Silenzio
e vuoto
Estate 2009
Faceva
caldo.
L’aria
umida lasciata dalla pioggia notturna, si appiccicava sulla pelle come un abito
pesante impossibile da togliere.
In
quel momento, però, il cielo era sgombro, di un azzurro che accecava la vista,
mentre quell’altro azzurro gli
accecava l’anima e gliela bruciava, brandello dopo brandello,
nonostante gli anni passati da quella notte.
C’era silenzio in casa, una sorta di oasi ovattata dove non
arrivava alcun suono esterno, nessuna risata di bambino o di acqua che
s’infrange, né palloncini che scoppiano. Era tutto silenzio.
Tutto
vuoto.
La
scuola era finita, e presto sarebbe ricominciata, senza neanche aver dato il
tempo a nessuno di abituarsi a quelle giornate; e i giorni sarebbero passati, e
così i mesi, mentre gli anni continuavano a scorrere come un fiume infinito.
Mentre
tutto rimaneva vuoto.
Mentre
quella parte bella della sua esistenza che lo aveva tenuto in vita, era andata
e venuta, finché un giorno era semplicemente svanita.
Lasciando
tutto di nuovo vuoto.
La
mattina andava avanti, proseguiva la sua corsa verso la notte, lenta e
silenziosa, senza alcun suono, senza alcuna voce, sola tra l’umidità che si faceva strada in quelle giornate d’estate.
Gli
sarebbe bastato poco per avere aria fresca in quella casa, un gesto, un sibilo,
ma rimaneva immobile, rimaneva muto, voleva che
persino la sua pelle piangesse quello che non era stato in grado di vivere,
quello che si era lasciato andare.
Voleva
che il sole si facesse più caldo e forte, e voleva bruciare nel rimpianto di
essere stato nient’altro che un codardo.
All’improvviso
un suono spezzò il silenzio in cui era immersa la casa. Un suono lontano, quasi
di un altro mondo.
Un
suono che gli ricordava le urla di suo padre e i pianti di sua madre.
Si
alzò, lento, guardandosi intorno: non sapeva neppure dove
fosse, in quale punto della casa fosse nascosto, credeva di averlo buttato anni
fa. Una vita fa.
Il
suono continuava.
Più
forte man mano che i suoi piedi avanzavano, ma non
voleva fare alcun gesto, non voleva trovarlo, desiderava solamente che quel
rumore cessasse, che il silenzio tornasse a fargli compagnia.
Lui,
però, continuava la sua musica.
Altri
passi e altri pensieri, e lo trovò, nascosto dietro pile di libri, alcuni dei
quali non erano neppure i suoi.
E
il suono continuava.
“Smettila.
Smettila…”
«Smettila!»
e il rumore cessò.
Trasse
un profondo sospiro di sollievo e si sfregò gli occhi
con le dita: era stanco, terribilmente stanco.
«Non userò mai quell’aggeggio.»
«Perché no? È comodo. Non sempre potrò
mandarti delle lettere via “piumati”. Tra i Babbani è
un sistema che non si usa più da secoli, quindi potrebbe sembrare quantomeno
strano.»
«Sei una strega
brillante, ingegnati!»
«Sei un mago rompiscatole! E molto coraggioso… non ti farà mica paura usarlo?»
«Certo che no! So come si usa!»
«Bene, problema
risolto.»
«Bene.»
Il
suono riprese a fendere l’aria e per un attimo la sua gola si strinse.
Uno
squillo, e poi ancora uno.
Afferrò
quell’aggeggio e per un attimo
sorrise mentre se lo avvicinava all’orecchio, in silenzio.
Le
sue labbra non si mossero.
«Sto
per tornare» parlò una voce dall’altra parte, lontana, chissà da dove.
La
sua bocca non si mosse.
«Mi
sono sposata.»
Per
un attimo gli sembrò di morire, di perdere il controllo di ogni singolo muscolo
e nervo, e crollare a terra, esanime, mentre il caldo aumentava e l’umidità gli
marciva le ossa.
«Lui
com’è?» Avrebbe voluto dire tante cose, farle tante domande, mandarla al
diavolo, stare in silenzio, ma quelle furono le uniche parole che disse, non sapendo
nemmeno perché e come gli fossero venute in mente.
«Non
è te.»
Rimase
per un po’ in silenzio e poi parlò: «Voglio vederti.»
«No. È meglio di
no.»
«Perché?»
«Lui mi piace,
forse lo amo anche. Io e te siamo complicati. Siamo
sbagliati.»
«Allora
perché me l’hai detto?»
«Perché
volevo lo sapessi da me prima che da altri.»
Ancora
silenzio, ancora labbra che non si muovevano, soltanto il rumore di respiri
lontani che per pochi attimi s’incontravano e si
sfioravano.
Il
rumore di qualcosa che forse si spezzava per sempre.
«Mi piace passare le
ore al telefono con te.»
«Parli quasi sempre tu.»
«Allora forse è per
quello» e la sentì ridacchiare, il suono più bello del mondo.
La amava, la amava davvero
tanto e odiava quel telefono perché voleva che quei respiri fossero sulle sue
labbra, e voleva che la sua bocca fosse sul corpo di lei,
voleva ascoltare il battito del suo cuore mentre le sfiorava il petto, e non
quello stupido oggetto.
«Quando torni?»
«Ho ancora due settimane di
preparazione con il professor Ollsen e poi torno a
casa. Torno da te.»
Il suono più bello del
mondo, ed era solo per lui.
«Ti
auguro ogni felicità, Hermione.»
«Aspe-» ma non sentì altro perché aveva già messo giù il
telefono, aveva chiuso ogni cosa.
Tornò
il silenzio in quella stanza, e tornò il vuoto, mentre l’estate avanzava e il
caldo si faceva sempre più opprimente.
E
bruciava.
Bruciava
l’anima e il cuore.
Una settimana
dopo
Fare
pozioni come sempre lo rilassava, e si era
addormentato; si era sdraiato per un attimo sul divano ormai consunto,
chiudendo gli occhi per qualche istante, giusto per riposare un po’, e aveva
finito per addormentarsi.
Neppure
l’afa che continuava ad opprimere quella casa, aveva
impedito al suo corpo di concedersi quegli attimi di sonno di cui aveva
assoluto bisogno.
Passò
un’ora, e poi due.
«Qui
dentro si muore, da quando ami il caldo?»
Severus
aprì immediatamente gli occhi e quella voce per poco non lo fece cadere dal
divano, provocando dei sorrisi piuttosto malcelati sulle labbra di Hermione.
«Come
sei entrata?»
«Non
mi hai tolto l’accesso a questa casa.»
Non
rispose: era vero, non aveva mai modificato gli Incantesimi di Protezione sulla
sua abitazione, e lei era una di quelle che faceva parte di quel ristrettissimo
gruppo di persone che poteva entrare a loro piacimento.
Perché
non lo aveva mai fatto?
Non
sapeva darsi una risposta, forse, in cuor suo, ancora sperava che potesse
sistemarsi ogni cosa, che potesse ancora essere felice
accanto alla donna che amava più di ogni altra cosa al mondo.
«Mi
stai evitando?» la sua era una domanda, ma fuoriuscì
più come una costatazione, un dato di fatto che non poteva essere smentito.
«Sto
lavorando.»
«Sì,
beh, ho visto…»
«Che
vuoi, Hermione?»
«Mi
stai evitando.»
«Cosa pretendi che faccia? Sei una donna sposata ora, hai la
tua vita, vivila felice e stammi lontana.»
«Mi
stai evitando,» ripeté, mentre gli si avvicinava,
passo dopo passo, guardandolo risoluta indietreggiare, come se avesse paura che
potesse farsi troppo vicina.
«Va
via da qui.»
«Mi
stai evitando.»
«Smettila!»
e le strinse entrambe le mani intorno ai polsi, con forza, ma lei continuò a
ripetere quelle parole, ancora e ancora. «Smettila, Hermione!»
e la spinse verso il tavolo, con impeto, facendo cadere libri, pergamene e
altre cose alle quali non badò minimamente, e la sentì gemere quando il suo
corpo toccò con violenza il legno.
«Smettila…» e la baciò.
Un
bacio folle, insensato, sbagliato.
Un
bacio che aveva tutto il sapore del bisogno, l’odore del possesso, che aveva il
suono di sentimenti troppo forti trattenuti a stento.
E
la toccò, sfiorandole la pelle umida da sotto la maglietta, con una brama che
aveva un che di famelico e di perduto, come se quella fosse stata l’ultima
volta che i loro corpi si sarebbero uniti e le loro anime si sarebbero confuse.
E
forse era davvero la loro ultima volta, perché per loro, il mondo fuori, aveva
preso a vorticare in direzioni troppo distanti, ma in quella casa, in
quell’istante, abbracciati dal caldo dell’estate, c’erano
nient’altro che loro.
E
in quegli attimi il vuoto sarebbe svanito.
E
il silenzio.