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Autore: LondonRiver16    19/04/2016    4 recensioni
Avevo cominciato a fantasticare sul giorno in cui l’avrei rivista ancora prima che la vera attesa avesse inizio.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Brittany Pierce, Santana Lopez | Coppie: Brittany/Santana
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Questo è solo un sogno. Un sogno che ho di continuo, ad occhi aperti più che nell’universo onirico. Un sogno che inseguo, nutro, su cui insisto anche senza volerlo, aspettando che la pazienza di vederlo realizzato venga premiata dal tempo.

Se sei capitata qui a leggermi, ti ringrazio e mi auguro che queste tre paginette possano lasciarti qualcosa :*

 

a.

 

 

 

Sogni d’aprile

 

Avevo cominciato a fantasticare sul giorno in cui l’avrei rivista ancora prima che la vera attesa avesse inizio. Avevo cominciato a farlo poco oltre la metà di aprile, pur sapendo che ci saremmo ritrovate per un paio di giorni agli inizi di maggio, per festeggiare il nostro anniversario prima che una dura prova chiamasse alle armi tutta la nostra forza e il nostro impegno: l’ennesima separazione forzata, questa volta propensa a durare due mesi, o forse di più. Ancora non lo sapevamo con precisione.

Avevo cominciato a pensarci, dicevo, molto tempo prima di quanto fosse lecito o salutare, senza nemmeno preoccuparmi del fatto che avrebbe potuto farmi male quanto bene. Giustizia morale e salute mentale erano due delle priorità i cui vincoli ero stata costretta ad allentare quando mi ero resa conto di essere follemente, perdutamente, stupidamente innamorata di lei.

Con una relazione a distanza tanto sofferta, mi era sempre apparso inevitabile perdermi in fantasie sul prossimo sorriso goduto dal vivo, sulla prossima corsa da spiccare fino a fermarmi tra le sue braccia, sul prossimo abbraccio da culminare in quel prossimo primo bacio. Un nuovo respiro che ogni volta sapeva restituirmi alla parte migliore della mia vita.

Perciò in quel momento, verso fine aprile, oberata dal pensiero degli esami, la mia immaginazione si era arresa al sogno dell’estate in procinto di scoppiare. No, meglio: al sogno di quel giorno. Di quel preciso istante. Quel momento meravigliosamente perfetto che viene a compimento oggi – oggi – non appena mi sveglio e apro gli occhi sul piccolo, confortevole mondo della mia stanza.

Già. Oggi è quel giorno d’estate.

E non l’estate degli esami di fine semestre, del calore cocente dei venti minuti di pausa dallo studio a mezzogiorno, delle sale studio affollate solo del ricordo degli studenti fuori sede già ripartiti per trascorrere le vacanze nelle città dei propri natali.

Sto parlando di luglio. Sto parlando della miracolosa brezza fresca di un mattino di gioia, da trascorrere saltando sul letto tra un preparativo e l’altro. Sto parlando dell’alba che l’ha vista salire su un treno diretto qui, qui da me. Sto parlando del giorno che mi vedrà andare a prenderla in stazione.

Mi alzo e mi preparo senza fretta, rallentando col mio fare indolente le canzoni che scelgo dal computer. Svegliarmi presto è stata una scelta, malgrado l’arrivo del suo treno non sia previsto prima di mezzogiorno e mezzo. Nient’altro che una delle mie consumate strategie, istintive e ormai automatizzate, che mi permette di godere più a lungo possibile delle migliori ore di sempre. Il mio sabato del villaggio tutto personale, una dolcissima attesa nella felicità che minaccia di farmi scoppiare il cuore.

Dopo essermi lavata, seguo i passi delle mie fantasie, quelle di aprile.

Avevo immaginato quale vestito mettermi, con quali scarpe abbinarlo, come truccarmi, quali orecchini indossare e come acconciarmi i capelli, e non rinuncio a un singolo dettaglio tra quelli che ho stampati in testa da mesi. La giornata che mi attende fuori è esattamente quella promessa dai miei sogni primaverili: serena, con solo qualche spruzzo di nuvole spumose ai lati del cielo, con una promessa di un calore piacevole, da gelato, e un venticello da capelli legati.

Allora obbedisco alle mie agognate congetture. Mi infilo il mio vestitino più leggero, uno strato impercettibile di stoffa scura punteggiata di fiori dai colori caldi tra cui primeggia il borgogna – il suo colore preferito. È stretto in vita da un elastico che mi ricorda il vestiario comodo di quando ero bambina, ma le piccole borchie che corrono attorno al collo, fino a incrociarsi sulla scollatura, annullano ogni infantilismo. Ai piedi metto i miei sandali più semplici, quelli bassi, di pelle.

Torno in bagno e mi approprio dell’ombretto color vinaccia e del mascara. Sulle labbra solo del burrocacao. Per quando sarò arrivata non ci sarà più, e lei preferisce così. Ora gli orecchini. Scelgo il paio che mi ha regalato lei, non importa se fanno male. Infine raccolgo i lunghi capelli biondi in una treccia che faccio partire dalla nuca e ricadere sulla spalla destra e sul seno.

Osservo la mia immagine allo specchio, e mi scopro allo stesso tempo incredula di piacere tanto a lei e, sorprendentemente, bella. Bella come non mi ero mai sentita prima che lei impiegasse così tanta energia a convincermi che è vero, che è così, che non mi manca nulla per esserlo.

Lascio andare la musica senza più cantarla parola per parola, rilassata nell’inquietudine data da un tempo che – ora lo sento nel petto – scorre troppo lentamente. Almeno finché non giunge l’ora di uscire di casa. In quel momento tutto, dai miei piedi al traffico, comincia ad avanzare ancora più lentamente, e l’ansia di fare tardi si fa strada dentro di me fino alla bocca dello stomaco. È in queste condizioni, col cuore in gola, che mi metto alla guida per raggiungere la stazione.

 

Trovo la banchina del binario due quasi deserta. Lima non è esattamente l’ombelico del mondo e io ipotizzo che quelle poche persone si trovino lì per saltare su un treno e fuggire in qualche lido, con più coste marittime e meno zanzare. Forse c’è anche qualcuno che aspetta una persona, come me, ma non scommetterei che su un paio dei ragazzi più giovani. Uno di loro regge un mazzo di fiori in mano, un gesto tenero cui io ho mancato di pensare. Lascio morire i gerani e dimentico sempre i fiori per la mia ragazza, qual è il mio problema?

Man mano che il cartellone elettronico fa diminuire il tempo di attesa stimato per il treno che tanto agogno, il mio cuore perde sempre di più il senso del limite. Come se fosse certo che alla fine di quel conto alla rovescia un razzo lo centrerà per porre fine a ogni sua fatica, prende a martellare sempre più forte, sempre più violentemente, fino ad assordarmi. Le gambe mi tremano, così decido di lasciar perdere il tentativo di calmarmi con qualche passo e scelgo un punto preciso in cui aspettare.

Sono tutta un nervo. Il cartellone è implacabile. Ma non appena serro le palpebre per l’imbarazzo, perché i tonfi del mio cuore impazzito sono davvero troppo prepotenti perché qualcuno dei presenti possa non averli uditi, eccolo. Il rombo assordante del treno che mi sferraglia davanti fino a fermarsi, agitando l’intero binario.

Sono al punto di non ritorno per la mia ansia, o vita o morte. Non so in che carrozza ha viaggiato Santana, ho dimenticato di chiederglielo, così inizio a fare l’impossibile per cercare di controllare, dalla mia misera posizione intermedia, ogni porta, ogni testa che ne esce. Non dovrebbe essere difficile, mi dico, chi altri vuoi che scenda in questa stazione dimenticata da D-

Mi volto per la quinta volta e la vedo, che scende da quel gradino alto quanto il suo ginocchio trascinandosi dietro la valigia. Veste comoda, da viaggio, con pantaloncini corti di jeans, scarpe da ginnastica e una canottiera che mi ricorda una storia di pirati. Tiene i capelli sciolti, brillano al sole. Arrivo a notare perfino il rilassarsi delle sue dita attorno alla maniglia della valigia prima di scontrarmi col sorriso che mi sta rivolgendo.

Il prossimo sorriso.

Sono io quella che ha solo una borsa con la patente, le chiavi e una borraccia d’acqua, sono io quella che dovrebbe correrle incontro. Ma non appena faccio il primo passo, comincia a correre anche lei.

La corsa è un’agonia di gelso per il mio cuore, ma l’abbraccio equivale al fragore di un milione di fuochi d’artificio. Sentirmi avvolgere di nuovo dalle sue braccia non ha prezzo e devo farmi violenza per non lasciare che più di due o tre lacrime si facciano strada per il mondo esterno, la mia guancia e poi la sua spalla.

La stringo come non mai e inspiro profondamente il suo profumo. Non quello che si è spruzzata sui polsi e dietro i lobi delle orecchie, ma quello della sua pelle, quello che rincorro da tutta la vita.

Rimaniamo immobili, strette in quell’abbraccio come montagne tenaci e ostinate, e nessuna delle due dice una parola. Alla fine, incredibile ma vero, è la mia voce rotta a dover imporsi.

- Mi sei mancata così tanto.

- Lo so - la sento mormorarmi all’orecchio. - Mi sei mancata anche tu.

 

 

 

   
 
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