tendere la mano libera in cerca d’aiuto.

“Mamma!” singhiozzò indignato.

Mikoto aveva mollato in mezzo al prato il cesto dei panni, si stava avvicinando a loro con passo deciso.

“Ma cosa state combinando?” li apostrofò poi esterrefatta, raccogliendo automaticamente il figlioletto da terra. Itachi lasciò andare istantaneamente il suo polso come se fosse stato ustionante, chinando lo sguardo con espressione grave.

“Era lì che cincischiava sulla riva del lago,” annunciò atono. “Poteva caderci dentro,” aggiunse con tono basso e quasi dolente.

Mikoto guardò il figlio maggiore come se fosse stato un animale a due teste, spalancando gli eleganti occhi neri. Sasuke, nelle sue braccia, continuava a trascinare il pianto senza troppa convinzione, ma voltò comunque il muso corrucciato e umidiccio verso il nemico.

“Io non stavo cadendo!”

“Sei sicuro di stare bene, Itachi?” commentò leggera Mikoto, storcendo il naso molto poco persuasa. Lanciò un sospiro paziente, scrollando dolcemente il secondogenito. “Finiscila, tu. Non ti ha mica accoltellato,” ordinò, con affettuosa ironia.

Itachi scosse la testa con noncuranza, raddrizzando le spalle.

“Sì. È che sono anche in ritardo. Al quartier generale…” iniziò, con un che di marziale.

Mikoto gli sorrise benevola.

“Vai, allora,” suggerì, mentre si chinava per rimettere a terra Sasuke. “E tu resta a giocare qui vicino a me, così a tuo fratello non verrà un attacco di nervi,” ridacchiò soave.

Sasuke storse ancora il viso in una smorfia torva e altezzosa, lanciando al fratello maggiore uno sguardo che già suggeriva una certa propensione di spirito vendicativa, poi zampettò via impettito.

Mikoto sospirò, sconcertata.

“Ho generato due matti,” borbottò scherzosamente tra sé, placida, prima di girare i tacchi e ritornare ai suoi panni da stendere.

Alle sue spalle Itachi serrò i pugni con amarezza, voltò la testa celando una smorfia insopprimibile di impotente disappunto. Non lo poteva sapere, ma il viso di sua madre tradiva le stesse emozioni.

 

 

Era quasi mezzanotte quando finalmente ritornò a casa, perciò fu estremamente stupito, avanzando silenziosamente nell’ingresso per non disturbare i familiari, di intravedere la luce ancora accesa in cucina. Siccome aveva comunque intenzione di mangiare qualcosa, visto che non aveva cenato, socchiuse la porta e fece discretamente capolino.

Mikoto era inginocchiata al tavolo della cucina, sorrise dolcemente nella sua direzione piegando appena la testa di lato. Gli sembrò bellissima, più di qualunque cosa avesse mai visto, e il suo stomaco si serrò dolorosamente.

“Ti ho tenuto qualcosa in caldo,” sussurrò lei amorevole, facendogli segno di chiudersi l’uscio alle spalle. Itachi rimase impassibile ad annuì, facendo scattare silenziosamente la porta prima di avanzare verso il piatto coperto.

“Grazie,” rispose sintetico, accucciandosi a terra. “Come mai sei sveglia?” aggiunse distaccato.

Mikoto si strinse nelle spalle, noncurante.

“Devo aver mangiato troppo a cena, non riesco a prendere sonno,” rispose svagata. “Tuo padre invece russa bellamente,” aggiunse, ma il suo sorriso non si allargò agli occhi, perché suo marito e suo figlio avevano litigato e stentavano a rivolgersi la parola.

Difatti Itachi non fece commenti, limitandosi a impugnare le bacchette. Iniziò a mangiare composto, mentre sua madre lo osservava con un sorriso aleggiante. La sua mano bianca ed esile, però, era stretta a pugno sopra il tavolo e Itachi sapeva benissimo che quel gesto significava che era inquieta per qualcosa. Non si stupì, perciò, quando Mikoto ruppe quel familiare silenzio.

“Io vi amo tutti e due nello stesso modo,” affermò senza riuscire a nascondere oltre il nervosismo.

Itachi sgranò gli occhi con un sussulto di sorpresa che mascherò portando il boccone alle labbra.

“Lo so,” rispose rassicurante.

“Non potrei mai fare preferenze tra di voi,” aggiunse lei, accorata. “Io non ti trascuro, ma lui è più piccolo e…”

Il figlio continuò meccanicamente a mangiare, annuendo condiscendente.

“Lo so. Perché me lo dici?”

Mikoto sospirò leggermente, mordendosi le labbra. Il suo viso aveva un che di fremente, addolorato.

“Allora sono una cattiva madre?”

Questa volta Itachi non poté impedire a se stesso di sollevare la testa di scatto, sferzato da quella domanda che gli fece quasi male per il solo fatto che lei l’avesse potuta pensare. Perché se c’era un a cosa di cui era certo era che sua madre era straordinaria, impareggiabile e quasi divina.

N-no,” mormorò, la sicurezza che andava incrinandosi. “Come ti viene in me…?”

“E allora perché non parli più con me, Itachi? Perché non mi dici cosa ti sta succedendo?”

Lei pronunciò quelle parole con autentica angoscia – lei, che di solito era così serena e di buonumore - e i polmoni di Itachi si compressero, bloccandogli il respiro. Sforzò con uno spasmo tutto il proprio viso perché restasse neutro, semplicemente sconcertato, poi si strinse nelle spalle con una stilettata di malessere pungente.

“Assolutamente nulla,” osservò sicuro. “Sono solo un po’ stanco, e nervoso per le responsabilità... Lo sai,” concluse vago, aggrottando la fronte.

Il volto di Mikoto ebbe un fremito che gli parve ancor più desolato, nel suo sguardo si palesò schietta la delusione, ma poi annuì con le labbra serrate, passando ripetutamente la mano sul tavolo per liberarlo da briciole inesistenti.

“Certo,” mormorò, sforzando un sorriso consenziente. “Lo so. E sono fiera di come ti stai comportando,” commentò orgogliosa – a Itachi sembrò che gli desse un pugno, anche se lei non sapeva – mentre si alzava in piedi delicata. All’ultimo si trattenne, sporse il busto ancora piegato verso di lui fino ad avere la testa a pochi centimetri dalla sua, parlando verso il suo orecchio. “Comunque, sai che puoi sempre contare su di me per qualunque cosa. Qualunque,” sussurrò.

Itachi si irrigidì, mordendo l’interno delle proprie guance con tanta forza da sentire il sapore del sangue, ma annuì spiccio e disegnò sulle proprie labbra un sorriso maturo e condiscendente, un sorriso da tredicenne normale che vuole sentirsi indipendente dalla propria mamma.

“Lo so.”

Mikoto annuì in risposta, prima di posare sulla sua tempia un leggerissimo bacio.

“Buonanotte, mio grande,” sussurrò con la sua adorabile smorfia d’intesa.

“Anche a te,” rispose lui, riportando gli occhi sul piatto.

Non la guardò mentre scivolava fuori dalla porta e continuò a fissare il piatto, perfettamente immobile, la guance come pietra, finché i passi di lei non divennero silenzio e l’intera casa restò muta. Il riso che andava freddandosi diventò una macchia confusa, sempre più appannata e poi invisibile mentre una lacrima vigliacca oltrepassava il confine della sua palpebra e scivolava lungo la guancia, senza che ancora lui cambiasse espressione.

Poi tirò rabbiosamente un pugno al tavolo, di scatto. Il piatto tintinnò e ad Itachi sfuggì un singhiozzo rauco, di collera e sconfitta. Sciocca, mamma, come se non avesse potuto parlare per una colpa di lei. Sciocca mamma che si caricava addosso la responsabilità dei segreti di suo figlio. Gli sembrò tutto inaccettabile, tutto quanto, Danzo e Fugaku e Madara e anche Sasuke – perché doveva avere un fratello? Sarebbe stato tutto così semplice, se non ci fosse stato lui. E pensandolo gli scappò un altro singhiozzo, perché non era vero.

Fuori dalla porta Mikoto si premette la mano sulla bocca, mentre il suo corpo scosso dai sussulti si lasciava scivolare a terra finché non rimase rannicchiata contro la parete. Era rimasta immobile ad ascoltare, in silenzio, come se avesse saputo che suo figlio avrebbe reagito realmente soltanto in sua assenza, e sentendolo piangere fu tanta la pena da far scoppiare anche lei in un pianto squassante. Restò a terra inerme, continuando a premere il palmo contro le labbra semiaperte con ogni forza – una mano schiacciava l’altra - perché nessun suono la tradisse. Il secondo singhiozzo di Itachi le fece così male che, nonostante tutto il suo impegno, le sfuggì un lamento come se fosse stata fisicamente colpita: e la sensazione era esattamente quella.

La porta si spalancò di scatto.

“Mamma?” mormorò Itachi, e lei si nascose il viso contro le ginocchia e si impose di rimanere immobile senza tremare, anche se accucciata sul pavimento com’era risultava logico che stesse piangendo. “Mamma, perché piangi?”

Mikoto dondolò leggermente avanti e indietro, più volte, con i lunghi capelli neri come solo riparo. Non parlò, perché non voleva che suo figlio sentisse la sua voce spezzata, ma lo sentì chinarsi accanto a lei e poi poggiarle la mano sulla spalla.

“Mamma,” ripeté sordo, ma a lei parve di intuire la sua afflizione e non poté sopportare oltre.

“Che cos’hai?” rantolò. “Che cos’hai, Itachi? Che cos’è che ti tormenta?” singhiozzò, annichilita da una paura primordiale, istintiva e senza nome. Tutto poteva sopportare, ma non la sofferenza dei suoi figli.

Itachi non rispose. L’unica cosa che riuscì a fare, devastato, fu appoggiare la testa contro la sua spalla, vicino al suo collo, e rimanere lì fermo con le labbra tra i denti e un groppo infinito che pesava nella gola.

“E’ per…è per l’incarico di spia, non è così?” gemette Mikoto alzando il viso rigato di lacrime. “Sei troppo giovane per un peso simile. Dirò a tuo padre che…”

“No!” la interruppe il ragazzo di getto, odiandosi e odiandola per quella prospettiva salvifica che non poteva cogliere. “No, io lo posso fare. Sono all’altezza,” continuò, soffocando le parole risolute contro il tessuto.

Mikoto strizzò forte le palpebre. La pelle del suo collo e il kimono erano umidi, bagnati delle lacrime di suo figlio, ma finse di non accorgersene perché sapeva che così voleva Itachi. Era orgoglioso, il suo ragazzo grande.

“Va bene,” sussurrò, accarezzandogli i capelli. “Va bene, come vuoi tu.”

Non parlarono per qualche momento, ciascuno annegato nella propria pena. Poi Itachi sollevò la testa e Mikoto si asciugò le lacrime dal viso con il dorso della mano.

“Come siamo stupidi,” commentò, con una melodiosa risatina sussurrata, che si fingeva priva di ansia.

Itachi resse la finzione - era un maestro, i quel campo - e accennò un sorriso paziente.

“Tu di più,” osservò mansueto.

Mikoto ridacchiò ancora, piano, intanto che lui si rizzava in piedi e le tendeva la mano. La madre intrecciò le dita con le sue e si sollevò decisa, la debolezza ormai come dimenticata. Mikoto, fragile forza.

“Adesso vado a dormire davvero,” osservò, sbuffando ironica. Poi esitò. “Il tuo riso è freddo. Vuoi che…?”

“Lo scaldo io. Vai, riposati,” intimò lui, fermo e bonario.

Mikoto sorrise ancora una volta, incamminandosi per la scale. Lui si richiuse in cucina e per prima cosa, senza nemmeno rallentare il passo, prese il piatto e lo svuotò nella spazzatura, mettendosi metodicamente a rimestarla con una bacchetta perché la madre l’indomani mattina non vedesse che non aveva finito di cenare. Si inginocchiò di nuovo davanti al tavolo e socchiuse gli occhi stancamente, aspettando di poter di nuovo respirare.

Un piano più in alto, sostenendosi con una mano alla parete, sua madre attendeva la stessa cosa. Incapace di dominare la preoccupazione finì per avanzare di qualche altro passo e socchiudere l’ultima porta. Vi si insinuò senza provocare il minimo suono, si avvicinò al letto e benedisse il fatto che Sasuke avesse ancora un po’ paura del buio – anche se lui sosteneva fermamente che si trattava di un’illanazione, senza avere la più vaga idea di cosa quella parola storpiata significasse, ma guai a contraddirlo. Così, infatti, i pallidi raggi lunari penetrati dalla finestra illuminavano delicatamente il suo cuscino.

Mikoto si perse nella contemplazione di quel viso tanto simile e diverso dal suo, abbandonato pacificamente al sonno. Lo guardò e lo studiò e ringraziò per la serenità che sembrava emanare, almeno lui, inginocchiandosi per annusarlo. Sorrise, rasserenata da quel mucchietto di innocenza. Che gli dei lo conservassero sempre così, tutto capricci, sorrisi e candore.

Rimase lì per qualche minuto, beandosi della quieta visione del figlioletto, finché non si sentì completamente intorpidita. Soltanto a quel punto, spossata, si rimise in piedi per tornare al talamo nuziale, dove Fugaku dormiva ignaro. Passandovi accento trattenne lo sguardo sulla porta della stanza di Itachi, che forse era già andato a dormire, e sperò con tutta se stessa di poter presto ritrovare la spensieratezza anche sul bel volto del suo figlio maggiore, sebbene l’avvenire fosse incerto – ma lei non sapeva quanto.

Si era appena chiusa l’uscio alle spalle quando Itachi sgusciò fuori dalla cucina. Salì le scale come volando, inudibile, e percorse senza esitare il suo stesso tragitto, varcò la medesima soglia e ringraziò gli stessi raggi di luna. Sorrise schiettamente dell’immagine del fratellino addormento.

Almeno tu, Sas’ke, almeno tu devi viverla, la vita. Mi capirai.

 

 

Mikoto soffocò una risatina molto poco opportuna nell’intravedere suo figlio scendere a balzelli le scale e rischiare di capottarsi al penultimo gradino. Sasuke afferrò all’ultimo il corrimano e si riassestò sulle gambe con una fugace occhiata alla stanza deserta, arrossendo leggermente. Raddrizzò fiero le spalle nella convinzione che l’inciampo fosse passato inosservato e zompettò beato verso la porta della cucina, oltre la quale lei si mordeva le labbra per non ridergli in faccia.

“Vieni Sas’ke,” trillò ilare, mascherando il divertimento con affettuosa accoglienza. “La colazione è in tavola. Che bravo, sei il primo che arriva, oggi.”

Sasuke sorrise con aperto entusiasmo, accogliendo distrattamente il rituale bacio mattutino della mamma sulla sua testolina corvina – un giorno gli sarebbe dispiaciuto, di averlo ricambiato tanto raramente – prima di avanzare orgoglioso verso la tavola imbandita.

“Sono il più veloce,” sentenziò soddisfatto.

Mikoto annuì, ammirata.

Fugaku era uscito da più di un’ora per andare a parlare col fratello, affermando che avrebbe mangiato dopo aver sbrigato quell’incombenza, e Itachi era scappato prestissimo con Shisui per un allenamento poco dopo il sorgere del sole. Ma non era necessario che Sasuke lo sapesse. Finché la quiete rimaneva, finché l’insurrezione non fosse scoppiata, voleva che almeno l’innocenza gioiosa del suo bambino più piccolo fosse preservata, visto che per il maggiore purtroppo questo non era possibile. Poi, quando fosse stato il momento, li avrebbe difesi entrambi con le unghie e coi denti.

“Sei proprio un ometto in gamba. Adesso mangia, ci sono i biscotti al cioccolato,” lo blandì, pulendosi le mani nel grembiule.

Sasuke non se lo fece ripetere: con la voracità mattutina dei suoi otto anni si avventò sul piatto dei dolcetti, cominciando a sgranocchiare di gusto – le briciole rimbalzavano all’altro capo del tavolo. Fugaku sicuramente non avrebbe apprezzato quel comportamento del suo preziosissimo secondogenito, ma non era presente e lei voleva che suo figlio vivesse la sua infanzia, per quanto possibile. Soltanto questo. Già troppe volte lo vedeva malinconico, influenzato inconsapevolmente dalle tensione opprimente che regnava in casa.

“Sas’ke…mangia composto,” lo ammonì dolcemente.

Lui s’imbronciò istantaneamente, infossandosi sulla tazza di tè caldo.

Fugaku scelse quel momento per entrare in casa, fosco e spedito. Registrò con un’occhiata severa la presenza del figlio minore, che agguantò nervosamente la bevanda calda con entrambe le mani, quindi si sedette con espressione austera.

“Itachi?” chiese piatto.

“E’ fuori con Shisui,” rispose lei solerte. Ma il risuonare leggero della porta che si apriva la contraddisse istantaneamente mentre anche il suo figlio primogenito rientrava, attirato forse dalla fame.

“Buongiorno a tutti,” esordì apatico, prendendo posto senza guardare il padre.

“Credevo dormissi, nii-san,” commentò Sasuke bizzoso, chiaramente contrariato dall’evidenza dei fatti: s’era alzato per ultimo. Omaggiò il fratello grande di un’occhiata particolarmente offesa. Era sempre il più bravo, lui, e si era pure era alzato per primo. Era quasi caduto dalle scale per scendere in cucina più in fretta e il nii-san l’aveva fregato con ore di anticipo.

“Io non sono un ghiro come certi mocciosi,” lo riprese Itachi condiscendente, agguantando svogliatamente un biscotto.

Sasuke mise su un broncio da manuale, risentito.

“Stai dritto con la schiena,” gl’intimò il padre, grave. “Itachi, hai sistemato quella cosa di cui avevamo parlato, ieri sera?” aggiunse freddamente.

“Sì,” rispose il figlio con lo stesso tono impersonale.

Mikoto riuscì a non smettere di sembrare serena, nonostante il groppo alla gola: la conversazione notturna le risuonava ancora in mente, dolorosa, e qualunque cosa voleva tranne che Itachi dovesse pensare tutto il tempo alla sua missione. Sapeva che ne era all’altezza – era un portento, quel suo ragazzo – ma avrebbe tanto voluto vederlo sorridere, solo ogni tanto.

“Mangiate, adesso,” suggerì armoniosa. “Siamo a tavola,” precisò, con un leggerissimo cenno del capo verso Sasuke.

Fugaku le lanciò un’occhiata privata, ironicamente condiscendente – non sei più la guerriera sedicenne che sembrava un maschiaccio, bella signora, sembravano dire i suoi occhi – mentre Itachi riprendeva a mangiare.

“Sì,” confermò questi, neutro.

Lei prese posto a tavola a sua volta, soffocando un sospiro. Desiderò accarezzargli la testa e stringerlo di nuovo a sé, ma non era più il momento. Tutto quello che poteva fare era sostenerlo silenziosamente, e non avrebbe mancato. Sarebbe stata dalla sua parte, sempre.

Qualunque cosa fosse successa.

 

 

I-Itachi,” singhiozzò. “Itachi…perché?”

Fugaku, a terra, non si muoveva più. Non si muoveva e anche lei non riusciva a muoversi, raggelata dall’orrore e dall’incapacità di alzare la mano contro suo figlio.

“Per Sas’ke,” mormorò roco il ragazzo, senza guardarla. “Per il suo futuro a Konoha.”

Mikoto trattenne il fiato, per appena un secondo. Poi tutto le fu chiaro e abbandonò le braccia lungo i fianchi, consegnandosi inerme, si lasciò cadere sulle ginocchia chiudendo gli occhi mentre la mano di Itachi calava il kunai verso di lei.

Dalla loro parte, sempre.

 

 

 

 

                                            

 

 

 

 

________________________________________

 

 

 

 

 

L’ANGOLINO DELLA SUNI

 

Allora, partiamo dall’inizio.

Questa shot forse (di certo) è OOC e non concorda col canon. Ma era molto tempo che l’avevo in mente, cosi com’è – perché la mia mente, avrete notato, pullula di immagini allegre e per niente angst.

L’idea da cui sono partita è un pensiero che sono giunta a sviluppare col passare degli anni e che via via si è consolidato fino a diventare una delle poche grandi certezze della mia vita: c’è qualcosa di estremamente particolare nello status di madre, una specie di scintilla che differenzia questo da qualunque altro legame. E nessun figlio, nemmeno il più sagace del mondo, può ambire ad ingannare la propria madre fino in fondo. Loro lo sentono, quando abbiamo qualcosa che non va, è una specie di settimo o ottavo senso innato che si sviluppa con la rottura delle acque. Spesso fanno finta di nulla per lasciarci la nostra beata illusione di averle prese per il naso e si tengono dentro l’ansia – tendenzialmente, infatti, sono animate da grande abnegazione nei confronti dei pargoli – ma a volte, quando la pena è troppa, trabocca.

Da cui, questa storia.

La scena iniziale può lasciare perplessi: lascia perplessa anche me. Ma avevo bisogno di un pretesto per far fare ad Itachi un gesto inconsulto – la scusa necessaria a Mikoto per affrontarlo faccia a faccia – e non mi è venuto in mente nulla di più calzante che fargli vedere Sasuke minacciato. Sappiamo tutti che il bene del pargolo ha portato il nostro comandante di ghiaccio a comportamenti vagamente eccessivi, tipo massacrare tutti gli altri membri della loro famiglia. Da quel che si è capito, comunque, Itachi ha posto la condizione che Sasuke non venisse sfiorato nemmeno dopo la sua partenza, quindi pare logico pensare che farlo fuori, a Danzo, non sarebbe dispiaciuto già allora.

Due parole, infine, sulla “mia” Mikoto. Di lei sappiamo pochissimo, ma da quel poco che s’è visto mi sono fatta di lei l’idea di una creatura dolce e luminosa, piena di premure e al contempo un po’ pepata. Ha sposato Fugaku, quindi deve avere un bel caratterino per tenergli testa, ed è la madre di Sasuke che non è proprio la personificazione della misura e della razionalità. Non lo è nemmeno Itachi, del resto. E non riesco ad immaginarla se non perdutamente innamorata dei suoi figli. La vedo come quel genere di donna morbida che nasconde in realtà una forza interiore impressionante, quella forza che rende capaci di gesti che lasciano semplicemente a bocca aperta, e che al tempo stesso sembra emanare un’allegria diffusa, discreta, anche quando magari è triste: una donna come mia madre.

E questo è quanto.

 

Già che ci sono, per finire, vi faccio la lezioncina di letteratura. Il titolo di questa one-shot, Dust of my dust (Polvere della mia polvere), è il primo verso di una delle poesie dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, Elizabeth Childers: a mio modesto parere, La Madre in poesia. Non leggetela se non vi piacciono le cose tristi visto che è mostruosamente drammatica. Altrimenti ve la consiglio caldamente, perché ritengo sia un gioiello di rara bellezza.

 

Come sempre, non sono affatto prolissa. Le note sono lunghe quasi quanto la storia per puro caso.

 

Sayonara, gente.

 

[Eventuali commenti, come sempre, rallegreranno il mio spirito di scribacchina e lo colmeranno di sincera riconoscenza.]

 

suni

 

   
 
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